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Filamenti #10: piccola elevazione letteraria sul senso del cantare insieme

Articolo. Cantare in coro è un’esperienza vissuta e condivisa da molti, non è solo un’esperienza estetica, ma anche un esercizio di costruzione di comunità attraverso la musica. Quando ascoltiamo un coro ne diventiamo parte. Ecco come la musica corale ci aiuta ad armonizzare percezioni interne ed esterne per costruire un orizzonte di condivisione, partecipazione e piacere comune

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Quando ero piccola, avevo circa nove o dieci anni, mia mamma spesso la sera mi portava con lei alle prove del coro in cui cantava. Erano gli anni ottanta. Mi piaceva molto andare con lei, perché la casa che ospitava le prove era una bellissima antica casa a Longuelo vecchia. C’era un’atmosfera un po’ magica. Si salivano delle grandi scalinate in pietra grigia e all’ultimo piano, attraverso una porticina, si entrava a casa di Marisa, una professora dolce, bionda, colta che ci accoglieva in un universo fatto di strumenti musicali, quadri, spartiti aperti su leggii, tappeti, poltrone, libri e mobili di legno. Poi attorno al pianoforte nel centro della casa, si riunivano i coristi, poche persone, che a me sembravano tutte meravigliosamente eccentriche. Facevano vocalizzi, intonavano scale, cantavano madrigali del cinquecento. Storie di soldati che se ne andavano armati, di addii strazianti a signore a cui toccavano la mano, di cuori ritrovati e spezzati.

Non so che cosa esattamente mi conquistasse di quel mondo. So che io a dieci anni avrei voluto sempre e solo stare lì. Sprofondare in una delle poltrone della Marisa, mentre davanti a me passavano tutte queste immagini di epoche lontane, di personaggi assurdi, di note musicali, di scale. Sarà per questo che, pur non avendo mai cantato in un coro, ho sempre provato una grande simpatia per quell’atmosfera d’incontro che si crea tra persone che si ritrovano a cantare insieme. Come dice Daniel J. Levitin, neuroscienziato e musicista, il canto di gruppo è stato in tutte le epoche e specialmente in quelle antiche un esercizio di «costruzione di comunità».

Possiamo vedere il coro come una sorta di organismo che risuona insieme, attraverso i corpi di chi canta, e risuonando contagia il pubblico con l’atmosfera emotiva che crea. John Dewey, filosofo americano, in «Arte come esperienza» diceva che il carattere dell’esperienza estetica è lo stesso sia per chi produce arte che per chi ne gode, anche se per l’artista l’unità tra il fare e il sentire è più chiara che per ogni altro. Pertanto, quando ascoltiamo un coro ne diventiamo parte e risuonando insieme, creiamo comunità. Zoltán Kodály, compositore ungherese, diceva: il canto rende bella la vita e coloro che cantano rendono bella la vita degli altri”.

La valenza sociale della coralità ha radici antichissime. La conoscevano bene i tragici greci, che affidavano al coro il compito di trasmettere riflessioni morali della comunità, i suoi commenti sullo stato delle cose e le aperture liriche su futuri possibili. Questa valenza si è poi espressa nella dimensione popolare del canto al lavoro, nelle numerose forme di canto “improvvisato” dove le persone dotate di orecchio erano solite inventare linee melodiche secondarie al tema principale. Lo racconta particolarmente bene Dario Fo nel suo «Manuale minimo dell’attore», dove proprio nelle forme del canto corale legato al lavoro ritrova la base dei meccanismi teatrali delle maschere della Commedia dell’Arte.

Questa stessa tradizione si traduce oggi, nel desiderio ancora diffuso di sperimentare il piacere di cantare insieme, che è qualcosa di diverso rispetto alle forme individuali del canto. Claudio Abbado diceva che l’ascolto dell’altro è alla base del canto corale e in generale del fare musica insieme. Per questo in un coro c’è sempre una ricerca, una tensione al comprendere la relazione della propria voce con quella degli altri. Giorgio Guiot e Cristina Meini , rispettivamente musicista e psicologa cognitivista, spiegano come cantare in coro in modo corretto significhi ricercare costantemente un equilibrio tra un’armonia interna e un’esterna. L’armonia interna risuona nella persona che canta da sola, quella esterna trova spazio nel gruppo, e attiene al singolo in quanto parte dell’insieme.

