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Scoprire Chopin insieme a Pier Carlo Orizio, direttore artistico del Festival Pianistico Internazionale di Brescia e Bergamo

Intervista. Con lui – che dirigerà la Filarmonica del Festival nel concerto d’apertura, il 25 maggio al Donizetti, Jan Lisiecki al pianoforte – abbiamo indagato alcuni tratti del grande compositore polacco naturalizzato francese. Protagonista del Festival dal 24 maggio all’11 luglio (biglietti in vendita dal 21 maggio, abbonamenti il 14 maggio con prelazione abbonati il 12 e 13 maggio)

Lettura 4 min.
Pier Carlo Orizio (Emanuele Comincini)

Parlare di musica classica con il maestro Pier Carlo Orizio è quasi come assistere ad una lezione, senza snobismi e altezzosità alcune. In poche parole ci ha spiegato perché Chopin è Chopin, ma prima siamo partiti dalle difficoltà nell’organizzare un festival come il Pianistico dopo mesi di chiusure. Passione (tanta passione), competenza e voglia di fare conoscere al pubblico grandi compositori interpretati da grandi interpreti contemporanei.

LB: Siete tornati con un festival dai grandi nomi, finalmente al Donizetti, tutto questo nonostante il secondo lockdown. È stato difficile costruire il calendario con un margine di rischio maggiore, dato che le sedute in teatro saranno dimezzate e bisogna considerare anche i distanziamenti che necessitano di una maggiore attenzione da parte del pubblico e degli organizzatori?

PO: Le posso dire che il calendario che abbiamo varato è stata l’operazione più complicata e difficile di sempre. Le notizie che arrivavano dall’estero influenzavano ovviamente la presenza o meno di certi musicisti e ci sono ancora degli interrogativi su come gestire il pubblico e gli artisti, ad esempio quando fare i tamponi, il giorno prima dell’esibizione o il giorno stesso. Insomma su come seguire al meglio il protocollo. Devo dire però che se i problemi sono tanti, la voglia di ricominciare è più forte, molto ma molto più forte.

LB: Che segnali state avendo dal pubblico?

PO: Non abbiamo ancora iniziato la campagna abbonamenti però sono molti i segnali positivi: ci chiamano in tanti per aver informazioni e intorno a noi c’è molto calore. I dati precisi li avremo alla fine della campagna abbonamenti, ma la percezione è quella di un fortissimo interesse.

LB: La domanda, al direttore artistico di un festival dedicato al pianoforte, può sembrare banale. Però non si può partire che da qui per parlare di Chopin. Perché lo avete scelto?

PO: Come ha detto lei, il nostro festival è legato al pianoforte e Chopin è il compositore più importante per questo strumento. Ma c’è di più: fin dal primo momento in cui abbiamo pensato a lui come “protagonista” lo abbiamo sentito nostro. Chopin è il compositore per pianoforte. Non che Beethoven lo sia di meno, e anche Brahms, Ciajkovskij, Prokof’ev sono stati grandi compositori per pianoforte, ma Chopin è unico: il pianoforte è stato l’amore della sua vita, per i veri pianisti è una specie di mito. Ha lasciato pagine di una bellezza che è paragonabile all’opera dei più grandi.

LB: Il titolo del festival è “Chopin. La voce dell’infinito”. È parte di una definizione che la scrittrice francese George Sand diede del musicista, con cui ebbe una storia d’amore, una lunga e burrascosa convivenza. Le fu d’ispirazione? E cos’altro lo influenzò?

