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La fisarmonica di Richard Galliano. Prima di tutto, l’amore

Intervista. Aprirà la terza serata del festival «Bergamo Jazz», il 26 marzo, a tredici anni dalla precedente presenza. Il fisarmonicista Richard Galliano torna sul palcoscenico del Teatro Donizetti – con Adrien Moigard alla chitarra e Diego Imbert a contrabbasso e batteria – in «New York Tango Trio»

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Richard Galliano (Foto Sergi Braem)

Questa è prima di tutto una storia e, in quanto tale, ha un inizio e un luogo: secolo scorso, Francia, Costa Azzurra. Alla fine della Seconda Guerra Mondiale un musicista amatoriale, fatto prigioniero in Germania, ritorna dalla famiglia con un organetto diatonico nella sacca. Lucien Galliano, il fratello giovane, scopre lo strumento e decide di imparare a suonarlo. Lucien cresce e si perfeziona fino a diventare in breve tempo un grande maestro, l’unico in Francia a suonare la fisarmonica con tastiera a pianoforte. Alcuni anni dopo è proprio lui, Lucien, a insegnare a suo figlio, il piccolo Richard, i segreti di quello strumento unico, capace di “respirare”, con cui si può suonare (e immaginare) qualsiasi cosa.

Se oggi la fisarmonica gode di nuovo di uno status maggiore nella musica contemporanea, Richard Galliano c’entra. Il compositore d’oltralpe unisce il fascino francese della musette e della chanson a un jazz sofisticato e di forte vitalità espressiva, in una miscela di new musette e new tango di cui lui stesso è artefice e autorevole interprete. Ispirato e incoraggiato dal più influente di tutti i tempi, proprio come fece Piazzolla con il suo «Tango Nuevo», Galliano ha, infatti, aggiornato la musica per fisarmonica senza abbandonare mai la tradizione, creando il «New Musette»: l’unione del musette con blues, tango e jazz.

Dentro quello sconfinato abbraccio con l’accordéon, Richard Galliano esplora il suo strumento in modo totalizzante, grazie anche alla formazione come pianista e trombonista, che lo sensibilizzano al timbro e al volume. Il risultato è una musica che risplende di giocosa sicurezza e virtuosismo, padroneggiata come solo i migliori compositori riescono a fare. Tutto passa in quell’abbraccio, nel respiro palpitante del mantice: dal fraseggio della fisarmonica a bottoni come fosse un sassofono all’oscillare delicato che ricorda un Hammond B3, a volte evoca toni soffusi, poi di nuovo il suono si dilata fino alla potenza di un organo da chiesa.

Prima di aprirsi al jazz, Richard Galliano ha cercato il dialogo tra musica e voce umana. Al fianco di cantanti come Barbara, Juliette Gréco, Serge Reggiani e soprattutto Claude Nougaro, ha imparato a coprire un’enorme gamma di emozioni con piccole sfumature a lui estremamente care. Tradizioni mediterranee, folklore immaginario, tango, musette, chanson, musica manouche e vaudeville, swing e jazz europeo contemporaneo, diventano un universo musicale multistrato che può sembrare leggero, ma il suo effetto è decisamente profondo e travolgente.

Nell’arco della lunga carriera Galliano ha collaborato con i più riconosciuti musicisti internazionali. Ha iniziato da bambino, studiando con il suo più grande riferimento, il padre Lucien. Al Conservatorio di Nizza, diretto dal compositore Pierre Cochereau, si è perfezionato in armonia, contrappunto e trombone. Arrivato a Parigi nel 1975, ha fatto subito conoscenza con il cantante Claude Nougaro, dalla cui collaborazione sono nate molte canzoni che sono parte del patrimonio della canzone francese. Il secondo incontro decisivo per Richard Galliano è stato, nel 1980, con Astor Piazzolla. Il 12 dicembre 2020 ha festeggiato settant’anni di vita e cinquant’anni di carriera sul palco della Salle Gaveau di Parigi, ma la sua ricerca non conosce stanchezza. Per la gioia del pubblico.

CD: È impossibile non immaginare quel bambino di quattro anni con la fisarmonica tra le mani: sente di aver realizzato i desideri di quel giovanissimo Richard che suonava con papà? E sono ancora vivi quei sogni?

