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Paranoia, negazionismo e rimozione. Come non dobbiamo parlare di Covid secondo lo storico Paolo Barcella

Intervista. La pandemia ci ha reso tutti testimoni di un evento storico, che segnerà un prima e un dopo sui libri di testo delle future generazioni. Come possiamo essere all’altezza di questo compito? Ne abbiamo parlato con il professore di Storia contemporanea all’Università di Bergamo, fra i curatori di “Ricordami”, domenica 27 settembre ad Alzano

Lettura 4 min.
Le vie deserte di Alzano durante il lockdown (Yuri Colleoni)

Scrivere la storia mentre la si sta vivendo è uno dei compiti di “Ricordami”, l’evento che domenica 27 settembre al pomeriggio ad Alzano Lombardo radunerà la cittadinanza in un ricordo comune delle vittime del Covid. Famiglie e bambini si troveranno al Parco Montecchio a partire dalle 16, portando testimonianze fotografiche, video e oggetti dei loro cari scomparsi.

È da qui che prenderà vita un’attività laboratoriale, seguita da una teatralizzazione che avrà come protagonisti le persone comuni e alcuni artisti, fra cui Oreste Castagna e Silvia Barbieri. Il tutto è organizzato dall’associazione culturale EduFactory, in collaborazione con la città di Alzano Lombardo. Fra i curatori c’è anche uno storico di professione, Paolo Barcella, professore di Storia contemporanea all’Università di Bergamo, che ci ha raccontato il senso profondo di questa operazione.

MM: Come funziona il laboratorio storico che è alla base di “Ricordami”?

PB: È un progetto legato al recupero delle tracce delle persone scomparse, in particolare il loro volto, il loro mestiere e il loro spazio. L’idea riprende un laboratorio dedicato alle storie di famiglie che ho proposto per anni agli studenti dell’università. Loro recuperavano foto, oggetti e produzioni scritte, contestualizzandole in una riflessione sul periodo storico. Anche nel caso di Alzano, le persone sono state invitate a portare immagini, video e oggetti: dal grembiule della nonna alla roncola che usava lo zio per tagliare il bosco dietro casa. Sembra che qualcuno si presenterà addirittura con un Ape car. L’idea è di produrre una traccia che rimanga anche per il futuro. In questo caso, i protagonisti non saranno universitari, ma le famiglie di Alzano. Dell’attività ludico-laboratoriale, in particolare con i più piccoli, si occuperanno Oreste Castagna, Silvia Barbieri e altri esperti, visto che io non mi intendo di teatro né di bimbi.

MM: Perché in questo progetto è stato inserito uno storico?

PB: La mia è una funzione di consulenza. Ho sempre dato la disponibilità a partecipare ad attività dedicate all’elaborazione del lutto, che passa anche attraverso il recupero della memoria. Mi interessa molto che vengano coinvolte le nuove generazioni, che devono fare i conti con la scomparsa dei nonni, avvenuta in modo traumatico.

MM: Qual è il compito della storiografia contemporanea nel raccontare il Covid? Abbiamo delle responsabilità nei confronti dei posteri?

PB: Io ho cominciato a scrivere di Covid sui siti con cui collaboro perché, fin dall’inizio di marzo, ho preso come un impegno politico fare sentire una voce da Bergamo, quando ancora nessuno si stava rendendo conto della situazione. In un’ottica di lavoro da storico, ha senso costruire e ricordare quanto che è accaduto nel modo più ricco possibile, per contribuire alla costruzione degli archivi di domani. Bisogna permettere ai futuri storici di capire cosa è effettivamente successo, non solo nel conteggio dei morti, ma riportando le discussioni, i conflitti, le paure. Ai posteri interesserà anche l’impatto sociale e culturale che il Covid ha avuto.

MM: Raccogliere le testimonianze di chi “ci è passato” va in questo senso?

PB: Sì, e non è una novità in ambito storiografico. È simile al lavoro che fece il filologo Leo Spitzer raccogliendo in un volume le “Lettere di prigionieri di guerra italiani” (1915-1918), molti dei quali per la prima volta si confrontavano con la parola scritta.

