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Don Giussani, un impeto di vita senza argini

Intervista. Onorato Grassi è stato fra i primi a seguire il sacerdote milanese. Aveva 17 anni e scoprì per caso le parole di una persona colta e carismatica, che diede avvio al Movimento di Comunione e Liberazione e di cui quest’anno ricorrono i cento anni dalla nascita. Lo si ricorderà con varie iniziative a «Bergamo Incontra», il 25 e 26 giugno allo Spazio Polaresco

Lettura 13 min.
Don Giussani durante una lezione negli anni ottanta (Wikipedia)

Parlare di don Luigi Giussani (1922-2005) significa raccontare di come Cristo e la Chiesa possano essere interessanti per un uomo del nostro tempo, che non crede più in Dio e tantomeno nel Cristianesimo. È quanto intende fare «Bergamo Incontra» , che il 25 e il 26 giugno, allo Spazio Polaresco di Bergamo, ne ripercorrerà in vari modi la figura, anche riproponendo al pubblico tre delle rarissime interviste rilasciate dal sacerdote brianzolo e trasmesse da Retequattro nel 2014.

Comunione e Liberazione (CL), il movimento ecclesiale nato dalla predicazione di don Giussani, ha voluto ricordare il centenario della nascita con una fitta serie di iniziative, tra le quali una mostra online , iniziative che culmineranno nell’udienza in Vaticano con Papa Francesco, il 15 ottobre, giorno della nascita del fondatore.

All’inizio delle celebrazioni, il movimento ha diffuso un manifesto nel quale campeggia una foto in bianco e nero scattata nel 1976 a San Leo (Rn) di una Via Crucis, in cui si riconosce don Giussani a destra della croce, seguito da un gruppo di giovani.

La croce è in spalla a Onorato Grassi, allora da poco laureato in filosofia e oggi professore ordinario di Storia della filosofia medievale, alla Lumsa di Roma. Grassi è stato uno degli stretti collaboratori di don Giussani, del quale ha curato anche alcuni libri. A lui abbiamo chiesto di ripercorrerne la figura, presentandola anche a chi non lo conosce.

MR: Chi era don Giussani?

OG: Giussani era un uomo, amava definirsi così, prima che essere prete. Era uno che viveva la vita e la viveva fino in fondo, con tutti i suoi problemi, nella concretezza della vita, nella difficoltà della vita. La sua grande arte, il suo grande spirito era di saper affrontare non subire la vita, e poter sempre andare avanti. Una delle sue espressioni più famose era: «Ci vuole tanto coraggio a sostenere la speranza degli uomini». Era un uomo che teneva alla speranza di noi uomini. Quindi era uno di cui avevamo bisogno. Il mondo ha bisogno di coraggio, ecco perché non ce ne siamo dimenticati. Per questo per molti di noi ha segnato la vita, perché ci ha insegnato a essere uomini, a essere dentro vita senza alcun timore.

MR: Lei è stato molto vicino a don Giussani, ne ha curato anche alcuni libri. Come l’ha conosciuto?

OG: Io l’ho incontrato casualmente, quando avevo 17 anni mi invitarono a una conferenza di un prete, cui non volevo andare. E difatti arrivai verso la fine, proprio perché volevo snobbare l’invito. Salendo le scale del centro conferenze sentii questa voce roca che sembrava quella di un camionista, che chiedeva: «Ma che cos’è il cristianesimo?». E una ragazza rispose: «Il cristianesimo è amare gli altri». E Giussani disse: «Sì, questa è una conseguenza. Ma c’è qualcosa di più: il cristianesimo è l’assoluto, Dio, che si è fatto uno di noi». Per me fu un colpo e cominciò a interessarmi quella persona. Nacque una grandissima amicizia.

MR: Giussani era una persona sicuramente magnetica. Lo testimoniano anche quelli che non l’hanno amato. Una persona che ha saputo affascinare e portare alla Chiesa migliaia di persone, non solo in Italia. Come si spiega questo, era un magnetismo personale o qualcosa di diverso?

