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Il razzismo strutturale della società americana e il movimento Black Lives Matter

Intervista. Pietro Bianchi, bergamasco, è docente di Critical Theory alla University of Florida. Ci ha raccontato le discriminazioni di una società americana fondata sulla diseguaglianza, dove nascere nero è già uno svantaggio. Ma le proteste di queste settimane forse possono cambiare finalmente qualcosa

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Black Lives Matter a Vancouver (Michal Urbanek)

Epidemie a parte (ma, come vedremo, in realtà i due aspetti sono molto legati), il 2020 passerà alla Storia anche per la risonanza del movimento Black Lives Matter a seguito delle rivolte di Minneapolis. Nel giro di poche settimane è sembrato di tornare indietro di trent’anni, ai disordini di Los Angeles nel 1992 per il pestaggio di Rodney King. Ma ad uno sguardo più attento, le differenze da allora sono notevoli e determinanti.

Abbiamo approfondito la questione in una densissima intervista con Pietro Bianchi, docente di Critical Theory presso la University of Florida, che recentemente ha scritto l’articolo “Critica della ragione suprematista bianca” su dinamopress.it.

LR: Nel tuo articolo su dinamopress.it elenchi una serie impressionante di dati che restituiscono una situazione dove il razzismo è qualcosa di strutturale nella società americana. Il problema non sono quindi le proverbiali “mele marce”, ma qualcosa di più profondo e radicato.

PB: Parlando di razzismo spesso si utilizza la parola “pregiudizio”, come a sottintendere che questo fenomeno riguardi solo la percezione delle persone. È una prassi valida per la società americana ma che si può estendere anche all’Italia. Invece quello che molti studiosi della razza hanno tentato di articolare negli ultimi decenni è il concetto di “razzismo strutturale”, ovvero le modalità attraverso cui la società riproduce sé stessa e riproduce alcune forme di ineguaglianza.

LR: Qualche esempio?

PB: Ci sono molti dati che mostrano come negli Stati Uniti la questione razziale sia in realtà un aspetto direttamente sociale, cioè come un gruppo etnico sia vittima di forme di disuguaglianza plateali. Un libro di Bruno Cartosio uscito in questi giorni per Derive e Approdi (“Dollari e No. Gli Stati Uniti dopo la fine del secolo americano”, ndr) mette in luce ad esempio come nella città di Chicago, passando dai quartieri a predominanza nera a quelli bianchi vi sia un gap in termini di aspettativa di vita di quasi vent’anni. Altri dati fondamentali sono quelli relativi alle carceri, dove la comunità afroamericana è rappresentata con numeri assolutamente sproporzionati rispetto a qualsiasi altro gruppo sociale. Oppure la media degli stipendi: una famiglia nera ha un income annuale medio di circa 40mila dollari, mentre una bianca arriva a circa 68mila. C’è anche la segregazione abitativa, sostanzialmente legalizzata fino agli anni ’60: nei quartieri neri le banche potevano condurre politiche discriminatorie per i mutui intestati a persone di colore. Questa cosa è stata poi resa illegale “di facciata”, ma in realtà la segregazione abitativa è continuata e ci sono studi che dicono che ancora oggi sia la stessa che c’era all’inizio del ventesimo secolo. L’insieme di questi dispositivi politici ed economici fanno sì che ancora oggi nascere nero negli Stati Uniti significhi andare incontro a una serie di discriminazioni culturali ma soprattutto economiche e politiche.

LR: L’epidemia da Covid – insieme all’omicidio di George Floyd – ha contribuito nel riportare l’attenzione su queste forme di disuguaglianza. Ed è successo proprio perché ha colpito le persone più vulnerabili, che negli USA spesso coincidono con le minoranze etniche. Come spieghi questo fenomeno?

PB: Un virus sulla carta è un concetto universale e democratico che poteva colpire chiunque allo stesso modo. Molto presto invece ci si è accorti come alcuni gruppi sociali fossero molto più esposti, come nel caso dei lavoratori necessari: oltre a medici e infermieri anche fattorini, spazzini, corrieri, insomma tutta una serie di mansioni non qualificate svolte – proprio per le discriminazioni strutturali che abbiamo detto – in prevalenza dalle minoranze etniche. Per questo motivo risulta che gli afroamericani abbiano un’esposizione al Covid decisamente maggiore rispetto ai bianchi.

LR: E una volta contratto, hanno meno possibilità di ricevere cure e assistenza.