È in questo orizzonte collettivo interno ed esterno che si costruisce con il proprio sentire, più che con la razionalità, il valore di un’esperienza estetica potente e profonda che crea comunità. Come scrive Francesco Barbuto , compositore e direttore di coro e d’orchestra, cantare insieme ci permette di sviluppare le nostre capacità comunicative, relazionali, sociali e affettive attraverso la dimensione dell’esprimersi e dell’ascolto dell’altro.

Anche da noi, l’esperienza del cantare in coro è molto diffusa. Sono ad oggi associati all’Usci di Bergamo (Unione Società Corali Italiane), associazione confluita poi in Cori Lombardia APS, 61 cori, tra cori polifonici, popolari, gospel, giovanili, voci bianche e cori lirici. Oltre ai cori associati a Usci/APS, ce ne sono poi molti altri. Ogni coro è un piccolo mondo, che si esprime lavorando su repertori che lo rappresentano. La maggior parte dei cori propongono repertori di musica sacra, ma ce ne sono anche molti che tradizionalmente si occupano di musica popolare, come molti si dedicano a repertori spiritual e gospel. Le esperienze corali sono oggi innumerevoli. Vicino alla mia personale sensibilità, è per esempio Fuori dal coro, un coro di recente formazione dedicato alla comunità LGBTQ+ che fa un repertorio molto divertente recuperando canzoni della tradizione pop italiana fino ai grandi successi internazionali.

Per capire meglio questo mondo variegato, che comprende esperienze amatoriali ed esperienze più professionistiche, ho intervistato il maestro di uno dei principali cori della bergamasca. Si tratta del coro Antiche Armonie diretto dal Maestro Giovanni Duci. Il Coro polifonico Antiche Armonie (ora diventato APS) è stato fondato nel 1987 proprio da Giovanni Duci e ha in repertorio composizioni a cappella e concertanti che spaziano fra il Rinascimento e il Novecento, sia sacre, sia profane. Il coro ha una lunga storia di esibizioni in concerti nazionali prestigiosi, tournée all’estero e collaborazioni con vari gruppi vocali e strumentali. Giovanni Duci, che è docente al Conservatorio Luca Marenzio di Brescia nella sezione di Darfo, è diplomato in Pianoforte, Musica Corale e Direzione di Coro e Composizione.

CP: Dirigi il coro Antiche Armonie da oltre trent’anni. È un grandissimo impegno, portato avanti con costanza, che richiede molto lavoro. Cosa spinge un maestro a intraprendere questo tipo di percorso?

GD: Allora, ci sono due valenze. Una è quella musicale che col tempo è cresciuta. All’inizio quando il coro era alle prime armi, la musica che si riusciva a fare non era ad alto livello. Col passare del tempo la situazione è progressivamente migliorata. Il coro è diventato sempre più stabile. Le voci si sono evolute, sono diventate più consapevoli di quello che cantano. Questo per me ha significato poter crescere con loro. Affrontare repertori più vasti, più variegati, fino ad arrivare, con grande soddisfazione, alle partiture più difficili della storia della musica. Perciò la musica è – diciamo – la motivazione principale. Raggiungere un obiettivo, un risultato musicale, per me è motivante. La seconda valenza è più di relazione. Consiste nel piacere di creare delle relazioni umane all’interno del coro, perché ognuno dei componenti del coro dà sempre qualcosa di sé. Condividere il piacere di fare musica insieme si traduce in piccoli ma significativi gesti d’ascolto e d’intesa, in sorrisi, sguardi e magari alcune volte anche in sbottate. Fare musica insieme significa condividere un percorso di conoscenza e crescita, guidarsi a vicenda, farsi coraggio, partecipare tutti anche in momenti particolarmente difficili.

CP: Quanto lavoro c’è dietro la preparazione di un concerto?

GD: Partire a pensare, progettare, preparare e poi portare a termine un concerto, come uno spettacolo teatrale, è una cosa che non tutti possono intuitivamente capire, se non ne hanno avuto esperienza. Le persone vivono l’esperienza di uno spettacolo che dura magari un’ora, eppure dietro a quell’ora c’è un anno di preparazione. Ed è proprio per quel momento magico di condivisione con il pubblico che noi lavoriamo. Alla base c’è il piacere di fare musica, il piacere di trasmettere emozioni e quello di fare cultura, portando certe pagine musicali a conoscenza di chi magari non le aveva mai sentite, non avrebbe mai avuto occasione di sentirle così.

