93FE310D-CB37-4670-9E7A-E60EDBE81DAD Created with sketchtool.
< Home

«Fake news» dei Pinguini Tattici Nucleari è il racconto della mia generazione

Articolo. La band bergamasca si presenta con un nuovo progetto discografico che nasce da una falsa notizia di questa estate che annunciava il loro scioglimento. Oggi il gruppo è unito più che mai, fa dell’#onestà la propria bandiera e chi ascolterà il disco si ritroverà nelle loro canzoni. Come per ogni gruppo generazionale che si rispetti

Lettura 5 min.

Quando qualche giorno fa mi sono recata da Bergamo al Ride di Milano per partecipare alla conferenza stampa di presentazione del nuovo disco dei Pinguini Tattici Nucleari (che da qui in poi mi limiterò a chiamare solo Pinguini, visto che gioco in casa), ho subito condiviso la notizia con un mio amico di Roma che per qualche strana coincidenza si chiama Riccardo.

Nel messaggio esprimevo tutto l’entusiasmo di trovarmi in un contesto pieno di giornalisti che conoscevo perché li avevo sempre visti in televisione o dei quali avevo letto recensioni e articoli vari. Insomma, a confermare il momento roseo della la band bergamasca c’era una sala piena di persone: un gruppo eterogeneo di giovani e adulti che fremevano per ascoltare e annotare le dichiarazioni di quello che è a tutti gli effetti il gruppo del momento. Pur con qualche eccezione che non sto qui per pigrizia a citare.

Il mio amico ha risposto al messaggio con un’affermazione che aveva il sapore di una verità dal retrogusto tagliente e ironico: «È proprio il loro momento: sono i Modà del nuovo decennio!!!». Ho riso e mi sono anche un po’ risentita. Insomma, come si permetteva a fare paragoni così azzardati? Ho risposto: «Sì, ma meglio.» E immediatamente mi sono pentita della mia presunzione.

Anche se poi ho pensato a «Kekko», il frontman della suddetta band, alle «k», a tutti i significati generazionali che si trascinano dietro e subito ho sentito l’esigenza di riconnettermi alla realtà di oltre allo schermo.

Ho continuato a condividere con il mio amico foto della giornata, incluso uno scatto che mi ritraeva sul set di uno studio televisivo, di fronte a me una macchina da cinepresa e dietro uno schermo che proiettava in versione gigante la copertina del disco «Fake news». Mi ha detto che sembravo la giornalista del Tg2 Marina Nalesso. Da quel momento ho smesso di inviargli foto e ho deciso che forse è il caso di rivedere la cerchia delle mie amicizie.

Il set in ogni caso c’è ancora. Per l’uscita del nuovo album è infatti stata organizzata una mostra aperta al pubblico, per raccontare attraverso un’esperienza immersiva i brani del nuovo album. Dal tavolo della «Cena di classe», con tanto di menù contenente la tracklist dell’album, allo studio televisivo di cui ho avuto l’onore di varcare la soglia.

Se avete avuto la pazienza di leggere fino a qui è arrivato finalmente il momento di parlarvi davvero di quello che hanno detto i Pinguini e del loro nuovissimo progetto discografico.

«Fake news»: tutto ciò che viene creduto reale non deve necessariamente diventarlo

Ho deciso di esordire raccontando questi aneddoti perché penso che ciò che mi accomuna ai Pinguini, oltre ai luoghi che frequentiamo abitualmente, c’è un bisogno quasi disperato di rimanere ancorati alla concretezza, alla genuinità delle proprie origini.

Di non tradirsi, restando il più possibile fedeli al proprio marchio di fabbrica: «Continuiamo a vivere negli stessi posti in cui vivevamo prima di diventare famosi. So che sembra quasi banale dirlo ma Bergamo per noi è una medicina incredibile, perché proveniamo da un contesto nel quale fortunatamente e sfortunatamente vi è un’etica del lavoro che ti spinge sempre a voler migliorare. Anzi, più va bene e più devi provare a fare meglio. Il divismo è alieno al nostro DNA, non solo di noi sei, ma proprio della terra in cui siamo nati. Possiamo solo dirvi che non stiamo mentendo e vi chiediamo solamente di fidarvi di noi».

«Se sei chi sei davvero, non devi creare delle maschere con la musica», dice Riccardo Zanotti, la voce dei Pinguini, quello che spesso viene chiamato il frontman. Perché se si è «davvero» una band significa che essere una band diventa una verità da proclamare, uno slogan, uno Statement che va ripetuto come elemento differenziante, per rimarcare la necessità di non ricondurre, come fanno praticamente tutti in modo riduttivo e superficiale, al frontman. Il gruppo raffina il processo di creazione, dalle idee germinali fino alle prove negli studi di registrazione, ecco perché durante la conferenza stampa i sei lo ripetono fino allo sfinimento: «Siamo una band».

Lo fanno soprattutto per rispondere alle fake news che annunciavano la carriera da solista del sopracitato Riccardo Zanotti, il quale ad agosto, mentre se ne stava ignaro in vacanza, si è trovato in un vortice di messaggi e notizie false che lo informavano di essere l’egoista tiranno, artefice della fine della sua band.