PB: È l’enorme partita sulla questione dei diritti sanitari, una battaglia molto delicata negli Stati Uniti e che riguarda a maggior ragione proprio le minoranze etniche, che hanno meno possibilità di accesso alle cure assistenziali. Nelle ultime settimane quindi si sono intrecciate una maggiore esposizione al contagio e un crescente impoverimento: si calcola che in questo momento la disoccupazione negli Stati Uniti sia arrivata al 10%, un dato che non ha precedenti dopo la crisi del ’29. Ci sono stati più di 40 milioni di richieste per il sussidio di disoccupazione, e anche in questi dati la comunità nera è sproporzionalmente rappresentata. Quando dico sproporzionalmente intendo che è rappresentata in modo maggiore rispetto a quella che è la fetta di nera della popolazione americana (circa il 13% del totale). Tra i disoccupati o i detenuti la percentuale di persone di colore è decisamente più alta del 13%. È uno scollamento che suggerisce un problema, appunto di razzismo strutturale, dietro a questi processi. Quindi il fatto che questi movimenti siano arrivati in un momento di crisi socio-economica così evidente ci dice sicuramente qualcosa della fase che stanno attraversando gli USA.

LR: La gestione Trump si è distinta più che altro per la solita “tattica dello struzzo”, per la divisione manichea tra manifestanti “buoni” e “cattivi” e per rappresaglie spesso violente contro i giornalisti e la libertà di stampa. Eppure il messaggio del movimento in atto è stato raccolto anche da moltissimi bianchi. È qualcosa di nuovo e significativo?

PB: La storia delle rivolte razziali è lunga, da inizio Novecento a quella del ’92 di Los Angeles. In quel caso non c’era stata altrettanta solidarietà da parte della comunità bianca rispetto a quanto sta avvenendo per il movimento delle ultime settimane. Ancora Black Lives Matter nel 2014 era stato un movimento quasi uniformemente afroamericano. Una delle cose più interessanti di queste ultime settimane è che il movimento si sia molto generalizzato, e a differenza delle volte precedenti stia raccogliendo un consenso, anche rispetto agli aspetti più radicali, veramente alto. Questo movimento va capito, non solo per gli episodi di piazza più plateali, ma per un discorso che gli sta attorno che ne fa capire la portata strutturale e generale.

LR: Proviamo a descriverlo.

PB: Dalle parole e dalle prese di posizione di molti sportivi, registi e intellettuali black e tout court è stato subito chiaro che il grado di comprensione di questo movimento è molto alto, e si è capito immediatamente che l’evento dei riot di Minneapolis andava letto in una maniera sintomatica. Non era solo un’espressione di rabbia generica, ma un modo per provare ad articolare politicamente una questione strutturale che riguarda la società americana tutta. E che il consenso sia così alto lo si vede ad esempio dal fatto che per la prima volta gli agenti protagonisti di queste violenze siano stati subito licenziati in tronco o indagati con una rapidità mai verificatasi prima. Se guardiamo quanto era successo nei casi precedenti, tutti gli agenti responsabili non erano mai stati sollevati dai loro incarichi o avevano avuto delle contravvenzioni marginali. Stavolta invece la percezione di un problema strutturale nelle forze di polizia è molto chiara.

LR: C’è addirittura l’idea di smantellare la polizia…

PB: Il consiglio comunale di Minneapolis ha detto di voler smantellare il police department, e molte altre città stanno riflettendo sull’idea di una riforma del law enforcement locale. Un altro esempio, magari stupido ma per me significativo, è il caso NASCAR: l’associazione sportiva delle corse automobilistiche americane, molto popolare al sud, molto bianca e storicamente legata a forme culturali ambigue, che decide di bandire dalle proprie gare la bandiera sudista come sinonimo di razzismo. Sono tutti segni di come questo movimento in realtà stia cambiando la percezione collettiva rispetto questi temi.

LR: Un movimento ormai trasversale a tutti gli Stati Uniti, tanto che perfino in roccaforti storicamente repubblicane ci sono state manifestazioni; penso ad esempio al caso dei 117 di Harlan, proprio in uno dei “fortini” di Trump.

PB: È successo anche per Breonna Taylor, forse il caso ad oggi più “scoperto”: una donna uccisa dalla polizia in casa propria nel Kentucky, e proprio lì, in uno degli Stati tradizionalmente più repubblicani, ci sono state numerosissime manifestazioni. Questo movimento si è esteso anche molto lontano dai grandi centri urbani come Los Angeles o New York. È un altro segno che si sta generalizzando e che la percezione pubblica sta cambiando.

LR: Perché è successo proprio con Floyd? Nel senso, da Garner ad Arbery, passando per Brown, Martin e Taylor, i casi di violenza e soprusi ai danni di neri non sono certo mancati negli ultimi anni. È per la potenza iconica della foto diventata virale?

