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Massimo Onofri, le “Isolitudini” di Melville e Darwin alle Galápagos

Intervista. Il critico letterario venerdì a Caravaggio per Presente Prossimo con “Isolitudini. Atlante letterario delle isole e dei mari”. Un libro di frammenti dalla letteratura e da altre discipline che indaga emotivamente il mare, le isole e la scelta della solitudine di tanti scrittori, artisti e scienziati

Lettura 4 min.

Gira nelle librerie da qualche mese un libro marino, dentro cui si sente il mare (anzi i mari). Una barca di pagine che naviga gli oceani, il Mediterraneo, lo Ionio, il Mar Baltico e tutte le distese d’acqua salata del pianeta. Al comando di questa nave vi è un critico letterario fra i maggiori in Italia, che ha costruito visione dopo visione un libro da scrittore che però non è un romanzo, non è una guida e neanche un freddo repertorio erudito. È invece un viaggio eccezionale e travolgente: quello di Massimo Onofri e del suo “Isolitudini. Atlante letterario delle isole e dei mari”, che sarà al centro dell’incontro di venerdì 6 dicembre a Caravaggio per l’Alfabeto del Presente di Presente Prossimo (via papa Giovanni XXIII, 17, ore 20.30, ingresso libero).

Neologismo coniato dallo scrittore siciliano Gesualdo Bufalino, Isolitudine è l’incontro generativo di isola e solitudine, condizione dolorosa o utopica dello scrittore e dell’artista, nonché stato di grazia del lettore di fronte a chi scrive.
“Isolitudini” è un libro di frammenti, da leggere uno dietro l’altro oppure aprendo a caso le pagine. Ci si perde, nonostante l’indice finale faccia da bussola, ma è uno smarrirsi dolcissimo e appagante. Perché giunti all’ultima pagina ognuno si porta via le sue Isolitudini preferite.
Le mie sono quella di Frazen che con una tenda e un gps si rifugia a Masafuera nel Pacifico per fare i conti con il suicidio dell’amico David Foster Wallace (di cui porta le ceneri) e quella di Melville, prima incantato dalla lussureggiante Taipi e poi angosciato dalla desolazione delle Galápagos, come scrisse ne “Le isole incantate”.
“Isolitudini” però nasce anche da un’idea di letteratura e di (crisi del) romanzo. Ne abbiamo parlato magmaticamente con il diretto interessato.

LB - Onofri, “Isolitudini” è un libro densissimo e straordinario. Com’è nato?

MO - Ho cominciato a scrivere “Isolitudini” per una mia verità esistenziale, su Facebook, un terzo del libro nasce lì. Per la prima volta, proprio grazie al social network, sono riuscito a darmi una disciplina nello scrivere. Nei libri precedenti, ventisei in tutto, ho sempre scritto negli ultimi due mesi prima della consegna, qui no. Ma un’opera come questa, scritta alla sera fumando un sigaro, nasce anche dall’abbandono della mia fidanzata. Così ho iniziato a sognare isole lontane e a trovarci scrittori di tutti i continenti. È stato positivo, compensatorio.

LB - Melville e Darwin alle Galápagos. Le Clézio alle Mauritius. Ciascuno la propria isola, o più di una.

MO - In breve ha descritto il processo con cui ho ottenuto le mie Isolitudini. Viaggiando verso un’isola e trovandovi uno scrittore, come nel caso di Le Clézio, oppure coinvolgendo l’isola nell’intento di voler raccontare un personaggio come Darwin.

LB - Ad ogni isolitudine c’è una scoperta: George Sand e Chopin che vivono la loro storia d’amore in una stamberga a Maiorca. Venezia grande assente.

MO - E Cees Nooteboom, scrittore olandese fra quelli che più amo, a Minorca. Per quanto riguarda Venezia dico già che ci sarà un secondo volume di Isolitudini tutto dedicato all’Adriatico e quindi a Venezia. Metterla in questo libro avrebbe dilatato tutto all’inverosimile.

LB - La scrittura procede per frammenti, che poi sono suggestioni, visioni.

MO - Il libro è nato così e anche il prossimo “Schegge” sarà fatto in questo modo. Senza un espediente letterario come quello delle isole. Quello frammentario è un congegno formale che mi affascina. In “Schegge” seguirò Lev Trockij in Messico per Frida Kahlo, poi Lenin e avanti così, scheggia dopo scheggia. È un’idea che nasce da un’ambizione.