OG: Di diverso? Molto. Perché Giussani non ha mai ricondotto a sé. Era contro il personalismo nel modo più assoluto. Sembra paradossale, parlando di una persona così affascinante, ma ha sempre ricondotto ad un’esperienza di cui lui era cosciente, l’esperienza umana e l’esperienza cristiana. Diceva che l’educatore non richiama a sé non porta a sé i giovani, ma li porta alla realtà. Era uno che ti portava nel presente. Con lui era impossibile non essere nel presente. Mi ricordo quando veniva in Università Cattolica. Alle otto ci vedevamo all’ ingresso per salutarlo. E lui ci chiedeva sempre: «cosa è successo, cosa è successo?». Noi i primi tempi eravamo un po’ sorpresi, eravamo a malapena svegli. Ma lui incalzava, voleva sapere che cosa c’era in ballo, cosa stava succedendo, come andava la vita. La vita economica, la vita nostra, ma anche la vita della società. Ci chiedeva: «Non avete letto i giornali? Leggete i giornali!». Mi ha educato molto. A non vivere del passato né del futuro, ma del presente. E poi era uno con cui non potevi dire niente di banale. E allo stesso tempo c’erano delle cose che noi a volte dicevamo e non ci accorgevano neppure di quello che stavamo dicendo. Lui coglieva sempre queste cose, magari una frase che riproponeva sempre e questa era una grande capacità di cogliere la verità in ogni cosa. Giussani sapeva cogliere la verità, anche in una piccola cosa, non c’era niente che non prendesse sul serio. Si era presi sul serio, senz’altro più di quello che noi eravamo, per cui lui vedeva quello che potevamo essere o quello che avremmo potuto essere. Così le cose diventavano serie anche per noi, Eravamo ragazzi, lui ci mise dentro nella vita degli adulti in un modo sorprendente. Ci trattava come persone adulte non bambini, che potevano affrontare la vita anche a quell’età.

MR: Giussani è stato uno degli uomini della Chiesa italiana più conosciuti fuori dal recinto ecclesiale. Eppure ha rilasciato pochissime interviste. A parte alcuni viaggi, è sempre vissuto nell’ambito della Chiesa di Milano e dell’Università Cattolica. Come faceva a raggiungere chi era lontano dalla Chiesa?

OG: Giussani ha conosciuto moltissima più gente di quello che noi potevamo immaginarci. Per lui ogni persona era importante, con ogni persona che incontrava stabiliva un rapporto. Ricordo un episodio. Si fece un viaggio a Gerusalemme con lui. All’Orto degli ulivi, stavamo salendo sul pullman per andar via, e lui salì col cappello in mano, urlando: «Tirate fuori i soldi che dobbiamo aiutare uno». Allora tutti diedero dei soldi. C’era un venditore ambulante a cui comprò tutto, gli diede 250 dollari. Perché era rimasto colpito dallo sguardo di quest’uomo. Ci disse: «Quegli occhi mi hanno fatto capire che cosa è l’uomo: l’uomo è mendicanza. L’uomo è domanda, domanda di essere». E, colpito, voleva ringraziarlo, non dargli i soldi per la carità, ma ringraziarlo per quello che gli aveva fatto capire. Giussani incontrava sull’esperienza umana gli altri, e per questo gli altri lo incontravano. Bastava un accento, bastava una piccola cosa per trovarsi in sintonia con lui.

MR: Quali sono, secondo lei, i punti essenziali dell’insegnamento di Giussani?

