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#(di)versi: il mondo multiforme e plurale della poesia di Marco Pelliccioli

Intervista. Uno sguardo empatico sul mondo e una scrittura aperta – fatta di persone e memoria – sono la combinazione che rende il poeta bergamasco meritevole di approfondimento. La sua poesia ricca di personaggi è in grado di farci viaggiare da un luogo all’altro, cambiando talvolta periodo storico e contesto sociale, attraverso immagini quotidiane

Lettura 5 min.
Marco Peliccioli

Seriatese, classe 1982, laureato in Lettere moderne e cinema alla Sapienza di Roma, Marco Pelliccioli oggi vive a Monza e lavora a Milano nell’editoria. Il primo dei suoi libri di poesia è «C’è Nunzia in cortile» (LietoColle, 2014) con cui ha vinto il premio Albero Andronico, seguito da «L’orfano» (LietoColle-Pordenonelegge, 2016), vincitore del premio Colline di Torino, e «L’inganno della superficie» (Stampa2009, 2019); tutti con prefazione o postfazione dell’amico e maestro Maurizio Cucchi.

Ha scritto, inoltre, il romanzo «A due passi dal treno» (Eclissi, 2015), segnalato dal Premio Calvino e il saggio «Un dandy a teatro. Oscar Wilde e Woody Allen» (Ed. MEF, 2008). Alcuni suoi testi sono apparsi su riviste e antologie, tra cui «Giovane poesia italiana» (Pordenonelegge, 2020), tradotta in diverse lingue. Per il Teatro Fontana di Milano cura la rassegna «La poesia e la fontana» e il «Corso di poesia italiana dal Novecento a oggi».

Primo pomeriggio
Non c’è più nessuno in cortile
radio, automobili rotte...
Il triciclo di Michele sul balcone
aspetta la sera, la voce del padre,
quando lava il catrame dalle mani indurite
poi complice chiede un pezzo di pane
sporco d’asfalto.

(Marco Pelliccioli, «C’è Nunzia in cortile», 2014)

CD: Come nasce la tua poesia?

MP: L’incontro con la poesia l’ho avuto intorno ai sedici anni tra i banchi di scuola. Il mio docente di lettere mi fece appassionare ai classici come Guinizzelli, Cavalcanti, Dante. Fu un punto di svolta per me, perché frequentavo un istituto tecnico e dopo quelle prime lezioni chiesi alla mia famiglia di cambiare scuola. È stato una sorta di innamoramento, è accaduto qualcosa che mi ha aperto una strada nuova. Da lì in poi, questo interesse si è sempre più rafforzato, prima con l’esperienza scolastica, successivamente con il mio percorso legato alla scoperta dei poeti del Novecento italiano.

CD: Ogni scrittore è, prima di tutto, un lettore. Chi sono i tuoi autori di riferimento?

MP: Sono poeti a me cari Pascoli, Pavese, Montale; ma anche autori del secondo novecento come Giudici, Raboni e Luzzi. Nel contemporaneo mi ritrovo in Milo De Angelis e Maurizio Cucchi, che considero senza dubbio il mio maestro. Cucchi è una figura per me centrale a cui devo moltissimo, ho avuto la fortuna di conoscerlo una decina di anni fa alla casa della cultura di Milano. Presi coraggio e gli chiesi di leggere alcune mie poesie, che a lui piacquero. Così è nato il bellissimo rapporto che tuttora abbiamo ormai consolidato.

CD: È uno scambio che avviene anche in corso di scrittura, quello con altri esperti, oppure cerchi confronto solo a lavoro concluso?

MP: Per me il confronto è fondamentale. Esiste ancora un’illusione tardo-romantica secondo la quale la scrittura è qualcosa di puramente istintivo, ma è totalmente fasulla. Mi piace utilizzare l’esempio della pittura: l’artista può partire disegnando un bozzetto, ma per arrivare al quadro finale sono necessarie numerose stesure e revisioni. In pittura si ritocca un colore, nella musica di cambia una nota, nella poesia si sostituiscono parole, punteggiatura, metrica, che fanno la differenza sul risultato finale. Cucchi in primis, ma anche altri autori sono stati per me fondamentali durante questo processo di confronto, in una dimensione che definirei “artigianale” dello scrivere.

CD: Possiamo dire che il tuo libro di esordio, «C’è Nunzia in cortile», ha determinato il tuo stile?