RG: Oh, quel bambino! Ho settantadue anni e mi sembra di averne ancora quattordici, la musica prevarica la linea del tempo. Ho iniziato da piccolissimo e mio padre per me è sempre stato il mio più grande esempio. La musica, sai, è prima di tutto una medicina. Crescendo, l’unica difficoltà che riscontro è quella di mantenere sempre alta la voglia di suonare, di fare, di uscire fuori. Io sono molto abituato al contatto con il pubblico, con gli altri musicisti che suonano con me, mi sposto da un lato all’altro dell’Europa, ma quando poi torno a casa, la mia preoccupazione è non perdere mai la voglia: se mi fermo, mi stanco. Il talento, d’accordo, esiste e sappiamo che conta, ma senza la voglia… senza quella, non c’è niente.

CD: In conservatorio ha studiato trombone, cosa l’ha spinta a non allentare mai il legame con la fisarmonica?

RG: La fisarmonica è tutta la mia vita prima ancora di me. È prima di tutto una storia di famiglia, una storia d’amore. Mio padre era professore, uno straordinario fisarmonicista e compositore. Io da bambino nutrivo il desiderio di essere come lui, è sempre stato il mio più grande fan e oggi mi manca molto. Ogni volta che mi sentivo demoralizzato, che avevo dubbi, lui era pronto a risollevarmi. Ho studiato trombone, sì, e pianoforte per la composizione, ma sempre ritorno alla fisarmonica. Anche alla prima: una «Victoria» di Castelfidardo che mi regalò mia nonna quando ero poco più che bambino e che suono tutt’oggi.

CD: Francese con origini italiane: i bisnonni umbri e cuneesi. Come risuona il legame con le origini nella sua musica, ci sono generi più di altri che la riportano alla sua storia?

RG: Quando sono tornato in Italia all’inizio degli anni novanta ho avuto la forte impressione che fosse il mio posto, il luogo dei miei ancêtres. Porto dentro le parole di Astor Piazzolla, che un giorno mi disse: «un musicista deve suonare la musica della sua terra», chiaramente includendo tutte le influenze del resto del mondo, dalle Americhe ad ogni altro luogo. In Italia, il legame con la musica tradizionale è più forte che in Francia. Con le parole di Piazzolla ho capito che la valse musette – con il jazz e altri generi – fa parte della mia personalità musicale. È difficile fare qualcosa di nuovo, di originale, io ci provo sempre, ma ho (e riconosco) queste radici molto forti, legate a Nizza e all’Italia, che si fondono con le influenze parigine, città in cui abito da cinquant’anni.

CD: Ha attraversato moltissimi generi della sua vasta discografia, in che modo si sente di farlo? Esiste, per lei, un punto di contaminazione universale?

RG: La prima cosa è sempre l’amore. Per la musica, per le cose belle, per ciò che fa vibrare. Per ogni stile, deve esserci alla base un amore per le armonie, le melodie e il tempo. Quando suono Mozart, o Vivaldi, io penso sempre allo swing, alla danza. Posso suonare una valse parisienne, ma per il tempo, il ritmo, io penserò all’Africa. La vibrazione è ciò che ha di universale la musica, ciò che durante i concerti si estende dai musicisti fino al pubblico. Non ultime, le emozioni che la musica ha la forza di comunicare e di scatenare.

CD: Lei riconosce molto l’importanza degli altri nella sua carriera, da suo padre ai più grandi nomi della musica internazionale con cui ha suonato. Ci sono incontri in particolare verso i quali si sente grato?

RG: C’era un fisarmonicista di origine italiana, Jo Basile, che era popolare in America e che mi ha molto aiutato a Parigi nei primi tempi. Poi i cantanti francesi come Serge Reggiani, Claude Nougaro, Barbara e Charles Aznavour. C’è stato l’incontro fondamentale con Piazzolla: lo sentivo molto vicino, sai, c’era un’affezione davvero forte con lui. E anche quelli non premeditati, come con Chet Baker, Eddy Louis, Ron Carter e gli italiani Paolo Fresu e Enrico Rava. Ah, e poi, importantissimo: conosci Gianni Coscia? Lui formidabile! Ha novantadue anni e per me è un grande esempio, ha un feeling intenso con la fisarmonica, un approccio con lo strumento così intelligente.

CD: E i suoi compagni in questa tappa bergamasca di «New York Tango Trio»?

RG: Suonerò con il chitarrista Adrien Moigan e il contrabbassista Diego Imbert, con una soluzione molto semplice: entrambi in acustico. Imbert è un bassista straordinario, Moigan segue la linea di Django Reinhardt, ma con un’identità moderna. Sono entrambi musicisti eccezionali e molto più giovani di me. Pensa, io ho “solamente” il doppio degli anni di Adrien! Sono andato ad un suo concerto e, tra il pubblico, mi sentivo un pesce che scopre l’acqua. Come posso dirlo? È un sogno suonare con loro: è facile, allegro e positivo.

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