OG: Che Cristo, Dio diventato uomo, è presente nella vita. Se l’infinito, la Bellezza di Leopardi è diventata uomo, allora tutta la vita ha a che fare con questo. È qualcosa che capita, non è un’idea. È un avvenimento. Inoltre Giussani ha capito che la divaricazione tra fede e cultura laica e ragione era nociva sia per la fede che per la ragione. In lui questo amore alla ragione era dominante. Non poteva esserci qualcosa che fosse irrazionale o irragionevole. Lo si sentiva proprio ribellarsi. Una cosa che fosse irragionevole lo faceva stare male. I grandi del Novecento dicevano che ci si alza al mattino per comprendere il mistero della vita, Giussani era proprio così. La ragione è continuare a spalancarsi, per scoprire la grandezza e la molteplicità di fenomeni di cui la vita è fatta. Perché la vita fa capire che cosa è Cristo, perché se non c’è questo nesso con la vita, non si capisce né Cristo né la vita e quando li si mette insieme si comincia a capire un po’ di più dell’uno e un po’ di più dell’altra.

MR: Giussani non aveva un linguaggio facilissimo, né tanto meno pensava che il segreto per attrarre le persone a Cristo fosse adeguarsi ad un linguaggio più moderno. Ma era un metodo. E qual era questo metodo?

OG: Il metodo è quello che lui stesso aveva indicato dal primo giorno del suo insegnamento al liceo Berchet di Milano, quando disse agli studenti: «Io non sono qui perché voi accettiate le cose che vi dico, ma perché abbiate un metodo con cui giudicare e verificare le cose». Questo ha una potenza intellettuale ed educativa enorme. Giussani ha sempre detto di paragonare ciò che sentiamo e incontriamo con le nostre esperienze elementari, perché altrimenti il giudizio ce lo danno gli altri. Il metodo originariamente è il paragone, è il tirare in ballo la propria soggettività, la propria esperienza elementare in tutto quello che si incontra, in quello che si sente, in quello che succede. Questo metodo ti porta a dire pane al pane e vino al vino, quindi a riconoscere le cose come sono. Dall’altra parte a volte dire pane al pane e vino al vino, quando tutti dicono che è Coca Cola non è facile. Perché se tutto il mondo dice che è Coca Cola e tu dici che è vino entri in conflitto con loro. Però questo è il senso dell’umano. L’altro aspetto del suo metodo è aver voluto sempre fare le cose insieme. Diceva che l’educatore deve sempre stare attento ai disagi degli altri, anche accorgersi dei piccoli disagi. Bastava uno sguardo triste, che lui voleva parlarne. E quando il disagio verteva su una questione oggettiva lui voleva parlarne non per parlare della persona, ma di quello che succedeva. E allora diceva: «Facciamo una riunione». Questo lavorare insieme dava responsabilità a noi e nello stesso tempo esprimeva la grande idea che lui aveva della comunione. La comunione non è un fatto associativo, ma dalla comunione fra gli uomini nasce un giudizio, nasce una cultura.

MR: Sta tratteggiando la figura di un uomo che oltre alle caratteristiche soggettive, era anche un grande lavoratore, mi pare.

OG: Era un grande lavoratore. Ed era anche un grande studioso. All’inizio di «Gioventù studentesca» riusciva a seguire cinque sei gruppi di studenti al giorno. Era instancabile, la sua giornata era piena, anche perché studiava molto. Negli anni fiorenti Giussani riusciva a studiare otto/nove ore al giorno, oltre a tutta l’attività che faceva. Leggeva tantissimo.

MR: Che cosa leggeva?

OG: Era un grandissimo conoscitore del pensiero americano, e della teologia americana. Ha letto testi che pochissimi italiani hanno letto. Tant’è che anche i protestanti italiani riconoscono in lui uno studioso sorprendente. Poi tutta la teologia ortodossa, il pensiero del samizdat. Leggeva libri di narrativa che poi citava nei suoi testi. Leggeva i classici, li leggeva e rileggeva. Sapeva a memoria Leopardi. Ada Negri, Rebora. Leggeva le cose che i giovani gli davano e che loro scoprivano e le faceva sue. Lui educava consigliando libri: «Leggi questo libro, poi mi dici cosa ne pensi». Poi leggeva autori che a quei tempi non erano molto famosi in Italia: Von Balthasar, De Lubac, Daniélou.

