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Trump, Biden, il Covid e le elezioni: cosa sta succedendo in America secondo Oliviero Bergamini

Intervista. In occasione del suo intervento per Molte fedi (il 9 novembre) abbiamo fatto due chiacchiere con il neo vice-direttore di Rai News 24, per cercare di capire la complessità dell’attuale situazione negli USA

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(Marvin Ruiter)

Sono settimane concitate negli Stati Uniti. A pochi giorni dalla fine degli Election Day (le elezioni terminano il 3 novembre, ma probabilmente per i risultati ci vorranno alcuni giorni), la situazione appare quanto mai incerta e sospesa.
Tra Donald Trump e Joe Biden è in atto un braccio di ferro a distanza, e la sensazione dominante è che il nuovo presidente degli USA sarà eletto con poche e decisive manciate di voti di differenza.

L’America di oggi appare radicalmente diversa sia da quella raccolta da Obama tra le ceneri guerrafondaie del doppio mandato Bush, che da quella complessivamente delusa lasciata nelle mani di Trump ormai quattro anni fa.
Se Trump oggi appare in svantaggio nei sondaggi, non è nemmeno scontata una trionfale vittoria di Biden: perché – e lo vedremo – non è così ovvio che l’elettorato democratico riesca effettivamente a esercitare il suo diritto di voto.
Inoltre, la nomina alla Corte Suprema della reazionaria e anti-abortista Amy Coney Barrett, storica paladina dei repubblicani, potrebbe rappresentare una seria ipoteca per Trump, pronto a strillare ai brogli elettorali in caso di una vittoria del rivale.

Insomma, gli Stati Uniti si trovano sul ciglio di un baratro, e nessuno ha la certezza di ciò che avverrà nelle prossime settimane. In tutto questo, la seconda ondata epidemica di Covid aggiunge ulteriori preoccupazioni su un Paese già dilaniato dalle tensioni sociali e razziali. Per farla breve, non è una situazione semplice.

Proviamo a capirci qualcosa di più con Oliviero Bergamini, ex-corrispondente dagli Stati Uniti per la RAI e da poco vice-direttore di Rai News 24. Bergamini, bergamasco di nascita, terrà un intervento all’interno della rassegna Molte fedi sotto lo stesso cielo il prossimo 9 novembre alle ore 20:45.

LR: L’epidemia da Covid ha puntato un faro sull’elefante nella stanza: il virus colpisce soprattutto le persone più povere. Come si spiega questo fenomeno?

OB: L’America è un Paese che noi conosciamo soprattutto attraverso i film e le serie TV, che rappresentano una realtà estremamente parziale e filtrata, dalla prospettiva di classi medio-alte. In realtà è un Paese profondamente ingiusto dal punto di vista sociale, con sperequazioni economiche mostruose; per dare un dato: secondo studi della Federal Reserve un terzo (forse più) delle famiglie americane non potrebbe far fronte a una spesa imprevista di 400 dollari, altrettante se non di più vivono from paycheck to paycheck, ovvero da uno stipendio all’altro. In poche parole, non hanno risparmi. Inoltre, il sistema di assistenza socio-sanitaria è terribilmente carente. Ci sono svariate decine di milioni di persone senza alcun tipo di assicurazione sanitaria e altrettante con un’assicurazione insufficiente, che quindi non copre la totalità delle spese mediche necessarie. Con la pandemia tutti questi aspetti sono venuti alla luce più che in passato. Il governo federale ha stanziato diversi miliardi di dollari per ammortizzare l’emergenza, ma ora questi fondi sono esauriti e si sta discutendo proprio in questi giorni se rinnovarli o meno.

LR: Attualmente tante persone sono disoccupate o senza stipendio…

OB: Sì, e vanno alle mense di carità o comunque si fanno aiutare. A New York ad esempio le scuole sono state tenute aperte per consentire alle persone di accedere alle mense. Da un punto di vista sanitario, è vero che le cure per il Covid sono considerate eccezionali e quindi gli ospedali vengono rimborsati. Se uno si ammala di Covid non viene lasciato a morire. Però se il malato in questione appartiene ad un gruppo etnico svantaggiato è facile che abbia già in partenza condizioni di salute meno buone rispetto agli altri. Diabete, malattie cardiache non curate eccetera. Quindi il Covid arriva su un corpo fisico già debilitato, ed è più facile che di Covid muoiano gli afroamericani e i latini, piuttosto che i bianchi. È una situazione strutturale che solitamente è nascosta e non viene vista da noi europei. La pandemia in questo senso è stata una cartina tornasole.

LR: Vedendo le finali NBA di quest’anno, con tutto l’apparato di sensibilizzazione al voto che ha imbastito la lega in vista delle presidenziali e le prese di posizione sul movimento Black Lives Matter, le chiedo: dall’Italia si fatica a capire quanto di tutto questo arriva effettivamente ai fruitori di questi messaggi. L’afroamericano che si guarda Lakers-Heat dal divano di casa, si sente convinto a votare?

