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«La gioia avvenire» di Stella Poli: il movimento di ribellione dal dolore

Articolo. Sabato 4 marzo alle ore 18 alla libreria Palomar di Bergamo la scrittrice presenterà il suo romanzo d’esordio, uscito per Mondadori nel gennaio di quest’anno e arrivato finalista alla XXXIV edizione del Premio Calvino, che anche questa volta mostra di avere un ruolo di primo piano nel rintracciare voci nuove e portatrici di un’urgenza delle parole a cui è importante dare ascolto

Lettura 5 min.

Stella Poli è nata nel 1990 a Piacenza, città in cui vive. Ha conseguito un dottorato in Filologia con una tesi sulla traduzione poetica; è attualmente assegnista di ricerca presso l’Università di Pavia e insegna Editing della poesia allo IULM. È redattrice di Trasparenze e La balena bianca. Ha scritto, con Guido Casamichiela, la raccolta di racconti «Cucchiai – Un’antologia di fallimenti», per l’editore Le piccole pagine (Piacenza, 2019). Suoi racconti compaiono su numerose riviste. Un ragazzo, a Piacenza, ha una sua poesia tatuata su un braccio. E chissà come è stato contento di trovare «La gioia avvenire» in libreria, romanzo che alla validità letteraria della scrittura, alla trama serrata che avvince il lettore, affianca una carica politica.

Il tema centrale è quello del consenso sessuale, che nonostante la sua presenza costante nelle notizie di attualità – basti pensare al caso di Alice Schembri di Agrigento – non sembra, in Italia, varcare i confini della cronaca e diventare motivo di discussione viva e problematica.

Nel romanzo – tra i dieci titoli selezionati per l’VIII edizione del «Premio POP – Premio Opera Prima», dedicato agli esordi nella narrativa italiana dell’ultimo anno – c’è un centro apparente, che ci viene concesso dopo poche pagine: «Ho ventitré anni. Mi hanno violentata quando ne avevo quattordici. A volte la mia vita mi pare tutta qui». È l’inizio di una storia, del diario di una paziente, Nadia, che la psicoterapeuta Sara consegna a un giovane avvocato nel suo studio di Milano, per scoprire da lui se è troppo tardi per chiedere giustizia. La paziente per due volte ha provato a sporgere denuncia, in passato, ma in nessuna delle due è andata fino in fondo. A compiere l’abuso non è stato un estraneo, ma una persona che faceva parte del microcosmo della sua infanzia, del quartiere di cui la ragazza frequentava la scuola, la chiesa, gli amici. È stato il marito dell’amante del padre, una persona familiare, che Nadia incontrava abitualmente, di cui frequentava la casa, di cui si fidava.

La forza principale del libro è nella struttura, che non segue un andamento lineare. Dopo un inizio che subito conduce il lettore nel punto di massimo dolore, con l’esplicitazione dell’abuso, il diario svia, cambia traiettoria, prende il largo, racconta di quando la protagonista, a cinque anni, ha ancora l’infanzia protetta da due genitori che le vogliono bene. Iniziamo così a capire che il centro del romanzo è in realtà un altro. Non è nell’evento che è miccia narrativa, ma è in ciò che segue. Il trauma non è il gorgo ma il movimento di ribellione dal dolore, della lotta contro la sua continua lusinga. È complicato, per questo ha un andamento oscillatorio, come l’elettrocardiogramma di un battito accelerato.

Il testo alterna infatti costantemente momenti piani, che si allontanano dal ricordo traumatico, a ritorni improvvisi al luogo e al tempo dell’adescamento e della violenza, che feriscono per la loro perentorietà. È in questo senso un romanzo vertiginoso, perché ci fa sentire sempre sospesi tra salvezza e annientamento. E la vertigine è il centro stesso del romanzo, a cui la voce narrante aderisce pienamente. È infatti un racconto di frammenti, resi graficamente dai piccoli spazi dei paragrafi in cui si dividono i capitoli.

In un articolo uscito sul sito Il Libraio il 31 gennaio 2023, Poli scrive che «è difficile rappresentare il trauma, immaginarlo: spesso, per farlo, lo trasliamo». Così diventa, nel romanzo, un elastico che lega la caviglia a un paletto conficcato nella pomice di un cratere lunare; il sogno di un padre che corre verso la figlia in pericolo, la supera e scompare; la metafora in cui il corpo della protagonista si sovrappone a elementi naturali così che il trauma diventi un sasso sottopelle, il dolore fango, l’età adulta un’altitudine.