MR: Da una personalità così ricca, a un certo punto salta fuori Cl. Lui ha sempre rifiutato la definizione di “fondatore”. Ma come si spiega che da lui sia nato Cl?

OG: Giussani diceva che lui non ha mai voluto fondare niente, e così dicendo rivelava anche qual è la natura di Cl, che non è associativa. È un movimento, e un movimento è già nel termine qualcosa che si mette in moto. Lui non ha voluto fondare un’organizzazione. Lui ha voluto mettere in moto. È una coscienza che si mette in moto, le mani che si mettono in moto. Un movimento è qualcosa che non ha argini. Da un uomo vivo non può che nascere un movimento. Perché ti lancia nella vita. Ciò che molti non capiscono è che il Movimento non è un’organizzazione. L’organizzazione bisogna averla, la vita è organica, ma non è una struttura. In uno dei suoi testi Giussani dice che il vero educatore non mantiene una struttura più di due mesi. E con lui era così, al punto che se perdevi il colpo non ti ritrovavi più perché le cose cambiavano continuamente.

MR: Uno dei momenti più alti del cammino educativo di don Giussani con Cl sono stati gli esercizi spirituali. Prima con gli studenti, poi con la cosiddetta Fraternità. Ma forse il punto più acuto erano le tre giorni di Pasqua. In un manifesto diffuso da Cl la scorsa Pasqua, è riprodotta la foto di una Via Crucis del 1976 a San Leo. E nella foto si riconosce un giovanissimo Onorato Grassi. Che cosa avevano di così affascinante questi momenti?

OG: Devo dire che sapevo di questa foto, ma quando l’ho vista mi ha emozionato. Me la ricordo benissimo dopo così tanti anni. La Via Crucis era il cammino che Giussani ci invitava a fare per immedesimarsi con l’esperienza di Cristo attraverso la Madonna. Immedesimarsi nella passione di Cristo, nella passione umana, nella sofferenza, negli ultimi istanti di Cristo, attraverso la coscienza della Madonna , perché anche noi ci immedesimassimo. Quella della foto fu la prima e l’ultima che si fece a San Leo con gli universitari di Cl. Dal ’77 la tre giorni di Pasqua si svolse tra la Certosa di Pavia e il santuario di Caravaggio. E lì cominciò a costruirsi poco per volta quel capolavoro, a mio avviso anche liturgico, che è la tre giorni di Pasqua che non nacque a tavolino. Nacque pezzo per pezzo, perché dalla povertà iniziale, due canti e tre letture, la messa e l’omelia fatta da lui, si cominciarono a mettere i canti, qualcuno gli consigliò il «Da Vittoria» e si entusiasmò. Poi Mozart, poi arrivò Péguy, poi Milosz. Si cominciò a comporre tutto, finché, nel giro di quasi vent’anni, si arrivò a una formulazione di questa tre giorni pasquale. Che ha un filo logico fantastico e un’espressività anche artistica affascinante. Non c’è una pausa sbagliata, perché doveva essere un gesto che aiutava lo spirito. Insomma, non dobbiamo più preoccuparci degli errori, perché dobbiamo essere tutti dediti a quel mistero che si compie in quei giorni.

MR: Nel funerale di don Giussani, il cardinale Ratzinger sottolineò anche il fatto che egli amava molto la musica. Ed effettivamente tutti coloro che si imbattono nella vita di Cl notano questa attenzione alla musica corale e anche alla riscoperta di moltissimi classici, le laudi filippine ad esempio. Quando mai aveva tempo Giussani di sentire questa musica?