PB: Sicuramente l’immagine è forte. Mostra in modo davvero nitido l’intollerabilità e la gratuità di questo sopruso. Quindi sicuramente il tipo d’immagine gioca un ruolo importante. Io comunque credo, come hanno scritto alcuni intellettuali afroamericani negli ultimi giorni (vedi Keeange-Yamahtta Taylor sul New York Times), in una dinamica dell’accumulo: i movimenti del 2014/15, ma anche le rivolte del ’92, hanno lasciato traccia. Anche le tante riflessioni fatte sul razzismo strutturale in questi anni, sulle violenze della polizia, e – in ambito soprattutto hip hop – una nuova ondata di riflessione musicale molto avanzata (pensiamo a J Cole o Rapsody). Questo accumulo culturale ha fatto sì che la questione del razzismo strutturale sia diventata patrimonio collettivo. La scintilla del video ha accesso definitivamente il fuoco: così l’evento “pretestuale” è stato la cartina tornasole di un sentire più generale.

LR: In questi anni la cultura black è stata massivamente esportata attraverso film, dischi, serie TV, eccetera, venendo spesso fashion-izzata e pronta per essere data in pasto a chiunque. Voglio dire, io – maschio occidentale bianco e medio-borghese – ti sto intervistando mentre indosso una maglietta dei Run the Jewels. Io stesso sono un sintomo di una trasversalità costruita attraverso una vasta produzione culturale che probabilmente ha creato il terreno fertile per il successo (almeno a livello di risonanza) di questo movimento.

PB: L’esposizione mediatico-simbolica che ha avuto la comunità afroamericana in America e (per riverbero) nel resto del mondo è una cosa interessante e problematica allo stesso tempo. In questa logica non possiamo prescindere dagli anni di Obama, il più grande riconoscimento simbolico alla comunità black. Il problema è che spesso un riconoscimento simbolico non si accompagna a un cambiamento delle condizioni sociali.

LR: In quel momento c’è stata un’esposizione molto forte…

PB: Gli otto anni di Obama, di Beyoncé e di Kanye West, hanno portato un’esposizione davvero globale della cultura black nel mondo. E non parliamo della cultura black dei Robinson, ma di una cultura che usava un immaginario come quello delle Black Panther (pensiamo a Beyoncé nell’intervallo del Super Bowl). E poi Obama presidente: cosa c’è di più simbolico di un presidente nero per dire che l’inclusione dei neri all’interno di quell’idea progressiva di democrazia americana sia avvenuta in maniera definitiva? In realtà è interessante come questa cosa non si sia accompagnata ad un reale cambiamento nelle condizioni sociali della comunità afroamericana. Tutti gli indicatori sociali di cui parlavamo prima e che restituiscono la dimensione strutturale del razzismo americano, non sono cambiati.

LR: Insomma i simboli non bastano…

PB: Esatto. Il movimento di queste settimane manifesta la consapevolezza di come per cambiare i problemi strutturali della società americana non basti un riconoscimento simbolico. Non bastano i Grammy e non basta nemmeno un presidente afroamericano. C’è bisogno di mettere in discussione nel profondo le condizioni che rendono questo Paese particolarmente razzista. E questo è secondo me un segno della grande maturità di questo movimento e della comunità afroamericana nel riflettere sulle cause della propria marginalità.

LR: Posto che sia impossibile conoscere la ricetta perfetta: si parla tanto di “decrescita felice” delle forze di polizia e di aumento (o miglioramento) del welfare. Qual è secondo te la strada migliore da seguire ora? Il capitalismo americano è troppo in simbiosi con queste discriminazioni?

PB: Non è possibile mettere in discussione il razzismo della società americana senza metterne in discussione i presupposti socialmente diseguali. Questo movimento sta riflettendo su come debbano essere messi in discussione proprio questi presupposti. Dirottare i fondi della polizia e della sicurezza verso progetti a beneficio delle comunità e della lotta alle disuguaglianze è sicuramente un primo passo. Chiaramente si tratta di un processo lungo e difficile, ma fa impressione come in sole tre settimane ci siano stati importanti segnali di cambiamento a vari livelli della società americana. Penso che questa sia la strada giusta. Il problema è come questo movimento potrà durare.

LR: Esatto. Ci sono derive che può prendere e che già sta prendendo. Ha diverse immagini già molto iconiche e pronte per essere consegnate a una storicizzazione “pop”: dai manifestanti col pugno alzato alle statue abbattute, fino alla polemica che sta imperversando qui in Italia in merito alla statua di Montanelli. Un movimento nato con i presupposti che hai detto rischia ora di venire “istituzionalizzato” in modo sbagliato e forse frettolosamente superficiale?

PB: Io sono cautamente ottimista. Il rischio che vedo è che il conflitto venga spostato nuovamente sul piano simbolico, tornando agli anni di Obama, quando le problematiche black erano tutte giocate su quel versante. Il fatto che invece questo movimento stia agendo soprattutto dal punto di vista sociale mi sembra un ottimo punto di partenza.

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