PO: Affronto sempre questi aspetti da musicista, mi interessano ma non sono la mia principale occupazione. Ci sarà una conferenza di Piero Rattalino (“Affetti e miti nella poetica di Chopin”, il 2 luglio, al Lazzaretto, con la pianista Ilia Kim, ndr) che disegnerà un quadro esaustivo su tali questioni. Le posso dire però che Chopin aveva un gran bisogno di famiglia, una famiglia normale, era molto legato al concetto tradizionale di famiglia, e paradossalmente l’ha trovato in una convivenza con una scrittrice intellettualmente vivace, anticonformista. Nella frase che abbiamo scelto si capisce come Sand avesse colto perfettamente il genio di Chopin. Ma forse la sua principale influenza fu l‘amore mai sopito per la patria, l’Heimat, il sentimento per la sua terra natia, la Polonia. Chopin si sentiva interiormente polacco e questo sentimento emerge nelle sue composizioni, a partire dalle mazurke. È uno degli elementi chiave per capire ciò che scrisse.

LB: Fu determinante per lui l’obbligo di andare a vivere a Parigi dopo la repressione russa della Rivolta di Novembre (1830). Ma Chopin, anche se prese la cittadinanza francese, non fu mai veramente tale. Nella sua musica c’è sempre la Polonia, la musica popolare polacca ma soprattutto la nostalgia di “casa”, che via via si fece sempre più drammatica…

PO: Assolutamente sì. Nell’opera con cui inauguriamo il Festival, il Concerto per pianoforte n.1 in mi minore , op.11 traspare questo sentimento. E in ogni composizione di Chopin è difficile non riconoscere questo sentimento di nostalgia che per lui era motivo di sofferenza. I motivi di sofferenza nella sua vita furono molti: la malattia che lo colpì per quasi tutta la vita, il rapporto non sempre felice con George Sand. L’episodio di Maiorca è un esempio di cosa fu la vita di Chopin: un luogo tranquillo in cui Chopin cercò di curare la sua malattia e divenne molto prolifico sotto l’aspetto compositivo, proprio mentre faticava ad avere un buon rapporto con la Sand (l’episodio è un esempio dei problemi di salute e di vita privata del compositore, ndr).

LB: Nei diciotto anni francesi si esibì pubblicamente non più di 30 volte, preferendo suonare nei salotti. Alla luce della nostra sensibilità pare un comportamento strano, quasi eccentrico…

PO: Chopin sicuramente non era un animale da palcoscenico, non era Liszt per intenderci. Lo disse lui stesso in una lettera, nella quale ammetteva di non avere le caratteristiche per stupire il grande pubblico, non possedeva il virtuosismo, come ad esempio Paganini. Lo stupore di Chopin forse è la difficoltà nell’eseguire le sue composizioni. Preferiva stare lontano dai palchi, era amato dalle altissime famiglie aristocratiche francesi, per questo suonava spesso nei salotti. Non credo che Chopin immaginasse un percorso nei teatri. La sua non è musica per stupire.

LB: Possiamo considerarlo un pianista semplice da ascoltare, nel senso che arriva molto facilmente, ma è difficile da eseguire?

PO: Sì, possiamo dire anche questo. Facile non nel senso di banale, ma perché la sua musica ha degli elementi che possono arrivare dritti al cuore, alla pancia del pubblico. Tocca all’interprete poi riportare questo. Per suonare Chopin occorre essere chopiniani in un senso tecnico, il ritmo, le anticipazioni che sono tipicamente sue. Negli anni ‘80 e ‘90 questo aspetto tecnico era molto sentito. Oggi l’approccio è più libero.

LB: Riguardo agli interpreti di quest’anno, quali sono, per stile e indole, i più chopeniani?

PO: Il nostro intento è sempre quello di cercare i migliori pianisti per la musica di quell’edizione. In programma abbiamo quasi tutti grandi interpreti, come Mikhail Pletnev o Grigory Sokolov, oppure Jan Lisiecki che aprirà il Festival insieme alla Filarmonica. Fra gli italiani Beatrice Rana e Pietro De Maria, il primo pianista italiano ad aver eseguito pubblicamente l’integrale delle opere di Chopin in sei concerti. Dai 14 anni di Alexandra Dovgan, ai 71 di Sokolov, ci sono tante proposte all’insegna della qualità. La ricerca è stata fatta in questo senso. I conti però si fanno alla fine, li fanno il pubblico e li fa la critica.

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