OG: Una volta Giussani andò all’aula Verdi del Conservatorio di Milano. E trovò un gruppo di ciellini stupiti di vederlo lì. Si chiesero quale questione ci fosse, qual era il motivo, o forse la finalità di questa sua presenza. E lui rispose: «Sono qui perché mi piace la musica». Aveva una passione per la musica innata. E qui c’è il ricordo del padre che gli faceva sentire la musica. C’era il suo maestro Gaetano Corti, che quando lui tornava in seminario stanco alla sera si metteva al piano e gli suonava Beethoven. Sono cose che segnano. Ma stupisce come lui capisse la musica. Non solamente dal punto di vista tecnico, ma capiva il motivo ispiratore di quella musica, per questo gli piaceva. E la musica non è solamente il suono, è un qualcosa di sorprendente che rivela il cuore dell’uomo, l’animo dell’uomo, la sofferenza, la difficoltà, anche la speranza. Lui coglieva questo.

MR: Anche la musica giovanile, la musica che andava di moda dei vostri tempi?

OG: Non so quanto lui apprezzasse la musica giovanile. Di certo della musica gli interessava l’insieme delle parole e della musica, per lui le parole erano importanti. Per esempio, una volta fece un viaggio con uno che gli fece sentire una canzone di Battiato, «Cerco un centro di gravità permanente», arrivato a destinazione lui impostò tutta la lezione sul centro di gravità, prese quella canzone per farne l’oggetto della sua riflessione. Ci fece conoscere la musica spirituals, i canti russi. Non era affezionato alla musica liturgica o alla musica classica in sé. Gli piaceva la musica che esprimeva qualcosa.

MR: Quali sono stati i maggiori difetti di don Giussani?

OG: Non sta a me giudicare una persona come Giussani. Penso che, come tutti gli uomini possa aver avuto difetti. Ma non riesco a ricordarmi dei difetti. Non è per piaggeria.

MR: Ma non era un po’ irruente e un po’ intransigente?

OG: No, intransigente no, ma che portava al dunque sì. Però questo non è un difetto. Non era irruente, nel senso che imponeva la sua volontà, ma portava al dunque. E anche quando, per esempio, si discuteva, lui aveva un’idea che oggi non va molto di moda: «O mi convinci o ti convinco». Poi abbiamo visto tutti Giussani soffrire e, dopo la sua morte, abbiamo appreso dei suoi momenti di solitudine e anche di penuria, che gli hanno dato un senso della vita molto forte, anche di vicinanza alla gente che soffre e alla gente che ha bisogno. Lui aveva sempre un’attenzione per i mendicanti, per la gente che incontrava, per la gente che non aveva il lavoro, per la gente che aveva un bisogno. Lui lo scorgeva e quando vedeva che davanti a quel bisogno tutti se ne stavano tranquilli, allora sì, diventava irrequieto, ma non perché ce l’avesse con le persone che stavano tranquille, ma perché vedeva il grande bisogno e quindi la grande cosa che si doveva fare, che si poteva fare. Inoltre ha sempre avuto a cuore l’unità tra le persone del Movimento. Penso che a volte alcune divisioni lo abbiano fatto soffrire, perché vedeva un depotenziamento di quello che poteva essere il Movimento.

MG: Chi è Giussani oggi?