MM: Il Covid come la guerra?

PB: Io non credo che la metafora bellica sia funzionale a raccontare il Covid, ciò che hanno in comune è che si tratta di eventi periodizzanti, di quelli che tracciano una sorta di linea fra il prima e il dopo.

MM: Altre possibili analogie?

PB: L’iniezione diffusa di tecnologia che si ebbe con il primo conflitto mondiale. Ora è accaduto lo stesso con il digitale, che è entrato in tutte le case e i posti di lavoro. Il Covid ha portato ha una alfabetizzazione informatica di massa senza precedenti.

MM: “Ricordami” ha anche una forte valenza comunitaria. C’è bisogno di una rielaborazione collettiva di quanto è successo?

PB: Io penso che rielaborare sia fondamentale e su questo si gioca una partita politica importante. Il recupero di un insieme di memorie individuali avviene a beneficio della comunità. Lavorare sulla memoria fa parte di un processo di elaborazione collettivo, non per forza gradito.

MM: Non sempre si vuole ricordare?

PB: C’è chi vuole dimenticare o rimuovere, perché così funziona la psicologia umana. Ma tutti, nei prossimi mesi e anni, dovremo elaborare quello che è successo.

MM: Lei ha parlato spesso dei risvolti psicologici dell’emergenza sanitaria, in particolare nelle aree più colpite. “Ricordami” può aiutare in questo senso?

PB: Per noi bergamaschi il Covid è stato un evento di portata traumatica, con ricadute che capiremo da qui ai prossimi due anni. “Ricordami” sarà una forma di elaborazione di quanto abbiamo vissuto: chi si dà questo compito riesce a gestire meglio il trauma, a me personalmente ha aiutato.

MM: Alcuni paesi hanno perso un’intera generazione. Che impatto avrà questo sulla nostra comunità?

PB: Era una generazione che, per diverse ragioni, ha avuto dalla sua la fortuna di potere andare in pensione, rimanendo attiva e in salute a lungo. Questo ha consentito loro di dedicarsi al volontariato, all’associazionismo, di mettere a frutto le loro capacità e diventare dei pilastri delle comunità. Hanno avuto un’alta rilevanza sociale: dal nonno che faceva attraversare le strisce pedonali agli scolari, a quelli che organizzavano la grande festa dell’oratorio. Sono andati in pensione prima di una crisi che ha messo in crisi le generazioni future e hanno potuto aiutare i loro figli. Banalmente, erano quelli che curavano i nipoti.

MM: Molti di loro si sono resi conto di essere anziani solo con il Covid…

PB: A dare dell’anziano a un settantenne di oggi si offende. Cosa succederà adesso? Alcuni vuoti saranno colmati da altre energie, altri no.

MM: Come è possibile che esistano i negazionisti del Covid, quando tutti abbiamo visto le bare di Bergamo?

PB: Sono andato a cercare sui giornali dell’epoca i dibattiti di oltre un secolo fa sull’influenza spagnola. Il panorama è simile al nostro: ci sono gli spaventati, i paranoici, ma anche quelli che vogliono solo il ritorno alla vita normale e negano i morti. Tutti i negazionismi hanno una base di tipo paranoico, cioè una percezione distorta della realtà. Un negazionista del Covid dirà che le bare erano vuote, e che noi facciamo parte del complotto. C’è uno scarto fra realtà e rappresentazione.

MM: Un problema psichiatrico che rischia di diventare un problema politico?

PB: Già Elias Canetti in “Massa e Potere” spiegava come la paranoia è un meccanismo fenomenale per la politica. È funzionale a un discorso pubblico semplificato, che rende più accettabili realtà complicate e traumatiche. Il paranoico rifiuta sempre il riferimento alla realtà, per lui tutto è un complotto organizzato per opprimerlo. La salute del nostro tessuto sociale sarà possibile solo limitando la deriva negazionista.

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