MP: È un libro nel quale ho cercato di dare grandissimo spazio ad una galleria di personaggi. Un aspetto che da lì in avanti ha caratterizzato tutta la mia poesia, questa sorta di apertura verso la vita quotidiana e il mondo esterno. Ciò avviene per una mia inclinazione personale, un’estroflessione verso il mondo che io ho naturalmente; ma è anche scia delle caratteristiche della poesia italiana del secondo novecento, rappresentata da autori come Giudici, Sereni e Luzzi, in cui – superata la stagione ermetica – ha spalancato le porte alla quotidianità. Non che io nel mio scrivere sia stato così consapevole, ma è possibile che, grazie allo studio di certi autori combinato alle mie inclinazioni personali, sia arrivato a mettere su pagina questi primi personaggi come l’Alberto, la Nunzia e lo storpio.

CD: Cosa cattura il tuo sguardo di poeta?

MP: Non so dirlo con precisione, probabilmente se lo sapessi, ciò che scrivo sarebbe distorto. La mia scrittura nasce en plein air, per strada. Nella vita di tutti i giorni mi capita che volti, situazioni, mi catturino in maniera tale da smuovere dentro di me un ritmo sul quale progressivamente nascono delle parole. Un inedito che ho pubblicato su un quotidiano qualche settimana fa aveva al centro un bambino di una famiglia di profughi ucraini che hanno preso il treno con me. Vista anche la situazione contingente, in quel caso specifico, c’è stato qualcosa di puntuale che mi ha colpito. È un processo che in poesia viene chiamato “correlativo oggettivo”: rappresentare sulla pagina ciò che prova il poeta attraverso alcuni oggetti o soggetti. Sento come un legame invisibile tra me e le persone che scelgo di portare sulla carta. Così i versi non sono più lo specchio di un io poetante, ma rappresentano un noi, una pluralità.

CD: Il secondo libro, «L’orfano», mantiene le caratteristiche del primo, ma scava in profondità.

MP: «L’orfano» fa un movimento aggiuntivo e anche complementare, perché parte dalla storia e dalla memoria di ciò che ci ha preceduto. Anche figlio del fatto che per alcuni anni io ho vissuto nel quartiere Malpensata, che porta dietro di sé una storia forte. Vivevo in prossimità del contesto di case popolari di Via Furietti e ho avuto occasione di conoscere diverse persone che lì hanno vissuto tutta la vita. Condividendo momenti di racconto sono rimasto colpito dal modo di rievocare una storia relativamente recente, come fosse riferita a secoli addietro, rendendomi conto del tipo di evoluzione sociale e culturale che è avvenuta negli ultimi anni. Un progresso intenso, ma a tratti violento, che in qualche modo ha imposto e preteso di spazzare via tutto ciò che l’ha preceduto. Il libro è nato con l’intenzione di ridare spazio a luoghi e personaggi scomparsi, che sono stati cancellati lasciando appunto “orfani”.

CD: «L’inganno della superficie» è l’ultimo in ordine di pubblicazione e, anche in questo caso, la vita “vera” non manca.

MP: In continuità con i due lavori precedenti, questo libro racconta di fatto la trasformazione della nostra società negli ultimi decenni. La narrazione è attraverso due personaggi che si intrecciano tra loro: da una parta la figura dell’Angiolina, legata alla memoria; dall’altra la Madre a rappresentare il presente. Le due figure si legano poi ad ambienti specifici: la prima si inserisce in ambienti periferici e sinistri, la seconda in architetture sfavillanti e verticali. È ambientato a Milano, in particolare nel quartiere in cui lavoro, Porta Garibaldi, dove basta fare una breve panoramica per cogliere la mescolanza di situazioni. Non era mia intenzione raccontare una divisione simmetrica, ma credo sia interessante indugiare in questi contesti e scoprire come si possa incontrare umanità negli ambienti più cupi e figure grottesche in spazi scintillanti. C’è un capitolo in particolare, in cui ho scelto di mettere al centro proprio alcuni soggetti figli della contemporaneità di quei luoghi.

Non ci voleva quel bicchiere rotto.
Poco meno di un simbolo. Poco più
di una fissazione. O viceversa. E poi
la ferita, lo zampillo, l’incerottamento. Mi spiace confessarlo,
ma per fortuna che non c’ero.

(Maurizio Cucchi, da «Il disperso», 1976)

CD: Anche in questo caso, uno sguardo sull’oggi, che ben conosce i classici.

MP: Nel corso di questo libro viene disseminato il mito di Narciso perché lo ritengo ancora oggi in grado di dirci molto. Non tanto nella visione semplicistica di una dimensione egoriferita, ma in un concetto più archetipico che descrive l’incapacità di stare a contatto con le esperienze non positive. Si tende a rimuovere tutto ciò che fa parte del dolore, del fallimento, della malattia, quasi come non dovesse essere vissuto, ma presumo sia solo tramite l’accettazione che è possibile fare uno scatto. Citando «La vita davanti a sé» di Romain Gary, è più interessante vivere la vita, che cercare la felicità.

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