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#bestof2021: La montagna vera e contemporanea di Paolo Cognetti

Intervista. “Di vita, di cammini e di montagne” è il titolo dell’incontro con lo scrittore vincitore del premio Strega 2017 per Molte fedi sotto lo stesso cielo

Lettura 4 min.

M olte Fedi incontra uno degli scrittori con più consenso nel panorama italiano attuale: Paolo Cognetti . La conversazione sarà disponibile nella sezione “ Sottovoce, in punta di piedi nelle case e nelle pagine degli autori ” dalle ore 20.45 del 28 ottobre, accedendo all’area personale Card sul sito moltefedi.it .

Nato nel 1978, Cognetti si diploma a ventuno anni alla scuola civica di cinema e da quel momento si dedica alla professione di documentarista, di pari passo prosegue la carriera di scrittore, nella quale si afferma con il riconoscimento del Premio Strega nel 2017 per il romanzo “ Le otto montagne “, tradotto in oltre trenta paesi. È cresciuto a Milano, ha vissuto a Torino e a New York, ma ha scelto la montagna come casa, precisamente nei pressi di Estoul, in Valle d’Aosta. Pochi fronzoli e nessun aggettivo superfluo, concreta e introspettiva allo stesso tempo, la narrazione di Cognetti è composta della stessa tangibilità di cui è fatta la vita quotidiana.

Con Minimum Fax ha pubblicato tre raccolte di racconti: “ Manuale per ragazze di successo ” (2004), “ Una cosa piccola che sta per esplodere ” (2007, Premio Chiara 2008) e “ Sofia si veste sempre di nero ” (2012, finalista allo Strega 2013). Nel 2009 ha vinto il premio Lo Straniero, attribuito dall’omonima rivista diretta da Goffredo Fofi. Relativamente al periodo newyorkese ha pubblicato due guide personali alla città: “ New York è una finestra senza tende ”, e “ Tutte le mie preghiere guardano verso ovest ”. È da ieri disponibile il nuovo romanzo “ La felicità del lupo ” (Einaudi editore).

Poco prima che squillasse il primo tono del telefono, mi sono interrogata sulla necessità di anticipare la telefonata con un messaggio: “ se è in montagna, forse non ci sarà campo ”, penso. Ma la casualità ha voluto che quella quotidianità rappresentata nelle storie di Paolo Cognetti agisse anche in questa intervista. La chiacchierata si è svolta durante un accadimento più comune e orizzontale appartenente alla nostra società: fare la spesa. Ne consegue un botta e risposta limpido e onesto, che non lascia spazio a divagazioni.

CD: Parlaci della tua presenza a molte fedi, di cosa si tratta, cosa racconti?

PC: Si parlerà di scelte, perlopiù di decisioni anticonvenzionali, una conversazione sulla possibilità di costruirsi una vita diversa dalle “strade battute”, come quella che mi ha spinto a voler vivere in montagna, e dei progetti che ho qui.

CD: Una formazione scientifica prima, poi il diploma in cinema e la professione di documentarista. Quando e come hai scelto di dedicarti alla scrittura?

PC: Ho sempre voluto dedicarmi a quello che faccio, ma per arrivare qui ho dovuto percorrere altre strade. Ho frequentato la scuola di cinema perché cercavo qualcosa di affine al mio interesse per il mondo della scrittura. Il documentarista è un lavoro che mi ha appassionato, ma ne ho fatti molti altri, sono stato cuoco e barista.

CD: Dopo la vittoria del premio Strega ti sei guadagnato il titolo di “scrittore della montagna”, si deduce dai tuoi testi che questa faccia parte di te in modo atavico. Qualche giorno fa è uscito il tuo nuovo romanzo, “La felicità del lupo”, in cui le montagne diventano anche una scelta adulta e ragionata. È così?

PC: Sì, è la storia di alcune persone che hanno voluto vivere qui, chi per idealismo, chi per fuga, o per un’idea di libertà legata alla montagna. Si parla di incontri e di scambi tra esseri umani, l’ambientazione è una montagna contemporanea, concreta e non simbolica, che rappresenta il lavoro e la vita quotidiana. Io vivo qui, quindi per me è naturale parlare di questi luoghi e delle persone che li vivono.

