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«Parlo di ciò che conosco, quindi me»: il disco-storia di Jim Mannez

Articolo. Il nuovo progetto solista di Andrea Manenti, ex Le Madri degli Orfani, è un bel disco autobiografico di cantautorato folk (e molto altro). La nostra intervista

Lettura 4 min.

Folk, rock, blues, cantautorato, post punk, perfino un po’ di rock and roll anni Cinquanta e tanto altro ancora: l’esordio solista di Andrea Manenti (pubblicato con Gasterecords) è un caleidoscopio di influenze e citazioni, sapendo restare personale e molto intimo. Abbiamo raggiunto l’ex Le Madri degli Orfani per una bella chiacchierata in cui abbiamo approfondito genesi, anima e orizzonti futuri di questo suo nuovo capitolo.

LR: Come sei arrivato a questa nuova esperienza da solo? Come mai adesso?

JM: Le Madri degli Orfani è stata un’esperienza durata dodici anni, poi è arrivata la pandemia. In quel periodo Logan, l’altro frontman insieme a me, ha deciso di lasciar perdere e continuare con il suo progetto solista. Tutti comunque abbiamo proseguito a suonare: lui con il suo progetto, io con il mio, il bassista con un altro e la batterista uguale. Per me proseguire da solo è stata anche un po’ una questione di comodità: non ho più vent’anni ma ne ho trentasei. È molto più semplice dire «prendo la mia chitarra acustica e vado».

LR: È la prima volta che fai qualcosa completamente da solo?

JM: Da quando ho quattordici anni fino a oggi ho suonato con varie band: in questi ventidue anni mi sarà capitato quattro o cinque volte di esibirmi da solo, ma mai con continuità come sta succedendo ora.

LR: Anche a proposito di scrittura è la prima volta in cui ti confronti solo con te stesso…

JM: Sì i pezzi sono scritti solo da me, anche se poi per gli arrangiamenti mi ha aiutato mio fratello Gregorio Manenti (Pau Amma) e Marco Parimbelli (Verbal).

LR: Quindi i pezzi nascono chitarra e voce e vengono poi arricchiti in studio?

JM: Esatto. Soprattutto nel disco, perché con la band abbiamo suonato giusto nella data di presentazione e probabilmente ne faremo un’altra verso la fine dell’anno. Per due motivi vado in giro da solo: uno perché oggi come oggi mi trovo veramente meglio in questa dimensione, e due perché mio fratello oltre a suonare nei Pau Amma è anche il chitarrista dei Coma Cose e quindi non c’è mai.

LR: Cosa comporta il poter scrivere i pezzi “solo per te stesso”?

JM: È sicuramente più intimo: questo album contiene dodici pezzi, non è un concept ma se lo si ascolta dall’inizio alla fine ripercorre gli ultimi anni della mia vita. Si parte da una sorta di presentazione con il primo brano, poi ci sono le storie finite: con Le Madri degli Orfani, con la mia ragazza in «A volte spero di non innamorarmi più»; poi pian piano invece ritrovo una mia sintonia grazie agli amici e alla musica, fino a ritrovare la stessa ragazza con cui ero prima. Quindi c’è una sorta di storia. Parlo di quello che conosco, cioè di me.

LR: Musicalmente come lo catalogheresti?

JM: A differenza de Le Madri degli Orfani, dove cercavamo di seguire un certo genere, a questo giro mi sono lasciato molto trasportare e ho spaziato tra tutti i miei ascolti. Quindi se è vero che parte tutto dal folk cantautorale, da De Gregori a Neil Young giusto per dire due nomi a caso, poi in verità dentro ci sono tantissimi elementi che riportano ad altro. C’è un pezzo in cui volevo assolutamente che l’assolo avesse lo stesso suono di John Frusciante. C’è ne è un altro che è rock and roll anni Cinquanta, poi un pezzo che richiama un po’ le atmosfere di Tom Waits e Capossela. Tutti i miei ascolti vengono ripresi, ovviamente cercando comunque di rimanere il più personale possibile anche se le influenze si notano.