LB - Quale?

MO - Sono convinto che, tranne eccezioni, i romanzi migliori oggi sono scritti da quelli che non scrivono romanzi. E così vale per il saggio alla Montaigne. Sono tempi questi dove l’unica forma possibile è il frammento. Schegge di saggio, schegge di romanzo. Sto provando a presentarmi consapevolmente come un Sebald decostruito.

LB - Un libro così prevede una grandissima conoscenza della letteratura.

MO - Sì, sono uno scrittore di secondo grado, cioè uno che scrive dopo aver studiato. Certe zone letterarie le ho scoperte proprio per scrivere le mie Isolitudini. Del Giappone ad esempio conoscevo bene Mishima, uno scrittore per me ideologicamente fastidioso, ma guardandomi intorno ho scoperto i legami fortissimi che Mishima ha con Tanizaki o Kawabata, di cui non avevo letto nulla nonostante il Nobel. Così in due settimane mi sono letto una ventina di romanzi giapponesi.

LB - Un approccio di questo tipo però non è solo da specialista.

MO - Senza voler sminuire il lavoro dei critici, categoria di cui faccio parte, mi sono sentito libero di scrivere ciò che voleva su letterature di cui non sono esperto. Affidandomi al fascino letterario di ciò che raccontavo. Ho scritto questo libro – scusandomi per il paragone – come Zanzotto, Gombrowicz, Brodskij o Canetti scrivevano i loro saggi critici. Da scrittori. Mi sono preso la libertà di dire anche una scemenza, ma ho cercato le visioni suggerite dalle isole. Perché in questo libro prima di tutto c’è la vita. Non è erudito, freddo, e la sua qualità formale si deve anche a questo essere un’opera che nasce da una mia situazione di vita.

LB - Ci dà una definizione di Isolitudine?

MO - La parola è stata coniata da Bufalino, grande scrittore siciliano e mio amico, quindi è in qualche modo anche un omaggio. Lui parla di isolitudine in un suo saggio ed è la condizione che sta fra la sicilitudine teorizzata da Sciascia e la solitudine esistenziale. Insomma la Sicilia e la solitudine hanno tirato fuori l’isolitudine. In Bufalino c’era un senso claustrofobico, il rifugiarsi nella vongola dell’isola per ripararsi dai miasmi del Novecento. In me si complica, c’è invece un’apertura, che riguarda il dolore, ma soprattutto il sogno, l’utopia, il desiderio di una vita migliore. È la solitudine adulta, una scelta, come quella di Stevenson che sceglie di vivere a Samoa.

LB - Dunque una condizione dello scrittore. E il lettore non vive la sua isolitudine?

MO - Assolutamente. Se lo scrittore ha scritto un bel libro, allora questa condizione di prigione felice della solitudine viene trasmessa anche a chi legge. Il cattivo scrittore gode di ciò che scrive ma il lettore non se ne fa niente. Il buono scrittore invece riproduce e consegna al lettore una visione del mondo.

LB - Prima accennava a una crisi del romanzo. Ne parla in un lampo anche in “Isolitudini”.

MO - Secondo me il romanzo, a parte alcuni radiose eccezioni, Philip Roth ad esempio o in Italia Sandro Veronesi, è finito. “La storia” di Elsa Morante viene sempre visto come una soap opera per casalinghe ma in realtà è il grande funerale del romanzo. I romanzi mi annoiano, in sé non sono credibili, non è un caso l’emersione dell’autofiction.

LB - Se il romanzo è finito, il bisogno di raccontare che fine fa?

MO - Il romanzo è finito ma non il bisogno di raccontare. Con “Isolitudini” e “Schegge” io cerco di rispondere alla crisi del romanzo, con una narrazione all’altezza dei nostri tempi neoalessandrini (ampollosi, ridondanti, ndr). Al bel romanzo come lo intendiamo oggi preferisco Moccia e Volo, che fanno solo intrattenimento, senza pretese letterarie. Non tollero la retorica del sublime basso di scrittori come De Luca. Alla questione del romanzo oggi rispondo con una scrittura a schegge, che va di pari passo ai tempi veloci che stiamo vivendo. In questo modo do la possibilità al lettore di vivere esperienze gnoseologiche intense in un lasso di tempo breve, mescolando saggio e critica. Ogni frammento è un’esperienza di conoscenza che prova a lasciare il segno.

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