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Ilaria Galbusera, la persona prima della disabilità

Articolo. La pallavolo le ha dato un posto nel mondo da adolescente e oggi, tra impegno per l’inclusione, il sociale e il sogno di una medaglia d’oro, la capitana della Nazionale di Volley Sorde si racconta ad Eppen, riflettendo su accettazione di sé, indipendenza e una società che ha ancora tanto da fare per accogliere realmente la disabilità. È lei l’ospite d’onore di «Inedite», lo spettacolo che Eppen, L’Eco di Bergamo e BergamoTV proporranno in occasione della «Giornata internazionale dei diritti della donna» al Teatro Serassi di Villa d’Almè l’8 marzo alle 21 (ingresso libero)

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Ilaria Galbusera al TEDxBergamo

«Basta, voglio andare in pensione». Lo dice seriamente Ilaria Galbusera, 32 anni, capitana della Nazionale Italiana di Pallavolo Sorde. «Avrei voluto farlo con un oro in tasca, ma per due punti non è andata così». Nel 2018, l’opposto bergamasca è stata nominata all’Ordine al Merito della Repubblica Italiana al Quirinale per il suo impegno nel sociale e oggi, lontano dalla rete di volley, si occupa di Diversity Management per una banca, «dove sono impegnata in progetti di inclusione sia interni all’azienda, sia sul territorio, tra sociale, arte e cultura».

Di anni di ufficio quindi ne davanti ancora un bel po’ prima di smettere di lavorare ma in campo, invece, è attiva dall’inizio delle superiori. Non è mancata nel 2017 in Turchia quando con le sue azzurre si è aggiudicata un argento alle Deaflimpycs, le Olimpiadi per persone sorde; nel 2019 quando agli Europei di pallavolo sordi senior di Cagliari è salita sul primo gradino del podio con la squadra o nel 2020, quando per due soli punti ai Mondiali lei e «le ragazze» si sono classificate seconde e non prime: «due punti – scuote ancora la testa – non mi è proprio andata giù».

Nel frattempo, mentre pensa al suo ritiro, le è già arrivata la proposta di seguire le azzurre in un’altra veste: direttore tecnico per le Olimpiadi 2025 in Giappone. Al momento, Ilaria ha rifiutato la proposta: «vedremo cosa succederà dopo il Giappone. Ora c’è già un direttore tecnico, io se ci arriverò, ci arriverò da atleta». Intanto, Ilaria Galbusera continua ancora a guidare la Nazionale, in attesa di passare il testimone, ma ci vuole la persona giusta. «Non si tratta solo di volley, essere capitana significa anche essere un riferimento per queste ragazze: molte di loro in campo hanno trovato il loro posto nel mondo, come è accaduto a me».

La pallavolo per lei è stata una svolta. Sorda dalla nascita per un fattore ereditario come il papà, l’azzurra cresce in una famiglia di Sorisole con mamma e fratello maggiore udenti. Alle superiori sceglie il Liceo Lussana, ma l’ambiente è ostile. «I primi mesi all’intervallo mi ritrovavo sola con la mia merenda, mi mancava la socialità, ero isolata e alcuni mi prendevano in giro perché non sentivo» ricorda Ilaria, che a un certo punto è andata in blocco: quelle che erano le difficoltà che l’accompagnavano fin da bambina legate alla sordità si sono trasformate in un muro. «Non accettavo più la mia disabilità, la odiavo, non capivo perché dovessi fare sempre più fatica degli altri per ogni cosa. Stavo così male che ho smesso di mangiare e non volevo neanche più andare a scuola».

Una partita di pallavolo del fratello Roberto cambia tutto. Oltre a schiacciate e difese, Ilaria, che all’epoca faceva uno sport individuale come il tennis, in campo vede qualcosa di più: una possibilità di socializzare e di uscire dall’isolamento. Entra quindi a far parte della sua prima squadra. Giocando arrivano nuove amiche e «vedere ragazze della Nazionale che avevano completamente accettato la sordità mi ha convinta che potevo farlo anche io, insieme a un sacco di altre cose, e che c’era da rimboccarsi le maniche per eliminare le tante barriere che c’erano, oltre il campo».

Nella pallavolo in realtà le differenze sono poche: ci sono bandierine al posto dei fischietti e gesti per “chiamare” la palla, dato che non ci si sente o ci si dà le spalle e quindi non si può leggere il labiale; inoltre, si gioca senza alcun tipo di protesi, perché si sia tutte uguali. «Detto ciò, io gioco anche nell’Olimpia in seconda divisione, mentre il capitano della Nazionale Americana Sordi gioca come centrale in serie A. Non c’è niente che ci dica che non è possibile».