LR: Bello che mi citi proprio John Frusciante: appena ho visto la copertina del tuo disco ho pensato a «To Record Only Water for Ten Days», credo sia proprio lo stesso gradiente di blu.

JM: Quella copertina lì l’ho fatta così perché sono completamente negato per tutto quello che riguarda l’informatica: sono andato a comprare tre cartoncini in cartoleria chiedendo i tre colori primari, e ho fotografato il risultato.

LR: A proposito di Bergamo: nella scaletta, il pezzo «Stazione-città alta andata-ritorno» permette subito di collocare il disco anche geograficamente.

JM: Assolutamente sì: per la precisione, io non sono di Bergamo città ma di Chiuduno, ma ho fatto le superiori e i primi tre anni di università in centro. Quel pezzo parla ancora di quella storia d’amore andata male, descrive un giorno in cui mi sono svegliato, ho preso il treno e sono andato a Bergamo e ho rifatto il tragitto che facevo quando ero alle superiori (ho fatto il Sarpi) avanti e indietro. Poi tornando indietro ho scritto il testo di getto sul treno. Quindi è proprio la descrizione di una passeggiata per Bergamo.

LR: Mi dicevi che l’esperienza con Le Madri degli Orfani si è chiusa con la pandemia: i pezzi del tuo disco quindi sono tutti stati scritti nell’ultimo paio d’anni, o c’è anche qualcosa di precedente?

JM: Ho cercato di non ripescare cose vecchie: la canzone più vecchia che c’è è «Cielo nero» che avevo provato già con Le Madri, ma si parla comunque del 2019, non prima. Ho molti pezzi più vecchi già pronti, ma finché la vena creativa continua cerco di non usarli. Lo fa Pete Doherty tutti gli album, posso farlo anch’io finché dura.

LR: La scelta di non dare un titolo al disco ma di chiamarlo col tuo stesso nome “d’arte”?

JM: È talmente personale, sicuramente la cosa più personale che abbia mai fatto, che rispecchia totalmente me stesso. Il mio pseudonimo non è proprio un nome artistico: Jim è come mi chiamano i miei amici da vent’anni, e Mannez viene da una vacanza in Spagna dopo la quale ero rimasto così. È un soprannome più che uno pseudonimo. Dato che faccio anche il professore alle medie, non mi andava molto di usare il mio nome vero, meglio se i due alter ego restano separati.

LR: Il disco finito è identico a come te lo aspettavi?

JM: È molto aderente: da questo punto di vista, ho avuto la fortuna di essere aiutato da mio fratello. Lui quando lavora con altri artisti spesso è abituato a ricevere una traccia di partenza e poi lavorare da solo a quello che sarà l’arrangiamento finale. Invece, avendo un rapporto fraterno, nel caso del mio disco abbiamo fatto veramente tutto insieme, quindi è venuto esattamente come lo avevo in testa. Anche perché lui riusciva a trasformare ogni cosa che dicevo in suono. Quindi sono completamente soddisfatto.

LR: Il tuo pezzo preferito del disco?

JM: «Volare o no», perché è il più positivo, con la realizzazione del tutto.

LR: Immagino che ora ti concentrerai sul portare in giro il disco…

JM: Sì, da quando è uscito ho fatto già quattro-cinque date. Sono stato a Rivoli con Carlo Pinchetti, questo venerdì suono in apertura agli OTSO alla Base di Palazzolo sull’Oglio, poi ho un altro concerto sabato, altri tre a giugno… Man mano che escono io li prendo! Poi adesso che sono da solo mi sono accorto che è molto più semplice.

LR: Pensi che ci sarà un seguito a questa avventura in solo?

JM: Un seguito nel senso “album intero” penso proprio che ci sarà. Intanto ho scritto una canzone, perché con Carlo Pinchetti, Piccoli Bigfoot, Massi LanciaSassi e un po’ di altra gente vogliamo fare questa realizzazione tra Bergamo, Lecco e Varese: un album di Natale. Io non ci avevo mai pensato prima, però poi è arrivata questa canzone che tra l’altro ho presentato ieri sera a Rivoli. Mi piace molto e probabilmente entro la fine dell’anno la registrerò.

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