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Vecchioni il Professore, o il Provocatore

Intervista. Il 5 aprile al Creberg Teatro di Bergamo live con il nuovo lavoro “L’infinito”, che non è sulle piattaforme digitali. Intervista

Lettura 4 min.

Roberto Vecchioni viene chiamato il Professore, ma si potrebbe chiamarlo il Provocatore. Almeno alla luce dell’ultimo disco “L’infinito”, che verrà presentato in concerto venerdì 5 aprile al Creberg Teatro di Bergamo.

Ad anticiparne l’uscita, qualche mese fa, un eccezionale duetto con Francesco Guccini nel brano “Ti insegnerò a volare”, che ha condotto da subito l’intero progetto verso l’omaggio a un mondo e una cultura, quella degli anni Settanta, a cui Vecchioni crede ancora fortemente “perché là è nato e successo tutto. È una canzone sull’amore invincibile per ciò che si vive. È Alex Zanardi a parlare, a ricordare, ed è lui che spiega come fare per rialzarsi. Questo brano si specchia direttamente in quella che è stata chiamata la ‘canzone d’autore’ e che non c’è, non esiste più dagli anni Settanta. Là tutto è stato come doveva essere, cioè immaginato, scritto e cantato alla luce della cultura, semplice ed elementare oppure sottile e sofisticata, ma comunque cultura”.

Non solo Guccini, anche Morgan e Oliviero Toscani sono ospiti dell’album. Un lavoro parzialmente autobiografico (vedi il brano “Com’è lunga la notte”) che nelle intenzioni stesse di Vecchioni non è una raccolta di “dodici canzoni, ma una sola lunghissima canzone divisa in dodici momenti”. Il focus è sui giovani (“siate artefici del vostro destino”) ma il disco non è su nessuna piattaforma digitale. Solo su cd e vinile, a sottolineare una contrarietà al consumo liquido e sfuggevole della musica in rete. Il Professore, insomma, è diventato Provocatore e noi siamo partiti da qui nella chiacchierata che abbiamo fatto con lui.

AS: Buongiorno Professore. Il suo disco dà un messaggio ai giovani, però non è pubblicato in digitale. Mi scusi ma non è una contraddizione?

RV: “(ride, ndr) No, non credo. Diciamo che è una prova di diversità, un modo per mostrare che non c’è un’unica cosa, che c’è dell’altro. Io non sono fra coloro che pensano che i ragazzi non debbano sentire il rap o la trap, ma vorrei che ascoltassero anche altro, che conoscessero ciò che ha fatto la storia della comunicazione, dell’amore, del sogno. Questa scelta è, per così dire, una botta di romanticismo e anche un regalo che mi sono fatto. Questo album, infatti, non va spezzettato. Mi dà fastidio l’idea che entri in una playlist mischiato a decine di altre cose. “L’infinito” è un unicum, un puzzle rigidamente unito che parla di botte al destino e amore per la vita.

AS: Qui dentro ci siete lei, Guccini, Oliviero Toscani…

RV: Un sacco di gente che non ha guardato mai in faccia a nessuno.

AS: Ecco appunto. Una serie di ragazzi terribili e un omaggio alla cultura dei Settanta. È un’operazione nostalgica, c’è rabbia verso generazioni vuote o è comunque un tentativo di dialogo?

RV: Ah ma lei è terribile! (ride, ndr) Diciamo che nostalgia non ce n’è e nemmeno rabbia, qualche volta dispiacere, ma rabbia verso i giovani mai. È più la terza, un tentativo di raccontare delle cose che sembrano lontane, ma in realtà sono le stesse di sempre e sono ancora qui. Va letto più come un: “Provate a sentire anche queste testimonianze, non prendetele subito per retoriche, provate a ambientarvi in questa situazione”.

AS: Professore ma lei è pessimista?

RV: No. Nella vita si attraversano diverse stagioni. Ho avuto periodi di malinconie e nostalgie ma adesso no, va tutto bene. Ho la forza della cultura che mi sono dato e sono ottimista anche per il futuro nostro. Per esempio mi ha riempito il cuore e l’anima vedere le manifestazioni dei ragazzi per il clima, credo veramente che le cose possano cambiare in meglio.

