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I MOOSTROO contro il «Male»

Intervista. Giovedì 5 gennaio il trio bergamasco presenterà il nuovo disco al Druso di Ranica (in apertura Tangle). Ne abbiamo approfittato per intervistarli e saperne di più del nuovo lavoro, che si annuncia parecchio interessante, groovoso, viscerale e ovviamente moostruoosoo. Dulco: «è un disco che suona come un esorcismo». Franz: «è una seduta di psicanalisi pubblica». Igor: «il caos è la nostra guida»

Lettura 6 min.

Per chi non lo sapesse i MOOSTROO sono Dulco Mazzoleni (da questo momento DM), Francesco Pontiggia (FP) e Igor Malvestiti (IM). Ci siamo incontrati su Skype per parlare e indagare un po’ sul nuovo disco «Male», che vede come principale novità l’introduzione dell’elettronica, ma anche molto altro.

LB: «Musica per adulti» è del 2016. È passato un bel po’ di tempo, in mezzo c’è stata una pandemia, una guerra, una crisi economica ancora in corso, e tutto questo nel disco si sente. Come ci avete lavorato? E come avete vissuto questo tempo?

FP: Per me è stata una grande emozione, come ti avevo scritto in quell’articolo per Eppen, al netto del dramma, della paura e dei fatti di cronaca ovviamente. Come diceva Montale, «scoprire uno sbaglio di Natura»: mi è sembrato che la Natura stessa ci potesse mettere dentro ad una qualche verità.

DM: Siamo tre teste pensanti e ciascuno di noi ha idee che, una volta condivise, creano stimoli per gli altri due. Dopodiché è successo quel che è successo e tutto si è fermato. Senza perderci d’animo abbiamo iniziato a cercare strategie per tener viva la fiamma creativa. Quindi grazie alla tecnologia ci siamo sollecitati a distanza. Io avevo testi per me risonanti, soprattutto emotivamente risonanti. Ne abbiamo fatta una selezione, ma in più abbiamo sperimentato il lavoro a rovescio. Franz aveva delle idee armoniche e ritmiche e le competenze per produrre con l’ausilio della tecnologia, quindi alcuni brani sono nati a posteriori.

IM: Un vero e proprio metodo di lavoro lo abbiamo sviluppato solo nella fase finale, al momento del confezionamento della forma «disco», prima di allora e come sempre il caos è la nostra guida, la nostra musa, vomitare emozioni, eviscerarsi, poi si stabiliscono limiti, confini e forme, questo «Male» è solo il primo dei due capitoli che con «Bene» completeranno l’opera. Ecco, «Bene» ha appena trovato una sua forma dal caos, ora non resta che convertirlo in una forma fruibile.

LB: Quindi dopo «Male» ci sarà un secondo lavoro, «Bene»…

DM: Il caos è creativo, Dioniso è la nostra musa. Tante idee sono nate casualmente su scheletri di brani. Disponiamo ancora di un archivio di prove in cui abbiamo suonato jam session che funzionano grazie alla sintonia maturata in anni di prove. Poi è arrivato il momento della selezione e ci siamo trovati una ventina di canzoni pensate come singoli. A quel punto è stata necessaria la selezione. Ne abbiamo tratto sedici brani, troppi, soprattutto oggi che le canzoni sono fruite singolarmente e che l’idea di disco sembra sorpassata. Ma ce ne siamo ampiamente sbattuti e ne abbiamo tratto due dischi in dialogo tra loro. Il primo è «Male» e, come ha anticipato Igor, il prossimo sarà «Bene». Per quanto riguarda la pandemia e il lockdown tutto si è fermato. A quel punto mi sono esposto io con versioni acustiche dei vecchi brani, mentre da casa confezionavamo attraverso un gran lavoro a tavolino coordinato da Franz, che è il regista della produzione artistica di questo progetto. Lavorare a rovescio, così come abbiamo fatto, ci ha aperto nuove possibilità, inducendoci a sperimentare un po’ di elettronica.