Siamo figli delle stelle? No, del nostro tempo

L’aneddoto che vi ho raccontato all’inizio mi serve per agganciarmi anche ad un altro tassello importante del percorso di crescita che i Pinguini hanno affrontato in questi anni e che – non a caso – parla di generazioni.

Siamo figli del nostro tempo. Riccardo e gli altri Pinguini sono più o meno miei coetanei e siamo tutti arrivati in quella fase della vita in cui sei diventato abbastanza grande da prendere decisioni che daranno una direzione univoca al resto dell’esistenza: sei dentro o sei fuori? Fallisci o hai successo? Fai il lavoro dei tuoi sogni o ti accontenti di avere un buono stipendio?

Rispondere a queste domande ci fa maledettamente paura, per questo cerchiamo continuamente dei modi per nasconderci o per posporre il momento in cui interrogarci. Un po’ come facciamo con la sveglia alle 7 di mattina.

In questo senso i Pinguini sono generazionali. Nella misura in cui attraverso i loro testi e la loro comunicazione semplice, immediata, diretta, riescono ad attraversare – rappresentandoli – i luoghi comuni della loro generazione. Trasformandoli in vere e proprie comunità che si identificano e si ritrovano nelle loro stesse situazioni, nei loro stessi dubbi, nei loro linguaggi fatti di messaggi in codice lanciati nelle storie di Instagram e di poesie di D’Annunzio che vengono ricollocate dal Pineto al Pigneto di Roma.

Se «Fake news» parla di te

Insomma, la notizia è che non ci sono più le band di una volta, i gruppi belli e dannati, i maledetti. Ci sono i Pinguini che fanno musica leggera. Che è leggera nella misura in cui parla di amore, di isolamento, di relazioni, di comunità con il proposito dichiarato di raccontare storie capaci di lasciare intendere che questi sei ragazzi non vogliono solo essere gente che ha successo nella vita. Ma soprattutto vogliono essere persone contente, nella vita.

E allora l’open track non poteva che essere un mantra «Zen» col quale il protagonista si impone di calmarsi. Di fare un rito scaramantico in cui tra gli ori e i platini, si fa legno per bruciare l’ossessione del successo. Per ritrovare il gusto di planare con leggerezza sulle cose, perché tanto si sa che la vita è un gioco in cui, in un modo o nell’altro, si finisce per perdere.

«Fake news» è un disco ricco, vario, frutto di un lavoro lento, di ripensamenti e confronti, ridefinizioni e riarrangiamenti. E del resto come non potrebbe essere altrimenti, trattandosi di un gruppo? C’è il pop, c’è un po’ più di rock e c’è il sapore delle ultime volte.

Di quel bacio che hai detto sulla porta a tua nonna mentre una lacrima ti scendeva sul viso. E tu speravi stingendo in pugni, che quel saluto sapesse più di «ciao» che di «addio».

Ci sono brani più intimisti che parlano dell’isolamento causato dalla pandemia, durante la quale i Pinguini sono diventati «Hikomori» combattendo la solitudine nel buio di una stanza.

C’è l’inglese di «Hold on», col quale siamo dovuti scendere a compromessi per diventare adulti che fanno le call, si allineano e partecipano ai kick off perché a «27 o muori o diventi un po’ più pop». Nel frattempo ti scrive tua madre che ha imparato ad usare WhatsApp e ti chiede di chiamarla. E tu le dici «Mamma non posso, sono in un meet». Poi ti guardi nel riflesso del vetro scuro dello schermo e non ti riconosci più. Ma tieni duro, devi tenere duro.

C’è la «Fede» a cui ci aggrappiamo disperatamente, il bisogno di sapere che anche quando abbiamo avuto una brutta giornata, c’è qualcuno che ci aspetta alla fine del giorno, a scaldarci i pensieri. O, ci accontentiamo di scaldarci un piatto pronto nel microonde e dirci semplicemente «Ci penso domani».

Ci sono quelli che lo sanno che «Non sono cool», perché si promettono di fare serata nel weekend e poi passano il venerdì sera guardano Netflix e rispondono «Mi sono addormentato» agli amici che gli chiedono di uscire. In realtà stavano facendo il rewatch di «Grey’s Anatomy», la stagione in cui muore Derek.

E poi ci sono le rotture, c’è quella «Cena di classe» che Chiara si ostina a voler organizzare tutti gli anni per tenere memoria dei fallimenti altrui. Ci sono persone con le quali a 15 anni pensavi che avresti condiviso tutto e ora li guardi e ti sembrano estranei. C’è chi si è già sposato, chi ti mostra le foto dei figli e c’è anche Marco che faceva il bulletto con te quando eravate tra i banchi di scuola. Mentre ora fa il cantante “indie” e ti chiede di intervistarlo «Visto che sei diventata famosa».

Tu sorridi, gli stringi la mano e stringendoti le spalle gli dici sarcasticamente «Non credere a tutto quello che leggi sui social, sono solo Fake news».