93FE310D-CB37-4670-9E7A-E60EDBE81DAD Created with sketchtool.
< Home

Vanesa e i racconti dal Messico. «Quando ti conoscono, i bergamaschi ti aprono il cuore, ma all’inizio non è facile»

Articolo. A Bergamo si è da poco concluso il Festival «In Messico la morte è cultura viva», organizzato in occasione del Día de los Muertos, per rendere omaggio a una delle più sentite tradizioni messicane, dal 2003 anche patrimonio culturale immateriale dell’UNESCO. Il Giorno dei morti ha offerto l’opportunità di conoscere più da vicino i volti di una migrazione sui generis e quelli di una sofferenza invisibile

Lettura 7 min.

«Non potrei mai compararmi con una persona fuggita dalle torture della Libia – non è neanche la nostra intenzione – ma vorrei essere riconosciuta come una parte di quella realtà che migra per amore». A parlare è Vanesa Gutiérrez, originaria del Messico, arrivata a Bergamo più di 10 anni fa, dopo aver incontrato Fabio, bergamasco, ed essersene innamorata. I due si sono conosciuti in una comunità di ragazzi con disabilità nel Sud del Messico e da allora non si sono mai lasciati.

Vanesa inizia a raccontarmi la sua storia all’interno della chiesa di San Lazzaro, profumata di incenso e illuminata dalle candele dell’altare allestito per il Dìa de los muertos, una delle festività più importanti e sentite del suo Paese d’origine. Celebrata ogni 2 novembre, la tradizione risale all’epoca dei conquistadores spagnoli ed è il frutto del sincretismo culturale tra il Cattolicesimo, imposto dagli europei, e le tradizioni precolombiane che onoravano il ciclo della vita e della morte. L’occasione intende ancora oggi celebrare il ritorno temporaneo sulla Terra degli spiriti dei defunti, guidati dall’aroma intenso della resina bruciata (el copal) e dalle fotografie che li ritraggono, poste sugli altari colorati.

Nella chiesetta di San Lazzaro, tra gli scatti, c’è anche quello della madre di Vanesa, posto al centro dell’altare. A Bergamo infatti, da diversi anni, la piccola comunità messicana celebra la ricorrenza dedicata ai suoi defunti. «Non si tratta di folklore, ma di Cultura, della nostra Cultura» precisa Vanesa, mentre si accomoda su una panca per continuare il suo racconto e mi invita a fare altrettanto. Prendono posto accanto a lei anche Estela (nome di fantasia), una giovane messicana arrivata in Italia da poco più di sei mesi, ed Edwin, a Bergamo da quasi due anni.

Membro dell’Associazione culturale “Cielito Lindo” e del Collettivo Mariposas de Amaranto, Vanesa oggi è la referente della comunità messicana di Bergamo, composta per oltre il 70% da donne. «La migrazione messicana è prettamente femminile – mi spiega – gli uomini si contano sulla dita di una mano!». Edwin conferma con un cenno della testa e un sorriso rilassato.

La femminilizzazione dei flussi è una delle caratteristiche più marcate delle migrazioni contemporanee e, di solito, è legata principalmente alle dinamiche del lavoro italiano. Il settore dei servizi domestici, di pulizia, di ristorazione e di assistenza sono infatti i principali ambiti dove le donne immigrate – soprattutto dall’Est Europa – trovano lavoro in Italia. Nel caso delle messicane però, mi avvisa Vanesa, le motivazioni non sembrano essere quelle “tradizionali”: «La maggior parte di noi è venuta qui a Bergamo per amore, non per cercare lavoro, ma per poter costruire la propria famiglia».

Così è stato per lei, Edwin ed Estela. Purtroppo però, continua la donna, proprio perché si tratta di una migrazione spinta da una scelta e non da una necessità – come scappare da una guerra – spesso le difficoltà connesse vengono sottovalutate. Invece, sottolineano i miei interlocutori, arrivare in un Paese straniero, qualsiasi sia il motivo, è sempre un’esperienza un po’ “traumatica”: «I primi mesi in Italia, è tutto bellissimo: è l’euforia della novità» spiega Edwin, arrivato a Bergamo dopo aver conosciuto l’attuale moglie durante l’Erasmus in Spagna. «Poi però – prende la parola Vanesa – nella quotidianità cominciano ad arrivare i problemi: la solitudine, per alcuni la depressione, la voglia di ritornare indietro…».

