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Manuel Agnelli, «Ho tante cose ancora da raccontare per chi vuole ascoltare…»

Articolo. Il cantante degli Afterhours a «Bergamo NXT station» il 12 agosto per l’ultima data del suo tour estivo, ad anticipare l’uscita del suo primo disco in solitaria, «Ama il prossimo tuo come te stesso». Un’occasione per fare il punto su un artista di cui si è chiacchierato troppo negli ultimi anni, perdendo di vista la peculiarità libertaria di un percorso sonoro che oggi, dopo oltre tre decenni di musica, appare ancora vivido e gratificante

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Era il 2009, gli Afterhours erano appena stati a Sanremo e io lavoravo a L’Isola che non c’era, una testata storica – tutt’oggi esistente – dedicata alla musica italiana. Con il direttore di allora, che è il direttore di oggi, Francesco Paracchini, riuscimmo a combinare un’intervista con Manuel Agnelli in un ristorante di Milano, in zona corso Sempione. Erano passate poche settimane dalla partecipazione al Festival con «Il paese è reale» e dall’uscita dell’omonimo disco che ospitava diciannove brani di artisti dell’indie italiano – un bel dischetto con tante ottime canzoni, che forse non ricevette il giusto merito sugli scaffali dei negozi.

Gli After a Sanremo avevano fatto la loro bella figura, portando una canzone tutt’altro che adattata al contesto, ma il primo impatto con il palco dell’Ariston non fu dei più entusiasmanti. Ricordo che in quell’intervista Manuel mi disse che stare su quel palco, con tutta la spinta sonora dell’orchestra intorno, era come cantare in un hangar. Un modo chiaro per dire che se non sei abituato a certi ambienti, tenere l’intonazione non è la cosa più facile del mondo. E infatti chi ha buona memoria ricorda che la prima esecuzione de «Il paese è reale» in tv non fu un trionfo, e che di lì a pochi minuti Manuel cantò decisamente meglio il brano in una versione chitarra e voce in diretta su Radio 2. Poi nelle sere successive andò meglio.

Quello che però mi sorprese lì per lì è che Agnelli mi confessò candidamente che, tornato dalla Riviera, lo attanagliavano dei dubbi sulle sue qualità di performer, tanto da fare una sorta di verifica privata reinterpretando alcuni classici di Lou Reed e di Tom Waits per testarne la resa. Purtroppo quell’intervista oggi in rete non c’è più e dovete fidarmi delle mie parole: è un peccato perché – a parte questo episodio di temporanea insicurezza vocale – nell’intervista parlammo di varie cose interessanti e Manuel dimostrava già allora una certa lucidità sul contesto in cui si muoveva. Eravamo a un passo dell’inizio del fenomeno «ok, siamo stati indie, adesso però vogliamo i soldi», che stava per accelerare notevolmente fino all’attuale «ok, vogliamo i soldi». Un modo simpatico per dire che le cose dal 2009 a oggi sono molto cambiate e non devo certo dirvi io come, le orecchie le avete.

Sta di fatto che il provocatorio, per qualcuno arrogante, per altri semplicemente «rock» (dunque eccessivo e facile a infiammarsi), Manuel Agnelli confessava ad un giovane penna in erba quale ero allora di essersi trovato in difficoltà sul palco dell’Ariston. Un atteggiamento che da lui non ti aspetteresti, e invece. Un segnale che dice come il personaggio Agnelli probabilmente sia più complesso di come negli anni ce lo siamo raffigurato, una raffigurazione che era (è?) tutta nella nostra testa e poco nella (sua) realtà. Non sto parlando di X Factor e dei Måneskin – parole obbligatorie in un articolo dedicato ad Agnelli: bene, le ho scritte, ho pagato il pegno, ora possiamo andare avanti. Sto parlando dell’Agnelli artista, uno che è andato dove lo hanno chiamato, certo, con una sua precisa e dichiarata intenzione, ma che nel mentre non ha rinunciato a un grammo del suo percorso.

Pensateci: dopo Sanremo gli Afterhours avrebbero potuto fare un disco più pop – e a dirla tutta pop non lo era neppure quello prima del Festival, «I milanesi ammazzano il sabato», un disco non di canzoni singole, svettanti, ma unitario, formato da tanti tasselli (alcuni peraltro magnifici). Invece uscirono, nel 2012, quindi prendendosi tre anni di tempo, con «Padania»: il disco con la title-track che diventa subito un inno nei concerti, ma anche di pezzi coraggiosi come quel richiamo a Stratos che è «Metamorfosi» o la bellissima e strana «Costruire per distruggere», che a me ha sempre ricordato Gaber. Brani che visti oggi sembrano suggerire la dolorosa sperimentazione del successivo «Folfiri o Folfox», un disco (doppio) spigoloso, rabbioso, che non cerca in nessun modo una comunicazione facile con il pubblico. In mezzo poi c’è stato il tour teatrale e la celebrazione dei trent’anni della band, nel frattempo diventata una sorta di dream team di ciò che di meglio c’è sulla piazza italiana (Stefano Pilia e Xabier Iriondo alle chitarre; Fabio Rondanini alla batteria).