AS: “L’infinito” è ricchissimo di citazioni: Leopardi, Calvino, Puccini, Cappuccetto rosso e altro. Com’è nata “Parola”, l’ultima canzone della tracklist, un’elegia sulla morte del linguaggio? È l’unico brano apparentemente fuori tema…

RV: All’inizio sembra che io stia parlando di una donna, ma è solo perché le parole sono la mia donna. Fin da piccolo le ho amate, le volevo sapere tutte. Avevo capito che conoscere e saper usare le parole era una liberazione enorme. Per il resto, in effetti questa canzone è una sorta di intrusa triste in un disco che non lo è. Ma anche qui c’è una speranza. Ho messo quella suoneria presa da “Otto e mezzo” di Fellini per dare un messaggio, per dire “la vita va vissuta in ogni caso perché è una festa”.

AS: Amare la vita, dunque, ma anche quello che si vive…

RV: Come in una scrittura automatica, da anni mi ripetevo la stessa cosa: bisogna amare ciò che si vive, non solo la vita in sé, ma gli atti, i gesti, le scelte, gli entusiasmi, i tonfi, i progetti che ci costruisci dentro e amarli incondizionatamente, che siano gioia o dolore, vittoria o sconfitta, pietre sparse o monumenti. Ogni cosa che viviamo è unica. Rivissuta non è la stessa di prima.

AS: È ciò che dice la title-track del disco?

RV: Sì, quella è solo una canzone in parte autobiografica. Dentro si muovono altri uomini e donne reali, che a volte si raccontano, a volte sono raccontati nel loro straordinario amore per ciò che si vive.

AS: Qualche accenno sulle canzoni del disco. “Giulio” è dedicata a Giulio Regeni. Cappuccio Rosso lotta contro l’ISIS e muore.

RV: Ho immaginato l’illusione della madre che non può crederlo morto e allora lo racconta con dei salti nel tempo, dei ricordi. Ora bambino, ora adolescente, ora uomo, sempre dolcemente addormentato lì a casa sua. “Cappuccio Rosso” racconta la passione di Ayse (Ayse Deniz Karacagil, morte sul fronte di Raqqa, ritratta anche da Zerocalcare in “Kobane Calling”, ndr) con una lettera immaginaria dal fronte al suo amore. Niente di epico, tutto semplicemente umano. Ricorrere al “verosimile” mi affranca da descrizioni didascaliche e mi fa sentire in parte Regeni e Cappuccio Rosso.

AS: In “Vai, ragazzo” torna la sua passione per gli studi classici.

RV: Sì, la mia malcelata passione per gli studi classici. Ed è anche una specie di endorsement: continuo a pensare che aiutino a tracciare una linea di confine tra vivere la vita o transitarci dentro e basta.

AS: “Formidabili quegli anni” cita invece Mario Capanna.

RV: È uno scippo a Mario Capanna, ma non è il Sessantotto il vero protagonista. Non si tratta neanche di nostalgie per ciò che è stato e non sarà. Il Sessantotto fa solo da sfondo, in realtà parlo di com’ero io in quel periodo, dei sogni e delle speranze che avevo. Perché per me non esiste un “c’è stato” o un “ci sarà”: il mio orologio è fermo in un continuo presente, quello della mia anima e delle mie convinzioni.

AS: Infine non potevano mancare le canzoni d’amore. “Ogni canzone d’amore” e “Ma tu”.

RV: La prima è un madrigale di una semplicità assoluta: mi divertiva l’idea che tutti i poeti del mondo, senza saperlo, avessero scritto d’amore per mia moglie. “Ma tu” è su due piani e due tempi che s’intersecano, e due sono le donne: la prima e l’ultima. Enorme è la differenza tra un sentimento profondo e l’immagine di un sentimento, ma entrambe hanno un loro posto nel cuore.

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