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Galimberti e il suo mini dizionario sul sentire dei giovani

Intervista. Intervista (senza domande) al filosofo ospite a Bergamo il 10 aprile per “Abitare il Silenzio”

Lettura 5 min.

Umberto Galimberti parla a raffica, appassionato, caustico e radicale. Odia le interviste, ma non si ritrae. Sarà a Bergamo in Santa Maria Maggiore mercoledì 10 aprile (ore 20.45, ingresso libero) per “Abitare il silenzio”.

Il Professore ha condiviso con Eppen le sue personalissime definizioni di cinque termini chiave per comprendere le generazioni future. Cinque parole che costituiscono un mini dizionario sul sentire dei giovani e di tutti e che ritorneranno durante la serata organizzata dalla Fondazione Mia, in cui parlerà del silenzio dei ragazzi.

Un tema che a Galimberti sta tanto a cuore da avergli dedicato le 336 pagine del suo “La parola ai giovani”, dove si mette in ascolto e li lascia parlare, limitandosi a condividere i suoi punti di vista sulle loro ansie e inquietudini, legate a un futuro sempre più difficile da immaginare. Un libro che è la prosecuzione ideale delle riflessioni raccolte in “L’ospite inquietante. Il nichilismo e i giovani”, in cui il filosofo parla di rassegnazione e della ricerca di un senso del vivere. Un senso che potrebbe riemergere se solo ci si prendesse lo spazio dell’ascolto, dedicando tempo e attenzione ai ragazzi, perché dal silenzio la loro voce torni a emergere. Una voce forte della consapevolezza di essere realmente ascoltata.

Noi, quasi a voler invertire il meccanismo del libro, abbiamo tolto le nostre domande, lasciando solo le risposte del filosofo, psicanalista e sociologo monzese.

Silenzio

Quando ho incontrato molti giovani durante il lavoro sul libro di cui sono protagonisti, una delle cose che mi ha colpito di più era una risposta ricorrente alla domanda: “Perché non parlate con i vostri genitori e certe cose invece a me le dite?”. Una frase severa ma giusta. “Sappiamo già quello che ci possono dire, quindi non parliamo più con loro”.

I genitori non se ne rendono conto, ma questa è la prima generazione della storia in cui l’esperienza dei padri e delle madri non è più sufficiente. Loro sono vissuti nel reale concreto. Quell’essere immersi nel mondo, che il filosofo Heidegger esprime in tedesco come in der Welt sein. I figli invece, per fare un gioco di parole, non sono in der Welt – nel mondo – ma anche in der Web, nel web. Online. Iperconnessi in un mondo dove le categorie dei genitori saltano. Cambiano i parametri del tempo e dello spazio. La velocità rende le risposte emotive e non riflessive, non c’è il tempo del pensare.

La sola possibilità di incontrarsi è mettersi in ascolto, quando e se i ragazzi aprono una finestra con gli adulti e non parlo di ascolto in modalità: “Adesso ti sento e poi ti dico, ma di un ti sento per capire davvero qualcosa del tuo mondo”. È fondamentale che i ragazzi percepiscano la curiosità dell’adulto e che questa sia davvero genuina. Ma mi chiedo: i genitori sono capaci di ammettere la loro ignoranza del mondo dei figli e di essere disposti a conoscere il loro universo senza preconcetti?

Lettura

Per educare davvero dovremmo avere classi di dodici-quindici persone nelle scuole e sottoporre i professori a test di personalità, per vedere quanta empatia hanno, quale è la loro capacità di leggere e comprendere l’altro nel profondo. Se questo aspetto non c’è mi spiace, ma l’insegnamento non fa per loro. Sarebbe come se una persona alta uno e cinquanta pretendesse di poter fare il corazziere, non si fa.

Solo grazie all’empatia un professore potrà aiutare i ragazzi a passare dall’impulso, all’emozione, insegnando loro a leggere i comportamenti e quindi a distinguere la differenza tra corteggiare una ragazza o stuprarla, insultare un professore o prenderlo a calci.

I sentimenti poi li impariamo anche grazie alla cultura e a quell’enorme libro che li contiene tutti che si chiama letteratura. Pagina dopo pagina scopriamo l’amore, l’angoscia, la frustrazione, messe in scena dai personaggi, soffriamo con loro, li osserviamo agire e da loro apprendiamo. Purtroppo la scuola non aiuta a leggere a sufficienza. In una seconda liceo a leggere erano solo in quattro su una classe intera e secondo l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico il 70% degli italiani pur essendo alfabetizzato non è in grado di capire quello che legge.