IM: Una cosa che abbiamo imparato con il tempo è che difficilmente un brano può essere piegato alla nostra volontà, esso ha già una sua forma, a noi spetta di trovarla, senza l’arroganza di volerla plasmare a nostro piacimento, il brano, quando lo si trova, si palesa da sé, abbiamo sprecato un sacco di tempo prima di comprendere questa cosa e farla nostra.

LB: Come mai avete scelto come titolo «Male»?

DM: Il Male si è palesato da vicino. Io vivo a cinquecento metri dall’ospedale di Alzano e nel silenzio delle notti si sentivano solo evocative sirene dell’ambulanza. Poi, dice Igor, «di cosa altro è capace l’uomo?», «l’umanità non l’uomo produce male, no?» Dobbiamo ricordare la guerra, la crisi climatica e della biodiversità del pianeta e le innumerevoli nefandezze di cui l’umanità è capace? Ma non è un disco di tre depressi, al contrario... È un grido dal profondo.

LB: Mi volete dire qualcosa anche sulla copertina? È la foto di qualcuno di voi?

FP: È una mia foto alla prima comunione, avevo otto anni, nei miei occhi c’è tutta la perplessità di un mondo che mi risultava inconsistente, mi sembrava che niente si incastrasse, mi/ci è sembrata la foto perfetta di un’epoca, oggi come allora, di una coscienza collettiva. Inizialmente doveva essere la copertina di «Bene», ispirata a Carmelo Bene e alla sua figura illuminante, viva, disarmante, destabilizzante, profetica, urticante, ma per una serie di vortici caotici è diventata «Male», forse per acuire maggiormente il divario tra noi e noi stessi, tra noi e il mondo, ma al contempo raccogliere attorno chi come noi si sente traviato, travolto, ma non molla niente, tiene duro, cerca di raccogliere una goccia di umanità, una «goccia di splendore» nel mare crudele e feroce di questo mondo.

DM: È un disco che suona come un esorcismo. La copertina ne è la prova.

FP: È una seduta di psicanalisi pubblica.

LB: Da cosa nasce l’esigenza di inserire l’elettronica nel vostro suono così riconoscibile?

FP: Quello che mi appassiona è il groove e da quello parto, il beat, cardiaco, è la base, basso e batteria sono i messaggeri, gli emissari di questa pulsazione-pulsione; sono i re magi che partono per glorificare la voce e i testi di Dulco da sempre motore immobile che anima le cose celesti del caos che abbiamo dentro. L’elettronica per noi è ritmo, è ruvida espressione che «po’ esse fero e po’ esse piuma» sempre al servizio del nostro demone, come suoni d’organo che invocano Lieo il liberatore: la nostra sorda speranza è che Dioniso venga a farci visita… alle prove, nei nostri sogni, nella nostra vita.

LB: È però un’elettronica anche atmosferica: mi viene da dire rumorosa, materica, “scivolosa”…

FP: Hai ragione non è solo ritmica ma anche sogno, un universo onirico che al solo groove mancava. Un qualcosa che potesse poi cullare la voce e il testo.

LB: L’impressione è che su ogni canzone ci sia molto lavoro: nelle ritmiche basso-batteria sempre più complesse, nella chitarra, nelle linee vocali, nell’interpretazione. Con quale intenzione siete partiti nel lavorare a questo disco e quali obiettivi pensate di aver raggiunto?

DM: L’intenzione è stata superare noi stessi, l’oltranza, l’andare oltre. L’obiettivo raggiunto è dotare di autenticità la sperimentazione.

FP: Il lavoro come produttore supportato dai miri angeli custodi è stato enorme, ore ed ore a cesellare, a incastrare, a cercare ispirazione, soluzioni. E alla fine avere il caos come aggregatore finale.

DM: Adesso è Igor che darà vita a questa novità, l’elettronica è in mano sua.

IM: Già, Dulco porta un brano che gli esce dal cuore, dalla testa o dal culo, noi lo si mangia, digerisce e vomita, a Franz il compito di rimettere ordine in quel bolo.

LB: Dal titolo e da certi brani sembra un disco politico, uno sguardo duro sul nostro tempo («Apparenza»). Ma ci sono pezzi anche più personali, tipo «Abbraccio» o «Tuttobene». Dunque politico e personale: distaccati o in qualche modo interconnessi?

