L’Eppen Secret Concert con Paolo Benvegnù e Marco Parente è stato bellissimo. Per questo è giusto ringraziare un po’ di persone che hanno permesso la realizzazione dell’evento.
Grazie dunque a Paolo e Marco per le vibrazioni straordinarie del loro live, grazie al fonico Francesco James Dini che ha riprodotto un suono all’altezza della situazione, e poi allo staff della Casa del Paradiso sempre disponibile, a Chiara e Manuela della Casearia Arnoldi con i loro fantastici formaggi completati dalle chutney perfette di Tentazioni a tavola e dalle birre buonissime di Vetra - grazie anche a loro!
Ma il grazie più grande va a voi, che avete partecipato, ascoltato con cura e attenzione rare e reso il secret concert proprio come lo immaginavamo: intenso, memorabile e speciale.
Alla fine ci avete comunicato tutta la vostra soddisfazione, abbiamo visto i sorrisi dei vostri volti e la voglia di condividere ciò che avevamo appena vissuto. Insomma a tutti: grazie, grazie, grazie.
Di seguito, per chi non c’era (ma anche per chi c’era) vi raccontiamo cosa è stato l’Eppen Secret Concert attraverso la recensione di Luca Barachetti, il testo che ci ha mandato Mauro Ceresoli (una delle persone che hanno partecipato al live) e la fotogallery di Marta Belotti.
Benvegnù e Parente, un concerto segreto ad alta intensità
C’è un qualcosa di speciale in un secret concert, un qualcosa che riguarda l’Ascolto e la Condivisione, ma soprattutto il rimisurarsi come esseri umani: chi sta sopra il palco e chi sotto. Così domenica scorsa, nel tardo pomeriggio di una Casa del Paradiso illuminata ad ambra, per l’Eppen Secret Concert di Paolo Benvegnù e Marco Parente. I due in giro insieme per una manciata di concerti intimi, a scambiarsi canzoni dopo anni di percorsi artistici vissuti in parallelo ma guardandosi reciprocamente, per poi ritrovarsi qualche anno fa nel progetto Proiettili Buoni. E proprio “Proiettili buoni” – titolo fra quelli in scaletta – potrebbero essere definiti i pezzi ad alta intensità emotiva dei due songwriters, nomi buoni del cantautorato di casa nostra ad oggi non sufficientemente riconosciuti.
Parente a volteggiare su canzoni aeree, la voce a tratti vertiginosa, che guida le parole verso un’idea di fonema espressivo in dialogo con la grande poesia, là dove il peso specifico di ogni verso è quantico e fecondo. Benvegnù che scuote una carsicità di brani magmatici, spaccature della terra da cui riaffiora una vitalità disperata e lussureggiante: l’uomo dinanzi alla sua gioia e al suo dolore, dentro una ricerca di senso che riguarda l’universo tutto. Entrambi alle prese l’uno con il repertorio dell’altro, interagendo fra sorrisi e doppie voci, mentre le chitarre intrecciano e ricamano gli episodi migliori di una coppia di repertori di raro pregio.
I due passano da un immaginario Brasile contemporaneo (Parente è un figlioccio erroneamente nato in Italia di Caetano Veloso) alla congiuntura vibrante fra Modugno e Gaber portati in un passato prossimo musicale oltreconfine (Benvegnù). Non c’è posto migliore per un concerto come questo, dove il pubblico rimane in uno stato di attenzione quasi solidificato, e tanta attenzione – ma sarebbe meglio chiamarla cura – è un momento di tregua dalla quotidiana distrazione generale, per cercare quella Bellezza che salva, seppur mai del tutto.
In fondo le canzoni servono a questo: piccoli strumenti rabdomantici per cercare la verità umana che ognuno si porta dietro, attraverso il mistero di questo nostro stare al mondo e il rumore che incessantemente esso produce. “C’è una crepa in ogni cosa” cantava Leonard Cohen in “Anthem” ed “è da lì – aggiungeva – che entra la luce”. Definizione che scontorna con precisione massima l’arte di Benvegnù e Parente.
Luca Barachetti (da L’Eco di Bergamo del 22 ottobre 2019)
Un concerto segreto in sei aggettivi.
Intimo, caldo.
Ci sono occasioni in cui puoi chiudere gli occhi. Ma sono rare. Succede quando c’è fiducia, quando il mondo fuori, per un momento, si accorda alla confusione che hai dentro. Accordare. Paolo Benvegnù nel finale del concerto ha simpaticamente maledetto la chitarra che non ne voleva sapere di restare accordata.