CP: Come s’impara coralmente a interpretare un pezzo?

GD: Nella musica, quando tu canti hai delle intenzioni e sono le intenzioni che devono passare nel canto corale. Un brano musicale può essere interpretato con intenzioni diverse e quindi trasmettere emozioni diverse a seconda di come è interpretato. Ogni passaggio musicale ha pertanto un’intenzione che può essere trasmessa attraverso la proposta di cantare il passaggio più piano, più forte, in rallentando, in crescendo, con un accento piuttosto che un altro. Ecco, un bravo maestro non impone mai la sua scelta sul modo di cantare un passaggio, piuttosto la motiva. Convince e spiega ai coristi il suo modo di vedere il pezzo e di conseguenza come pensa che il pezzo debba essere interpretato. Può essere anche disposto anche a modificare alcune intenzioni se i coristi motivano sensatamente una scelta diversa in una negoziazione che entri nel merito del significato del brano.

CP: Che rapporto c’è tra professionismo e non professionismo nell’esperienza nei cori?

GD: Ci sono dei cori diretti da professionisti e ci sono dei cori diretti da non professionisti. La cosa un po’ amara è che nella nostra cultura coristica, i maestri e i professionisti vengono equiparati ai non professionisti. Non si sa che alcuni di noi, come me, hanno speso un’intera vita a studiare, ottenendo diversi diplomi e facendo corsi di aggiornamento di ogni tipo. Il contesto dei cori è poi, in generale, un contesto di cantanti non-professionisti. Però accade spesso, come nel nostro coro, che tra le file ci siano persone diplomate in musica. Ovviamente più i coristi e le coriste sono preparati, più il livello del coro sale. Per esempio, professionista fondamentale nel lavoro del coro Antiche Armonie è Laura Crosera, diplomata in pianoforte e clavicembalo, che ci aiuta nella preparazione dei concerti con orchestra. Laura studia tutto il concerto e accompagna il coro per tutte le prove, suonando tutto quello che farà l’orchestra.

CP: Qual è infine l’obiettivo di questo lavoro così impegnativo e costante nel tempo?

GD: Io credo che l’obiettivo condiviso sia sempre la musica. È molto semplice. C’è l’impegno di tutti e tutte verso una qualità alta del fare musica. La condivisione di quest’obiettivo è percepibile durante le prove, perché in sala prove, per due ore, non vola una mosca. Poi, finita la prova, si ride e si scherza, ma lì nello spazio dedicato alla musica c’è una grandissima e condivisa concentrazione. Le persone sono intellettualmente curiose e questo spazio è per loro, come per me, nutrimento. Vogliono arrivare al “bello”, a quel “bello” che hanno coltivato e sono capaci profondamente di sentire e condividere.

E il bello del coro Antiche Armonie lo potremo ascoltare nei prossimi giorni a Brescia. Infatti il coro si esibirà in «Judith» di Marc-Antoine Charpentier (1643-1703), oratorio per soli, coro e orchestra in forma semiscenica, a Brescia il 25 maggio alle 20 presso il Salone Da Cemmo del Conservatorio. Il concerto verrà replicato il giorno successivo, 26 maggio alle 21, a Darfo Boario presso la Chiesa dell’ex convento.

“Fare coro” è quindi un’esperienza che crea comunità attraverso un progetto artistico condiviso. Il punto non è solo fare un’esperienza insieme, ma condividere un percorso di carattere artistico. L’arte è maestra perché insegna a rinunciare agli interessi particolari per qualcosa di alto e condiviso. Insegna come prendersi collettivamente cura della creatura artistica, seguendola in ogni particolare, perché possa esprimere a pieno il suo potenziale e regalare bellezza. Concludo sottolineando che, a ragione della ricchezza di queste esperienze, sarebbe anche utile che questo tipo di iniziative fossero sostenute anche dalle pubbliche amministrazioni e non solo dal volontariato. Accade infatti, spesso che questo tipo di attività artistiche siano formalmente applaudite dalle istituzioni, ma in pratica vengano sostenute solo a parole.

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