OB: È una bella domanda. Magari non direttamente dall’NBA, anche se poi anch’essa – o personaggi come LeBron James – ha grande seguito. Quest’anno l’NBA ha fatto una cosa eccezionale, è stata l’unica lega così fortemente schierata, arrivando a decidere di non giocare alcune partite. Per non parlare dei messaggi sulle magliette, delle conferenze stampe e degli inni in ginocchio. Tutto questo dimostra quanto rilevante sia questo movimento, nel suo complesso, in America.

LR: Ma sta funzionando?

OB: Sembra che ci siano dei risultati. I dati di oggi ci dicono che gli afroamericani stanno andando alle urne per il voto anticipato molto più che in passato. Questo si spiega sia con l’astio nei confronti di Trump, sia con la sensibilizzazione che c’è stata. Va anche detto che c’è stato un contraccolpo a queste prese di posizione dell’NBA: tanti conservatori hanno denunciato questa politicizzazione dello sport, che probabilmente è costata alla NBA in termini di ascolti (lo stesso Trump è su questa linea). Quindi c’è stato un dibattito su quanto queste scelte siano state un autogol o meno.

LR: Voto anticipato, voto per posta: Trump è sempre stato scettico e pronto a gridare ai brogli per queste modalità. In realtà proprio la vittoria di Trump quattro anni fa potrebbe sembrare un enigma in un Paese dove le minoranze etniche rappresentano una quota – se non maggioritaria – comunque significativa della popolazione. Ho letto un recente articolo di Pietro Bianchi in cui lui sottolineava la rilevanza del fenomeno della limitazione al voto, vigente in tanti stati, che rende in realtà molto difficile esercitare il proprio diritto di voto a queste minoranze. È una circostanza che rischia di ripetersi anche quest’anno?

OB: Hai toccato un punto fondamentale di cui però si parla pochissimo. In inglese si chiama voters soppression, e in Italia facciamo quasi fatica a capirla. Da parte soprattutto repubblicana, è difficile girarci intorno, c’è da anni una deliberata strategia volta a limitare in vario modo il voto delle minoranze. Questa strategia si concretizza a livello di singoli Stati, perché sono loro a regolare le procedure di voto. Ad esempio autorizzando alcuni documenti d’identità e vietandone altri. In molti posti si poteva votare esibendo come documento le bollette della luce. Ora molti Stati l’hanno vietato, accettando invece la patente. Sembra una regola di buon senso, ma in America molti non guidano perché sono troppo poveri. E ora non possono votare. Quindi questa limitazione screma i votanti. Oppure alcuni Stati hanno messo un’unica cassetta in tutta la contea dove è possibile depositare il proprio voto. Questa limitazione è ovvio che colpisce maggiormente chi fa più fatica a spostarsi – quindi i poveri. In Florida fino a poco tempo fa chi aveva subito una condanna penale non poteva più votare, anche una volta che aveva finito di scontare. Dopodiché è stato passato un referendum che ripristinava il diritto di voto, ma i repubblicani hanno imposto una legge che consentiva agli ex-detenuti di votare solo a patto che avessero pagato tutte le multe arretrate. È chiaro che molti di essi non erano in condizione di farlo, e quindi continuavano a non poter votare. In una situazione in bilico, queste centinaia di migliaia di voti (se non di più), potrebbero risultare determinanti.

LR: Lei è stato per anni corrispondente RAI a New York. Io ci sono stato nel 2018, innamorandomi – come credo sia scontato – della città. Se ci tornassi oggi, quanto sarebbe diversa Manhattan da come la ricordo io?

OB: È abbastanza diversa. La pandemia ha colpito duro. Tantissimi uffici sono vuoti, perché molti lavorano in smart working. Questo ha creato un’atmosfera quasi surreale, soprattutto verso sera. I ristoranti hanno meno clienti, nel periodo di lockdown erano sospesi gli spettacoli a Broadway, mancano completamente i turisti, quindi NY è molto moscia – per usare un termine banale – quasi spettrale, soprattutto nel downtown. C’è poi tutta una querelle in atto tra chi profetizza la morte di New York e chi – come Jerry Seinfeld – sostiene che la città risorgerà. Sicuramente se tu tornassi adesso percepiresti una situazione diversa e molto pesante, soprattutto la sera. È però anche vero (io ero lì fino a qualche settimana fa) che la città è sempre affascinante, che la gente va ancora a Central Park e Bryant Park, il traffico c’è, insomma l’energia la senti sempre. La difficoltà c’è e si sente, non si sa se questi segni saranno permanenti, ma New York resta una città con una vitalità incomparabile.

Sito Molte fedi sotto lo stesso cielo

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