In quel semplice atto di tendere le corde, un gesto quotidiano per ogni chitarrista, c’era un po’ il senso di questo concerto segreto. Un combattimento continuo, faticoso, per accordare la musica al momento presente. Le parole a quello che è urgente esprimere. La musica a quelle parole. La voce (che è senso anche quando non pronuncia parole) a tutto l’insieme.
In genere si accorda lo strumento, nello spazio tra una canzone e l’altra. In quello spazio vuoto in cui il respiro e i pensieri si fanno più rumorosi. Poi si torna ad ascoltare.
Ci sono occasioni in cui basta sedersi, respirare, ed ascoltare.
Ma sono rarissime. Ieri sera è successo.
Due chitarre, tre lampade dalla luce calda, un divano.
E poi ancora una sala raccolta, una lacrima che scende dagli occhi dell’uomo seduto davanti a me. Che ha poi stretto forte la mano alla sua compagna.
Puro, sincero. Nelle parole di ieri sera c’era purezza, ma «Non miti, non dita ad indicare metodi di vita».
La purezza c’è, ma non esiste. La purezza che attribuiamo a un neonato passa attraverso la fatica di un parto.
L’infanzia, a volte, ci appare pura. Marco ne ha fatto riferimento tre volte, nella canzone in cui le parole «dormi dormi» hanno trovato un’eco inaspettata e fortemente evocativa in un’altra canzone di Paolo. In quel testo c’è la purezza di un ricordo minimo, prezioso. Una mamma dolce, che ci regala una mattina di sonno. Che trasgredisce al dovere, per dolcezza. Una seconda volta quando Marco impugna la prima chitarra su cui ha messo le dita e che già gli imponeva di creare. E poi in quel «posto delle fragole», di attimi perduti e rimpianti che non vuoi.
È una purezza fatta di ricordi che sono sedimentati. E forse ci danno la forza per credere di poter sedimentare ancora le nostre tante giornate confuse, e trovare le parole pure che stanno sepolte là in fondo.
La purezza non è immobile. La purezza di un’idea passa dall’aver attraversato tante idee diverse.
Dall’essersi rotti più volte e altrettante volte aggiustati.
Nel concerto di ieri la debolezza non è mai stata nascosta.
Persino nei brevi accenni a un «successo», mai raggiunto o goduto nelle loro carriere. Nella «dimenticanza», da parte di Paolo, di esporre i suoi Cd al banco.
Ma forse in una serata di parole dense e profonde la purezza che abbiamo respirato era negli impasti vocali. Erano le due voci che si fondevano nelle armonie delle voci. Era il desiderio sincero, e durissimo, di accordare due anime profondamente diverse, unite nel rispetto e nella ricerca.
Perché c’è qualcosa che merita di essere detto. Ma si trova sotto chili di silenzi.
Rivoluzionario coraggioso. Immaginare una figlia che ancora non c’è. Suonare il proprio corpo per accordarsi alla chitarra dell’altro. Entrare suonando, dalle retrovie, come un vento che ti prende alle spalle.
Sorridere, sorridere spesso, di sé, del momento.
Perché qui non si tratta di «organizzare» un concerto. Qui si tratta di desiderare, di accordare il proprio desiderio per far sì che possa diventare condiviso. E poi di viverlo, di parteciparlo.
Barachetti che, a fior di labbra, cantava e batteva i piedi.
Chi ha organizzato, si è fatto tramite e poi si è fatto da parte.
Con l’intento di realizzare un contesto che, dopo avere nutrito l’udito e la vista, proponesse anche il gusto, il tatto e l’olfatto. Una degustazione che con la delicatezza dei gusti si è proposta di accompagnare il gusto della musica. Senza prevalere né creare competizioni. Con l’unica speranza di andare in fondo, di offrire una esperienza piena, avvolgente.
Una sera in cui anche la pioggia forte, all’esterno, ha finito per scaldare l’aria.
Un sera in cui, finalmente, il tempo era tutto lì. Non lo stavamo inseguendo, non lo stavamo bruciando o passando. Siamo tornati a sentirci, per due ore, persone piene.
Grazie a chi ha suonato. A chi ha dedicato un’esistenza a quelle parole, a quei suoni. Grazie a chi ha portato un frammento di quella ricerca, in una sera di pioggia, ai piedi di Città Alta. È anche così che si fanno le rivoluzioni.
«La mia rivoluzione è a colpi di grazie».
Mauro Ceresoli
Fotogallery
di Marta Belotti