Il paradosso della sordità però è fuori dal campo, è una disabilità che non viene percepita fino a che non si entra in relazione con la persona. «È invisibile e per questo a livello sportivo le nostre Olimpiadi, in cui vedi atleti che non hanno problemi fisici evidenti – è brutto da dire – fanno meno spettacolo rispetto alle Paralimpiadi», dove una persona senza una gamba corre i cento metri. «Niente visibilità, niente ritorno economico. Niente ritorno economico, niente visibilità. Anche noi atlete abbiamo sempre giocato senza compensi, solo ora qualcosa si sta muovendo, ma è durissima creare spazio e attenzione».

Questa invisibilità si traduce poi in pregiudizi e generalizzazioni e parole usate a sproposito: «sordomute sono solo le persone sorde che hanno le corde vocali danneggiate e quindi hanno problemi a parlare, non tutti i sordi – spiega Ilaria Galbusera – altre sentono grazie a protesi interne, altre ancora hanno impianti cocleari. C’è chi parla normalmente o chi usa solo la lingua dei segni, detta LIS». In Italia sono circa 40 mila le persone sorde che utilizzano la LIS, una cifra che, se si includono anche gli udenti, raggiunge quota 100 mila. Questa lingua, infatti, viene utilizzata anche da persone udenti, persone che non necessariamente hanno problemi o limitazioni nella comunicazione. È una lingua che può essere utilizzata da tutti. «Poi c’è chi invece è bilingue, perché la LIS è a tutti gli effetti una lingua: in questo caso la plasticità celebrale è pari a chi parla ad esempio inglese e italiano, si ha la stessa apertura mentale».

Solo nel 2021, con il «Decreto Sostegni», l’Italia si è allineata all’Europa, ultimo paese a riconoscere la LIS come lingua a tutti gli effetti. Nonostante ciò, lo studio e l’insegnamento della lingua dei segni è già attivo da tempo con lauree e corsi di perfezionamento in alcuni atenei italiani: Cà Foscari a Venezia, Milano Bicocca, Catania, Palermo e Trento. Secondo Ilaria, questi sono grandi risultati, ma c’è ancora tanto da fare: «la disabilità nasce dal momento in cui entri in relazione con l’ambiente e con le persone che ti circondano, sono tante le barriere architettoniche, ma sono di più quelle culturali».

E il pensiero va all’attualità, a Bergamo Brescia Capitale della Cultura: «abbiamo mandato tanti solleciti per chiedere di rendere fruibili gli eventi come Ente Nazionale Sordi di Bergamo, non solo per noi, ma anche per le persone in carrozzina o cieche, ma non abbiamo avuto, per ora, grandi riscontri».

Ci sono tante altre piccole cose che diventano barriere: «non poter andare al cinema a vedere un film italiano, poiché non ci sono i sottotitoli; impossibile comunicare con il servizio assistenza se si resta bloccati al casello in autostrada o trovarsi soli con l’auto in panne e dover per forza scrivere a qualcuno che chiami il carroattrezzi per te». Il peggio è stato durante il Covid, in pieno lockdown: «per chiedere aiuto ti rimandavano solo a un numero telefonico, mi sono sentita doppiamente isolata e dipendente, dovevo per forza contattare mia mamma».

L’indipendenza è un tema chiave per mettere a fuoco il tema dell’inclusione delle persone con disabilità. Secondo Ilaria Galbusera, il passaggio chiave è «accogliere fornendo strumenti per poter avere pari opportunità in tutti gli aspetti della vita: sociale, culturale, scolastico, economico». Un approccio che rifiuta l’assistenzialismo e punta sulla dignità e sull’emancipazione della persona, sulla valorizzazione delle sue risorse, generando spazi per arricchire il limite offrendo possibilità.

«Attenzione però a non cadere nella retorica del super eroe o dell’“inspiration porn”» avverte l’atleta, ossia quando ci si imbatte in narrazioni che “idealizzano” la persona con disabilità che combatte o sfida le proprie possibilità nel primo caso; mentre con il secondo termine si evidenzia eccessivamente la disabilità e si sminuisce l’individuo, ad esempio quando si considera un’ispirazione una persona con disabilità che è riuscita a raggiungere determinati risultati, nonostante i limiti fisici o cognitivi che ha, non per quello che vale a prescindere.

«Che si tratti di essere capitana di una squadra come nel mio caso – spiega Ilaria – di avere un’alta visibilità o ancora di essere percepita come un simbolo, essere un riferimento richiede una responsabilità e la capacità di capire che è sbagliato dire agli altri “se ce l’ho fatta io, ce la puoi fare anche tu”. Non è così. Siamo tutti diversi e questo va rispettato. Ognuno di noi, però, può fare qualcosa, a partire dal modo in cui ci rivolgiamo agli altri. Anche solo con quello contribuiamo a creare una società più inclusiva e a fare la differenza per qualcuno».

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