Non conoscere la lingua, la cultura e le persone del posto può infatti mettere a dura prova e generare una sofferenza «invisibile», poco considerata e legittimata. «Spesso mi dicono “che cosa ti lamenti? Non sei una rifugiata, non sei vittima di sfruttamento sei qui per tua scelta. È vero, ma io credo che ogni tipo di dolore debba essere rispettato, sarebbe meschino il contrario» prosegue la referente, elencandomi tutti quegli aspetti apparentemente “banali” ma che tutti insieme pesano sulle (nuove) vite degli stranieri. Per esempio, il clima«Qua è molto diverso rispetto al Messico e tanti soffrono di meteoropatia» – o il cibo«Siamo abituati a mangiare diversamente: a volte ci siamo debilitati per questo! Non sempre però è facile recuperare i nostri alimenti. Un pacchetto di tortillas costa 6 euro!».

Piccoli pezzi di quotidianità necessariamente lontani dall’abitudine si uniscono alle ulteriori difficoltà che si possono incontrare in un Paese straniero. «All’inizio, non conoscevo la cultura italiana e non sapevo come pormi, come e se scherzare. Ci rimanevo male, non è stato facile ambientarmi» ammette Edwin. Me lo conferma anche Estela, nel suo silenzio e con lo sguardo basso e malinconico. «Che lavoro fai qui?» le chiedo, per coinvolgerla; «faccio le pulizie» mi risponde con un filo di voce e un’espressione di rassegnazione sul volto. «In realtà lei è psicologa!» mi spiega Vanesa, appoggiandole una mano sulla spalla ricurva, «però tutti siamo partiti da zero, una volta arrivati, e abbiamo passato quella fase… Anche io l’ho fatto e ogni volta che spazzavo il pavimento pensavo: “io ho due lauree!”, ma non potevo pretendere di fare subito ciò per cui avevo studiato».

Un’altra caratteristica della migrazione messicana è che la maggior parte di coloro che arrivano in Italia è altamente formata e ha un percorso accademico alle spalle: anche Vanesa è psicologa e ha una seconda laurea in comunicazione, Edwin è ingegnere (ora invece lavora come operaio in una fabbrica). I tre non si lamentano però, anzi, danno per scontato la necessità di dover costruire la propria strada dal nulla, una volta giunti in Italia. Certo, anche questo aspetto inevitabilmente genera quella sofferenza spesso invisibile di cui parlava Vanesa, difficile da consolare.

Secondo i più recenti dati dell’ISTAT, nella città di Bergamo ci sono solo 26 messicani: una comunità troppo piccola per poter attivare al suo interno delle reti solide di supporto e assistenza reciproca. Senza conoscere la lingua, spesso senza i documenti in regola e senza altre relazioni, se non quella con la famiglia del partner, è complicato farsi spazio per i nuovi arrivati. «Nei primi tempi abitavo in un paesino della Val Seriana. Ero molto “chiusa”, non conoscevo nessuno se non le persone che mi faceva incontrare mia suocera – racconta la referente – Lei mi prendeva per mano e mi presentava a chiunque, dicendo “questa è la mi sposa, questa è la mi sposa!”».

È stato così che ha potuto intrecciare i primi rapporti, altrimenti molto difficili da costruire, come dimostra la solitudine di Estela. I passi successivi e fondamentali per la sua integrazione sono stati l’iscrizione alla scuola di italiano e la regolarizzazione dei documenti. Da lì, sono arrivati i primi lavori con le biblioteche e poi come mediatrice culturale: «Ho cominciato ad essere visibile, ho riacquistato autostima e dignità», afferma la donna. «Oggi ho un contratto a tempo indeterminato e un lavoro che mi permette di diffondere la cultura del mio Paese», specifica Vanesa, tra le organizzatrici del Festival «In Messico la morte è cultura viva». Oggi il suo ruolo è anche quello di punto di riferimento per chi arriva in Italia e si trova spaesato, come Estela. «Vedrai che le cose si sistemeranno», le parole che rivolge alla giovane compaesana: un supporto sincero, nato per aver provato quelle stesse emozioni. Dopo quella condivisione, Vanesa risolleva gli animi chiedendomi entusiasta: «Vieni sabato al Festival? Per noi è un’occasione di ritrovo, di solito la comunità messicana è sparsa per i paesini della bergamasca». Raccolgo l’invito e saluto tutti con la promessa di rivederci presto.

