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Giorgio Vallortigara: e se anche le api e le mosche avessero una coscienza?

Intervista. Domani pomeriggio alle 15 a Bergamoscienza, il neuroscienziato affronterà il tema dell’intelligenza animale, confutando le teorie di molti studiosi convinti che gli animali non abbiano un’esperienza cosciente paragonabile a quella umana

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Per filosofi e scienziati, la capacità di percepire sé stessi come soggetti distinti appartiene ai cervelli voluminosi e complessi come quello umano. Eppure, le ricerche sulle capacità cognitive di piccoli organismi come gli insetti aprono inattesi scenari che il neuroscienziato Giorgio Vallortigara presenterà a Bergamoscienza domani (domenica 17 ottobre) alle 15 al Centro Congressi Giovanni XXIII.

LF: Professore, quando ha iniziato a occuparsi degli insetti e perché?

GV: Ho studiato sempre il cervello dei vertebrati, poi ho fatto un anno sabbatico in Australia ed era appena uscito il lavoro di un collega del posto che suggeriva la possibilità che anche nell’ape le metà destra e sinistra del cervello svolgessero funzioni diverse. Così sono andato nel suo laboratorio a vedere e a imparare, poi mi son messo al lavoro sul tema con un’altra collega e, una volta rientrato in Italia, ho deciso di continuare e tenere in laboratorio api, bombi, formiche e moscerini (e, d’estate, formicaleoni) assieme ai miei beniamini tradizionali, pulcini e pesci zebra. Non studiamo però solo l’asimmetria del cervello in questi animali, ma anche il loro senso del numero e dello spazio e, recentemente, un poco anche il sonno in relazione alla memoria.

LF: Quando è possibile parlare di coscienza?

GV: La parola viene impiegata con molti significati diversi, ma il problema fondamentale (e difficile) per i neuroscienziati è quello di spiegare la coscienza fenomenica, cioè il fatto che sentiamo, proviamo qualcosa quando ad esempio osserviamo un colore, odoriamo un fiore o ascoltiamo un suono. Non sempre il nostro comportamento è accompagnato da esperienze sentite, da un provare qualcosa. La gran parte della nostra vita mentale si svolge in maniera inconsapevole, col pilota automatico, per così dire. Quindi il problema è capire perché, anziché semplicemente rispondere in maniera appropriata agli stimoli gli organismi biologici, alcuni abbiano evoluto delle esperienze sentite di questi stimoli. E in che modo i meccanismi fisico chimici del cervello possano produrre e identificarsi con queste esperienze sentite.

LF: Avere coscienza vuol dire che anche un insetto è capace di pensare?

GV: Nel mio libro “Pensieri della mosca con la testa storta” sostengo che provare esperienze è cosa affatto diversa dall’essere capaci di pensare, di mostrare intelligenza o risolvere problemi. Sia gli esseri umani sia gli altri animali sono capaci di forme di pensiero anche sofisticate (ad esempio condurre inferenze di tipo logico) senza alcun accompagnamento esperienziale, consapevole. Possedere capacità cognitive sofisticate non è necessario per provare esperienze.

LF: Cosa distingue quindi gli esseri umani dagli altri animali?

GV: In realtà tutti gli animali sono speciali a modo loro. I pesci elettrici comunicano usando campi elettrici. Noi, no. I ragni tessono le tele. Noi, no. Le puzzole allontano i nemici producendo puzze prodigiose. Noi (di solito), no. Specie diverse posseggono le loro proprie specializzazioni adattative. Anche noi ne abbiamo, ovviamente. Ad esempio, noi leggiamo i libri. Altri animali no.

LF: Mettiamola così: quali animali ci superano e in cosa?

GV: L’intelligenza, sottolineo sempre, non è un’isola, ma un arcipelago. Se consideriamo abilità cognitive specifiche, anziché una nozione un po’ generica di intelligenza, balza agli occhi che diverse specie possono essere più dotate di noi in compiti specifici: una ghiandaia ha una memoria spaziale certo superiore alla nostra, un piccione riconosce immagini ruotate più velocemente di noi, e certi scimpanzé possono giocare una versione del gioco Memory con prestazioni superiori alle nostre. Ma che importa? Posso andare nel bosco con una mappa e memorizzare simbolicamente più luoghi di quanto possa fare una ghiandaia, oppure scrivere con carta e matita cosa c’era dietro una certa carta in una certa posizione nel gioco Memory. Questa è un po’ la nostra specialità: usare i simboli come protesi cognitive.

LF: Il mondo delle api è particolarmente affascinante: hanno pochissimi neuroni, ma lei sostiene che sono capaci di riconoscere un dipinto.

GV: Meno di un milione, per la precisione 960.000 neuroni nel ganglio encefalico. Sanno distinguere e categorizzare, ad esempio, dipinti di Monet e di Picasso, o cogliere il concetto astratto di eguale e diverso, o quello di “di più” e “di meno”. Non dovremmo stupirci però. Proprio perché hanno pochi neuroni hanno bisogno di formare concetti, categorie. Se hai molti neuroni puoi permetterti il lusso di tenere in memoria un gran numero di casi individuali, ma se ne hai pochi devi raggruppare gli stimoli, farne una categoria unica ai fini di una certa risposta: i cani, gli alberi, i quadri di Monet…

LF: Quali sono le implicazioni etiche delle sue scoperte?

GV: Non ne vedo. Nel senso che non dovremmo usare le manifestazioni dell’intelligenza come criterio per trattare in maniera decente gli altri animali. Infatti noi trattiamo con cura e attenzione anche le persone che soffrono di gravi deficit mentali. Il punto è se sentano, se provino qualcosa (per esempio dolore), non se siano intelligenti.

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