Cosa accomuna tutto quello che ho raccontato fino ad ora? Un senso di libertà che in Italia poche altre volte si è ravvisato, e certamente in lidi ben diversi. Quel senso di libertà che è di Manuel Agnelli e lo ha accompagnato fino ad oggi. Un senso di libertà che potremmo tradurre con un più diretto «faccio quello che mi pare», come nella bella intervista rilasciata a Rockit prima dell’avvio del tour, una risposta franca a chi ha arricciato il naso per certe scelte sonore o televisive.

Agnelli prima della pandemia fa un tour con Rodrigo D’Erasmo voce-chitarra-violino («An evening with Manuel Agnelli», 2019), poi arriva lo stop pandemico, quindi esce il film «Diabolik» e con lui due canzoni che dicono parecchio di quello che sarà successivamente. «La profondità degli abissi» è una ballad da manuale, cantata in gran forma, giocata sul piano delle strofe, sul basso tellurico e sull’esplosione del ritornello – David di Donatello 2022 come miglior brano originale e ritornello programmatico: «la verità si può cambiare / la verità si può travestire». «Pam Pum Pam» è invece un pezzo “cameristico”, archi e pianoforte, dove la voce spicca muscolare. Già qui si capisce che se di ritorno si tratta, non sarà certo per annacquare quanto fatto in trent’anni di musica.

E difatti a giugno arrivano «Proci» e «Signorina mani avanti»: la prima una sorta di rappresentazione teatrale in tre minuti e mezzo, testo explicit, voci a schizzare da tutte le parti, piano e martello di batteria, cioè quanto di meno rotondo si possa immaginare da queste parti; la seconda una ballata piena di dettagli sonori interessanti con una progressione trascinante, il ritornello contagioso e un testo che torna su tematiche già percorse («Sai che il tuo sogno / ormai è solo un sogno / Gira la voce che tu sia sbagliata / Questo è l’inganno della rivoluzione / Cambia il tuo futuro, ma lo cambia a modo suo / Cerca, forse trovi, quello che non c’è / Ma se non cerchi niente prova me»).

A luglio inizia il tour, che avrà nella data di «Bergamo NXT Station» il 12 agosto (biglietti qui) l’ultimo appuntamento, che significa band ormai rodata. Agnelli porta sul palco i pezzi nuovi e quelli degli Afterhours («adesso stiamo suonando i pezzi già usciti, più moltissimi pezzi degli Afterhours che alla fine sono pezzi miei», dirà prima dell’inizio del tour a Radio Capital). Sul palco porta i Little Pieces Of Marmelade (batteria e chitarra) da X Factor, un bassista (e polistrumentista) solido come Giacomo Rossetti dei Negrita e soprattutto Beatrice Antolini, nome di cui si parlò molto a metà anni Zero (il Mucchio le dedicò una copertina e un’intervista), polistrumentista e cantante eccellente, già con Vasco Rossi e Tommaso Paradiso, che nell’economia della band di questo tour porta un carico di suoni che impreziosisce e “scuote” i brani.

Il tutto anticipa l’uscita di un disco il prossimo 30 settembre, «Ama il prossimo tuo come te stesso». Intanto i concerti fatti fino ad ora sembrano ribadire che quel che più ha contato in questi anni per Manuel Agnelli è l’aver seguito la sua strada, lasciandosi alle spalle voci e critiche a volte un po’ campate per aria (come se fare i soldi fosse una colpa, ad esempio, un tipico moralismo pseudo indie altamente tossico). La sua oggi è un’idea di musica aperta, brulicante di libertà e voglia di fare, fatta di buona scrittura e idee sonore spiazzanti ma non troppo. Che arriva dopo più di trent’anni di cose fatte, molte riuscite, altre meno, ma sempre con la volontà di fare ciò che si ha in testa. Sarà un caso se oggi fra i brani più ascoltati su Spotify nella pagina Manuel Agnelli c’è «L’avvelenata» di Guccini, che il nostro interpretò per un disco-tributo al cantautore emiliano di qualche anno fa. Il paragone Agnelli-Guccini non regge, ma quello con la canzone sì. Come dire, questioni di affinità elettive: «Ho tante cose ancora da raccontare per chi vuole ascoltare, e a culo tutto il resto».