Così, tre giorni dopo il nostro incontro, sabato 4 mi presento in via Porta dipinta 39. Un suono di tamburi mi conferma di essere nel posto giusto. Dentro la Chiesa di Sant’Andrea infatti si stavano esibendo due ballerini messicani con l’abbigliamento della tradizione precolombiana, per rendere omaggio alle origini indigene del Dìa de los Muertos. Dopo la danza azteca, Rocio Cid Ochoa, antropologa messicana, inizia a spiegare i simboli presenti sull’altare del Dìa de los muertos, allestito all’interno della Chiesa. Ci sono i las calaveras, ovvero i piccoli teschietti, in origine fatti di zucchero, ma oggi anche di cioccolato o amaranto, che vengono donati ai bimbi per augurare loro una lunga vita; la cruz (la croce), non solo simbolo cattolico, ma anche precolombiano, utilizzato per indicare i 4 punti cardinali; el izcuintli (il cane nudo messicano), nel ruolo di “guida nel mondo dei morti”.

Appoggiate ovunque, le farfalle ad indicare le anime dei defunti; per terra, il sale e il copal (incenso di resina) per purificare gli spiriti. Tutti gli oggetti sono illuminati dalle candele, fondamentali per indicare ai propri cari la strada fino all’altare, dove li aspetta un banchetto con i piatti tipici del Messico. E poi, c’è lei, la Katrina – letteralmente, “Donna elegante” – la dama scheletro con il volto dipinto. Personaggio popolare, tra le icone più rappresentative della cultura messicana, è stata anche simbolo di critica sociale rivolta a quei messicani che, all’epoca dei conquistadores, imitavano lo stile europeo, rinnegando così la propria cultura. La spiegazione approfondita a cura dell’antropologa attira molta gente davanti all’Altare, curiosa di osservare più da vicino tutta quella simbologia. Proprio lì incontro Edwin, in compagnia della moglie. Vicino, tante altre coppie italomessicane, alcune con bimbi piccoli appresso, truccati secondo la tradizione del Dìa de los muertos: sembrerebbe davvero che la motivazione principale della migrazione messicana sia proprio l’amore.

Il Festival prosegue nelle sale del Teatro di Sant’Andrea e nella biblioteca dove c’è la possibilità di assaggiare alcuni piatti tipici messicani tra cui i tamal, gli involtini preparati con un impasto di farina di mais bianca e farciti con carne e verdure, la Pastel azteca , simile a una lasagna, e le immancabili tortillas. Attorno alle portate, il vociare di tante persone, in una mescolanza di accenti e di lingue. Qualcuno viene da Brescia, qualcuno da Lodi, ma tutti condividono la stessa origine.

In quel miscuglio sonoro e di sapori, mentre sorseggio lo speziato cafe de olla, mi raggiunge Vanesa, con fiori rosa tra i capelli, e mi presenta l’amica Carla, vestita e truccata secondo la tradizione messicana: in testa un cerchietto dorato che le illumina il viso, sulle guance delle pietruzze d’argento. «Lei ha realizzato la locandina del Festival!», specifica Vanesa, per poi tornare tra la gente. «Proprio oggi per me sono esattamente 8 anni qui a Bergamo» mi informa emozionata Carla, che mi racconta di essere laureata in Graphic design e di essersi trasferita a Bergamo dopo aver incontrato il suo attuale marito, originario della Sicilia. Anche per lei, come per i suoi compaesani, non è stato facile ambientarsi, complice anche, mi confida, il tipico atteggiamento un po’ diffidente dei bergamaschi. «Una volta che ti conoscono poi i bergamaschi ti aprono il cuore, ma all’inizio non è facile. Talvolta, volevo tornare a casa».

Le sue difficoltà, silenziose, poco conosciute, sembrano le stesse di Edwin, alle prese con un senso dell’umorismo un po’ lontano da quello messicano. I suoi timori ricordano quelli di Estela, le sue fatiche di madre – sola, in un Paese straniero – quelle di Vanesa. Tutti i messicani incontrati però hanno anche lo stesso sorriso, un po’ affaticato, ma consapevole che forse “ne è valsa la pena” di spostarsi e rimanere per amore.

(Tutte le foto sono di Federica Pirola)