Anche il titolo ha in sé un movimento. È omonimo, infatti, a una poesia di Franco Fortini, posta a chiusura della sua prima raccolta poetica, «Foglio di via», che ha quei due versi («Qualcosa comunque che non possiamo perdere / Anche se ogni altra cosa è perduta») che fanno da controcanto alla ritrosia a raccontare della voce narrante, espressa nell’incipit del romanzo: «Le cose non andrebbero dette mai. Creano – socchiuse – una serie di connessioni, implicature, filamenti viola e vischiosi come le foto delle sinapsi nei sussidiari delle elementari. Portate a esistenza, messe in mezzo, sono neonati tremendi, fagotti color arrosto dallo sguardo implacabile. Una cosa raccontata è tracotante: esige, estorce quasi».

L’abuso non viene mai esposto in presa diretta. Perché la protagonista vive nella doppia tensione dell’ossessione del ricordo e del desiderio di liberarsene. E perché se fosse quel tipo di storia – e ce ne sono tante – in cui il racconto è tutto rivolto al climax che esplode nella scena madre della violenza, diventerebbe pornografia, si svuoterebbe di senso. Trapela, però, in frasi nette (i culmini del movimento oscillatorio), che proprio nel loro essere improvvise sono dure, tagliano, si aggrumano nella coscienza del lettore: «L’intimità posteriore, secondo Fellini la prova degli amori grandi». Non sono delle rese al dolore.

L’autrice è una linguista ed è la prima percezione leggendo la cura della lingua, la scelta della parola esatta, gli inserti etimologici nei punti salienti del testo: «Consenso significa aderire all’altrui volontà, essere dello stesso sentimento o parere; aderire, concordare, indursi a credere. È una strana definizione, come in levare: aderire, no, concordare, anzi, indursi a credere. Balìa, è complicato. Ci sono molte supposizioni e pare che ognuno si affezioni a quella che più lo suggestiona: c’è un termine sanscrito che potrebbe esserne la radice, e significa potenza, uno slavo che vuol dire maggiore, un corradicale, “pâla”, signore, che lega padre, potere, balìa».

Sono prese sulla realtà, sul proprio corpo, sulla propria storia personale che in questo modo può diventare politica. Perché non c’è stata la denuncia? La paura, il senso di colpa che accompagna il trauma. Ma soprattutto un errore di logica. Viene scelta un’età di confine come i quattordici anni, in cui il naturale insorgere del desiderio può diventare un luogo di pericolo. Perché può portare a fidarsi di un uomo conosciuto, familiare – il marito dell’amante del padre, «padre. Marito. Professionista stimato. Credente. Impegnato in politica. Apprezzato nella comunità» – e ad essere attratti dal suo interesse. Perché una volta che si subisce una violenza quel desiderio può essere letto come consenso e quindi come colpa dal senso comune.

Alla colpa vengono opposte le parole di una delle pagine più belle del libro: «Una delle poche cose che ho capito. Che l’unica cosa che dobbiamo tenerci saldissima è questa: concederci, soprattutto concederci, non che ci concedano, di scegliere. Rinegoziare, sottrarsi. Cambiare idea. Smettere. Se tutto è rapporti di potere, il potere di me che scelgo è dilagante. (Tutto è rapporti di potere?)».

Il romanzo di Poli mette in crisi il senso di sicurezza stereotipato che si accompagna ai luoghi quotidiani: è proprio dove nulla si dovrebbe temere, la famiglia, la scuola, la chiesa, il quartiere che possono nascondersi i pericoli più grandi. Il filo narrativo di più aspro realismo è quello che segue il rapporto tra la protagonista e il padre, che viene descritto come un uomo pratico, che amava i meccanismi e «di mestiere aggiustava le bici ma sapeva aggiustare sempre tutto». Eppure non è in grado di soccorrere la figlia, caduta in un ingranaggio di cui lui è in parte artefice. Non riuscendo ad accettare l’orrore di essere stato testimone e di non avere soccorso la figlia, le addossa la responsabilità che in realtà è la sua e l’abbandona, scompare dalla sua vita. Nella loro ruvidezza, le pagine dedicate al padre ricordano una canzone di Guccini, «Piccola storia ignobile», contenuta nel disco «Via Paolo Fabbri 43» del 1976, che tratta del tema dell’aborto con la voce giudicante di una società asfittica e bigotta. Ma è un’altra la canzone che viene citata nel testo, «Avalanche», che apre «Songs of love and hate» di Leonard Cohen, del 1971: «Your pain is no credential here», «Il tuo dolore non conta nulla qui».

«La gioia avvenire», che nel suo movimento risulta duro, feroce a tratti, dolcissimo in altri, non vuole essere un romanzo consolatorio, non crede nella redenzione: «Non serve veramente a un cazzo di niente, soffrire, aveva ragione Pavese». Pone domande, scava nell’inadeguatezza degli adulti così intrappolati nelle proprie ragnatele personali da divenire a volte osservatori silenziosi anziché figure protettive, schermi per l’infanzia.

(Giulia Sarli)

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