DM: La dimensione personale ha inevitabilmente una ricaduta politica. Se stai male vivi male e interagisci male, allora ecco il senso del fare i conti con il «mondo». C’è molta riflessione, speculazione, nel senso che cerchiamo di rispecchiarci nel mondo per trovare un’immagine di noi che ci assomigli in modo autentico e integro. Ci lavoriamo costantemente.

LB: «Polveriera» è una delle canzoni meno immediate del disco. C’è questo verso molto bello, «con una preghiera che si fa polveriera», e questa cassa dritta che entra ad un certo punto insieme ad un’atmosfera rumoristica che rende il pezzo abbastanza straniante.

DM: «Polveriera» è il capolavoro del disco. Lì Dioniso ci ha benedetto.

FP: È il pezzo a cui siamo più legati, il testo era ostico, uno schiaffo, «una preghiera che si fa polveriera». Sentivo che aveva un potenziale gigantesco e come per magia è emersa questa ritmica, che ho condensato in un loop trovato anch’esso a caso, emerso dall’abisso. Una ritmica sincopata ma rotolante che ha trascinato con sé una serie di intuizioni disarmanti come le chitarre deliranti composte da Dulco, esplosioni. Un’invocazione pagana. Fa parte di una liturgia, insieme a «Valzerino di provincia» del nostro primo disco.

DM: A noi piace cercare soluzioni ardite per i nostri standard e sposarle ad arditi contenuti, convinti che le parole debbano avere senso.

IM: Inoltre ha degli echi in brani che abbiamo scelto di inserire nella seconda parte del disco, «Bene», quando si ascolteranno le due parti nel loro insieme risulterà meno estranea e straniante.

DM: Sì, ecco... non dimentichiamo l’aspetto dialogico tra i due dischi, che saranno compendiati da Tarocchi a due facce, ma su questo manteniamo il mistero.

LB: Come mai avete scelto di inserire una cover di «Disamistade» di De André, peraltro veramente riuscita?

FP: De André è capace di rivoltarti la testa, il corto circuito è totale e assoluto, attrae con una forza a cui è difficile dire di no. E noi ci siamo lasciati sedurre.

DM: Celebriamo questo capolavoro di De André e Fossati dalla nostra prospettiva angolare. La lirica, come risaputo, narra di faide tra comunità in una società chiusa e diffidente in cui la lotta al vicino viene combattuta con gesti vigliacchi fuori dalla comprensione della accomunante miseria umana. Abbiamo cercato, attraverso una metafora in video che uscirà prossimamente, di attualizzarne il contenuto raccontando dell’oggi, di come l’estraneo sia percepito come un pericolo da respingere. È la messa in scena dell’incomunicabilità nell’era della comunicazione, della reciproca lontananza nella convivenza globalizzata. Ciò che rileviamo è la miseria materiale di chi migra e la miseria spirituale di chi si arrocca nell’illusione della sicurezza. Emerge inevitabilmente una questione morale. Di certo la canzone, nella sua potente universalità, fotografa il presente e provoca una presa di parte. Musicalmente abbiamo spolpato l’originale magnifico arrangiamento, per dare enfasi alla drammaticità del testo. Ne risulta una versione cupa che riflette per antitesi la luminescente consapevolezza di De André in merito alla malcelata e spesso compatita mostruosità umana (tema a noi caro).

LB: Questo disco è marchiato Do INK Yourself. Ci volete raccontare com’è nata questa collaborazione e in cosa consiste?

DM: Do INK Yourself è un interessante nuovo progetto maturato nel grembo del mitico Ink Club. Si tratta di un collettivo coordinato da Dimitri (Sonzogni, ndr) finalizzato alla promozione di progetti musicali. Beh... ci stanno aiutando con grande sostegno e c’è molto feeling tra noi. Mettiamo in comune le idee per produrre aperti alle collaborazioni. Abbiamo collaborato, per cominciare, con Lucrezia Fontana, una valevole giovane artista in merito ai Tarocchi di cui sopra. Le idee suggeriteci da Dimitri e Matteo, i nostri promoter, sono per noi uno stimolo creativo ulteriore. Contiamo di progredire ancora.

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