Presente

Molti giovani vivono in un tempo assoluto. Parlando con alcuni di loro è emerso come a livello personale siano molto consapevoli di essere in un’età nichilista, ma non li ho visti rassegnati. L’ironia li salva, non parlano come degli sconfitti, sanno in che situazione si trovano. La Storia ha consegnato loro un futuro che rappresenta sempre più una minaccia, che non una promessa. Gli scopi che muovono verso il domani sono fragili alla prova del mondo e offrono poche garanzie di realizzazione.

La vita non è più portata avanti dalla storia. Mi spiego. Quando mi sono laureato nel 1965, dopo un anno e un concorso, ho potuto diventare professore di filosofia. La storia del tempo mi offriva un futuro. Oggi se un giovane si laurea in filosofia, la prima cosa che deve mettersi in testa è che molto difficilmente riuscirà a fare quello per cui ha studiato. Quando il futuro non è una promessa, non retroagisce come motivazione. Come uomini e donne non ci muoviamo perché qualcosa ci spinge, ma perché qualcosa ci attrae. Se il futuro non attrae manca la risposta al perché abbia senso impegnarsi e darsi degli obiettivi e tutto crolla.

Emozione

In Italia si suicidano quattrocento giovani all’anno, più di uno al giorno. La questione è complessa e spia di un disagio profondissimo con cui la famiglia e la scuola faticano a rapportarsi. I genitori parlano troppo poco con i figli e troppo spesso si limitano a chiedere cose concrete. “Hai fame?”, “Come è andata a scuola?”, “Ti sei coperto che oggi fa freddo?”.

Padri e madri si comportano come se i bambini non avessero psiche. Non si chiede mai a un ragazzino se è felice o cosa gli manca per esserlo. Gli si chiede cosa vuol fare da grande, ma non che tipo di persona vuole essere. Non gli si chiede che tipo di relazioni affettive ha con le maestre e i professori o gli amici, o ancora come si sente quando arriva un compito, se prova ansia o noia o frustrazione.

Grazie a queste domande i ragazzi imparerebbero a riconoscere le loro emozioni… e a dirla tutta questo tipo di approccio sarebbe molto utile anche agli adulti. La psiche non la coltiva più nessuno e questo rende impossibile essere consapevoli del proprio sentire e di conseguenza impedisce di saper scegliere davvero. Diventa difficile anche saper trovare un compagno o una compagna per la vita. Mancano le categorie per comprendere l’altro e i suoi bisogni e, quando si spegne la spinta fisica, spesso molte coppie collassano perché il resto non è stato conosciuto.

Tecnica

Siamo nel mondo della tecnica e la tecnica non tende a uno scopo, non produce senso, non svela verità, è mera applicazione. La tecnica è diventata la forma del mondo e gli uomini i suoi funzionari, che rischiano di agire eseguendo, senza essere soggetti pensanti e soprattutto senza il connettersi con il proprio sentire.

Questo sistema è stato inventato dal nazismo, l’età della tecnica non è altro che quello. Nazismo. Quando la storica e giornalista Gitta Sereny chiese più volte al capo del campo di concentramento di Treblinka Franz Stangl che cosa provava quando dava determinati ordini non ottenne alcuna risposta. Poi le venne un dubbio. Forse Stangl non capiva la domanda? All’ennesima ripetizione del quesito il militare disse che non era incaricato di provare alcunché. Il suo compito era far funzionare il sistema. Nella tecnica, nella fredda esecuzione dei protocolli, non c’era spazio per quello che avrebbe potuto sentire una persona mentre portava a termine un compito per cui provava ribrezzo o in cui faceva del male agli altri.

Quando oggi una vecchietta va in posta e chiede informazioni su qualcosa che non capisce e si sente rispondere “Questo non è di mia competenza” allora siamo nell’età della tecnica. Qui la responsabilità fa capo solo a chi è superiore a te, la responsabilità nei confronti di chi hai davanti, che potresti aiutare o indirizzare, è assente. Obbedisci a ordini e procedure che stanno sopra, ma non sai tendere una mano verso l’altro.

Quando un medico esegue il protocollo è salvo. Quando un professore segue i programmi ministeriali è salvo, anche se non ha mai guardato in faccia i suoi studenti. Quando la scuola valuta una prova di comprensione del testo, ma elimina i temi dove emerge la soggettività dei bambini e utilizza griglie che valutano solo la prestazione e non la persona, siamo nell’età della tecnica. Quando per sapere come un bambino sta si parla solo di fame o freddo, ma non di gioia o tristezza la sua voce poco a poco si spegne, inascoltata. Prima o poi arriva il silenzio.