OG: Giussani oggi come uomo non c’è più. C’è l’esperienza che da lui è nata e che a mio avviso ha qualcosa di sorprendente e di innovativo che ancora dobbiamo comprendere, che anche la Chiesa deve comprendere. La cosa peggiore sarebbe mettere l’esperienza di Giussani in una delle categorie che possono essere convenienti per formalizzare la vita. È un’esperienza che ha sconvolto, che rimane ancora nel suo forte valore di sconvolgimento, di novità. Io credo che quando Giussani diceva che noi non vogliamo far niente di nuovo dell’essere cristiano, diceva qualcosa di molto importante. Lui non amava il termine «carisma», il termine «carisma» gliel’hanno imposto alcuni teologi. Diceva: «Noi non abbiamo il carisma, noi vogliamo vivere quello che ci hanno insegnato, vogliamo vivere poche cose essenziali del cristianesimo a cui crediamo, secondo un metodo che è dimostrare che quelle cose c’entrano con la vita». Per Giussani il carisma è quello di tutti i cristiani. Credo che la continuità di Giussani sia prendere sul serio la vita come lui l’ha presa sul serio, rimanendo nel solco della coscienza della vita e anche del Cristianesimo che lui ha aperto. Ed è una coscienza che non finisce. Dal punto di vista intellettuale ha compiuto un percorso che avrebbe forse voluto completare. Giussani diceva sempre che la fede è una novità nel mondo, anche culturalmente. Noi dicevamo a lui: «Ma tu sei una novità culturale». Lui rispondeva: «No, no, non scherziamo. La novità culturale è una cosa molto importante. Io magari metto le basi, creo le condizioni perché ci sia una novità culturale. Una novità culturale ha bisogno di decenni, forse di secoli per realizzarsi». Guardare a Giussani in questa prospettiva è molto utile. Vuol dire non ripeterlo, non scimmiottare, ma capire il compito che lui ha proposto e che deve essere continuato nell’esperienza umana e cristiana che lui ci ha lasciato. Per questo c’è bisogno di quello spirito giovanile che per lui era fondamentale, perché la giovinezza è guardare la vita con sorpresa. Giussani fino agli ultimi istanti ha guardato la vita con continua sorpresa, come fosse appunto un adolescente che si spalanca alla vita. Proseguire l’esperienza di Giussani vuol dire guardare la vita ogni giorno con sorpresa, continuando quello che lui ha iniziato a fare e che può essere qualcosa di realmente prezioso per il mondo e anche per la Chiesa.

MR: Cl è un movimento diffuso in tutto il mondo. Sicuramente è il contributo più grande che ha dato Giussani. Ma lei non pensa che talvolta l’identificazione totale di Giussani con Cl possa precludere la conoscenza di don Giussani a chi non si identifica con Cl? Perché bisogna riconoscere che, almeno negli ultimi anni, Cl non gode di buona stampa. È vista come una lobby politica o addirittura una setta o peggio ancora un’associazione a delinquere, in qualche caso.

OG: C’è certamente un tentativo di distinguere Giussani da Cl. A volte si dice: «Giussani è bravo, ma i ciellini sono cattivi». La distinzione secondo me è nociva per capire Giussani. Giussani generava e dire che il padre è buono, ma il figlio è un bastardo, vuol dire che non si riconosce il valore del padre. Vuol dire che il padre ha fallito, che non è un buon padre. Giussani stesso era consapevole di come la vita andasse giudicata. Io non nego che a volte ci fossero delle discussioni e dei momenti anche abbastanza severi di valutazione delle cose che si facevano, ma Giussani non ha mai pensato «Io sono quello puro e voi siete quelli cattivi», anche se voleva che si correggessero gli errori. Lui non consigliò mai a nessuno, di quelli di Cl che si misero in politica, di andare in politica. Perché capiva cos’è la seduzione, ma anche l’inganno che il potere può produrre. Ed era ben consapevole che l’esercizio di certe cariche può essere negativo. Anche se diceva che ci deve essere qualcuno che lo deve fare. Sul fatto che Cl abbia commesso degli errori – sarebbe importante capire quali – non credo che questa eventualità porti a distinguere Giussani da Cl. Cl è la vita di Giussani. Tant’è che l’esperienza di Cl è continuata anche dopo la morte di Giussani. Questo è sorprendente e molta gente ha aderito a Cl senza Giussani, perché ha capito quell’esperienza che lui aveva aperto. In questo senso la continuità di questi 15 anni è molto importante, è sorprendentemente ricca e in linea con quello che Giussani ha fatto.

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