CD: La montagna ha delle regole, tacite o meno, che obbligano a rispettarla, credi che valgano anche nel raccontarla?

PC: Probabilmente ogni scrittore ha le proprie regole e prospettive di narrazione, per me l’importante è che il luogo non sia solo uno sfondo per le storie, ma una parte fondamentale di ciò che accade, quasi un personaggio. Racconto la montagna con pochi aggettivi e con i giusti nomi, evitando ogni forma di retorica: detesto leggere l’aggettivo “mozzafiato”, ad esempio. Non mi preme dare un messaggio ai miei lettori, ciò che mi interessa è raccontare quello che conosco.

CD: Qualche mese fa è uscito “Sogni di Grande Nord”, il documentario diretto da Dario Acocella in cui, accompagnato dal tuo amico Nicola Magrin, ripercorri un viaggio letterario e personale in Canada e Alaska sulle orme dei tuoi riferimenti letterari. Da dove siete partiti?

PC: L’idea era di affrontare un viaggio americano alla ricerca di alcuni scrittori, i loro spiriti e alcuni miti che sono stati importanti per me e per la mia formazione. Siamo partiti dalla tomba di Carver, mio primo grande maestro e principale stimolo a voler seguire questa strada. Per poi passare al Canada occidentale e nei luoghi di Jack London, fino all’Alaska, all’autobus dove visse e morì Chris McCandless di “Into the Wild”. Luoghi e persone cruciali che personalmente ho incontrato nel momento delle scelte decisive. La cosa più bella è stata andarci con un amico: non ho più voglia di viaggiare solo, dopo averlo fatto a lungo, ora sento l’esigenza di condividere l’esperienza.

CD: Il tema dell’amicizia, centrale nel tuo primo romanzo, era spesso affrontato nella letteratura classica, oggi è finito piuttosto in secondo piano. Che spiegazione ti sei dato a riguardo?

PC: Credo sia un legame dimenticato nella narrativa contemporanea, ora c’è l’ossessione per la famiglia, per la coppia e per il rapporto genitori/figli. Si parla poco di amicizia perché si vive poco, credo, al contrario sarebbe ancora un tema forte. Nella letteratura classica si trova spesso associata alle guerre, dall’Iliade a Rigoni Stern. Per quanto mi riguarda, si tratta dei rapporti più importanti della mia vita.

CD: Il protagonista di “Otto montagne” dice di aver incontrato in Nepal una pianta di rododendri, la stessa pianta di cui parla la poetessa Antonia Pozzi in uno dei suoi ultimi scritti. Proprio ad Antonia Pozzi tu hai dedicato un libro e molto cammino, cosa ti ha spinto a parlare di lei?

PC: Provo un grande senso di affinità con i suoi testi, di vicinanza, per diversi motivi: la vita a Milano e quella tra le montagne, la scrittura, e forse un istinto a sentirsi “disadattati” o inadatti al proprio luogo e al proprio tempo. Quando incontri un autore, o una vita, che senti assomigliare alla tua, ti sembra di capirla bene e subentra la voglia di raccontarla. Antonia Pozzi parla oggi come parlava nel suo tempo, raccontando di amicizia, libertà, montagna e di una certa intensità legata all’esistenza, tra passioni e dolore, dalla quale ha scelto di tirarsi fuori.

CD: Si sta girando ora il film tratto dal tuo romanzo “Le otto montagne”, hai avuto un ruolo nella costruzione?

PC: Felix van Groeningen è arrivato da me nell’estate del 2019 con l’intenzione di realizzare questo film, da allora abbiamo lavorato molto insieme. Non ho scritto io la sceneggiatura, è opera sua, ma ho potuto leggerla nelle differenti versioni. L’ho anche accompagnato in tutti i luoghi di cui si parla, inizialmente temevo che spostassero la storia in un’altra montagna, invece ha scelto di girarla dove l’ho scritta e vissuta. È stato un piacere potergli mostrare i luoghi e fargli conoscere i personaggi.

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