Noi umani siamo fatti così. Ci guida la voglia di esplorare territori sconosciuti e siamo spinti dall’adrenalina che accompagna ogni nuova scoperta. Fin da piccoli, apriamo gli occhi su un mondo così ricco di stimoli che non ci basta osservarlo: vogliamo toccarlo, sentirlo, trasformarlo. Crescendo, impariamo a riconoscere le sfumature delle esperienze: l’aspro e il dolce, la ruvidità e la gentilezza, il boato e la melodia.
Nella storia dell’umanità restano tracce visibili di questa spinta. È anche grazie a tutto questo che l’umanità è arrivata fino a qui.
Eppure, in questo 2025, non tutto è andato come speravamo. Perché spesso la scienza — che nasce per comprendere, curare, migliorare — è stata piegata da interessi politici, economici e militari. La guerra, in particolare, ha sempre influenzato — e spesso accelerato — la ricerca scientifica e tecnologica. Ma a quale prezzo?
Lo scienziato guerriero
Dall’antichità al Novecento, la figura dello scienziato in guerra oscilla tra genio al servizio della sopravvivenza e ingegnere dell’apocalisse. A volte consapevole, a volte manipolato, a volte complice. Ma sempre parte di un ingranaggio più grande di lui. C’è sempre stato qualcuno, in disparte, chino su un’idea, una formula, un congegno, che per la guerra ha pensato, inventato, calcolato. E spesso, non senza tormento.
Pensiamo alle catapulte di Archimede, ai calcoli di navigazione militare di Newton, alle macchine da guerra di Leonardo e al gas letale sviluppato da Fritz Haber. Ma pensiamo anche ad Alan Turing che gettò le basi dell’informatica moderna decifrando i codici di Enigma salvo essere poi perseguitato per la sua omosessualità, una volta che non era più “utile” allo Stato. E infine Robert J. Oppenheimer, il Prometeo americano, “padre della bomba atomica”, che si schierò apertamente contro l’uso dell’arma che aveva contribuito a creare e per questo fu ostacolato dal governo statunitense. La sua colpa? Aver avuto coscienza.
La guerra come acceleratore della ricerca
La guerra agisce come un moltiplicatore istantaneo di risorse per la ricerca. Quando uno Stato percepisce una minaccia esistenziale, è disposto a investire somme colossali nella scienza, purché prometta vantaggi strategici.
Il caso più emblematico è il «Progetto Manhattan»: oltre 2 miliardi di dollari dell’epoca (circa 30 miliardi odierni) per costruire, in soli tre anni, la prima bomba atomica. Più di 130.000 persone, in laboratori segreti come Los Alamos, Oak Ridge e Hanford, sotto stretta supervisione militare. Un’impresa scientifica senza precedenti, motivata dalla necessità di dominare e dalla paura di essere dominati.
Lo schema si è ripetuto: nella corsa allo spazio durante la Guerra Fredda, con la nascita della NASA in risposta allo shock dello Sputnik sovietico (il cui budget arrivò a sfiorare il 4% del PIL USA negli anni ’60), nei finanziamenti di DARPA, l’agenzia americana che investe miliardi in tecnologie avanzate come IA e interfacce neurali, fino al caso di Israele, uno dei Paesi con la più alta percentuale di spesa in ricerca militare, da cui derivano droni, sistemi biometrici e cybersecurity.
La lezione è chiara: la guerra non solo accelera la scienza, ma la orienta, la organizza, la giustifica agli occhi dell’opinione pubblica.
Un po’ come il ponte sullo Stretto di Messina, che oggi viene giustificato come “spesa militare per la difesa e la sicurezza”.
«Dual use»: le scoperte belliche al servizio della popolazione
Molte tecnologie nate per fini bellici hanno cambiato radicalmente la società civile. Si parla di «dual use» quando una scoperta può essere usata sia in ambito militare che civile.
Il primo esempio è quello del GPS, che ci aiuta a orientarci e a trovare qualsiasi strada, ma che ebbe origine come sistema militare USA per il posizionamento e il targeting dei missili. Oggi lo usiamo sui nostri smartphone, nell’aviazione, nell’agricoltura di precisione e nel soccorso. Una curiosità: il segnale “civile” è stato deliberatamente reso meno preciso fino al 2000, quando fu liberalizzato.
Anche Internet, sviluppato nel 1969 come ARPANET, rete del Dipartimento della Difesa USA per garantire comunicazioni resilienti in caso di attacco nucleare. Solo negli anni ’80-’90 passa al mondo accademico e commerciale. Pensiamoci bene: oggi come faremmo senza?
Avete presente, poi, i pannelli solari sui tetti di molte case? Derivano dalle ricerche di Wernher von Braun sulle V2 tedesche, progettate per bombardare Londra, e che furono il trampolino per il programma spaziale della NASA che portò l’uomo sulla Luna nel 1969.
E per quanto riguarda ChatGPT, o l’automazione industriale, o le traduzioni istantanee? In parte sono frutto di investimenti in Intelligenza Artificiale, storicamente legati a sorveglianza, riconoscimento facciale, targeting.
Le implicazioni etiche e morali
La guerra investe nella scienza perché ne ha bisogno. Ma la scienza, una volta finanziata, continua a produrre effetti, spesso inaspettati, su tutta la società. Il problema non è solo cosa si scopre, ma perché, da chi e con quali intenzioni.
Se pensiamo alle biotecnologie, ci vengono in mente gli studi sui virus e i batteri per lo sviluppo di vaccini e antibiotici, ma anche quelli sul DNA per modificare quella piccola mutazione che crea danni alla salute di bambini malati per curarli. Ma quando si affaccia qualcuno che vuole usare queste scoperte contro qualcun altro, ecco che questi salti in avanti diventano cadute rovinose all’indietro: c’è stato chi ha minacciato di usare agenti patogeni (come l’antrace, il vaiolo, la peste bubbonica) in guerra, invece di orientarsi verso un vaccino preventivo; e c’è chi usa metodiche mediche per la cura di malattie neurodegenerative, od ormonali, come “neuroarmi” per torturare i prigionieri. E quanto è labile il confine tra “editing genetico” per la cura di malattie rare ed “eugenetica”, quando in ambienti militari si discute di modificare il DNA dei soldati per renderli più resistenti allo stress?
Da bioinformatica e ricercatrice posso dirvi che ogni scoperta, ogni ricerca, ogni singola conquista, nasce con l’intento di fare del bene: curare malattie rare, trovare un metodo di diagnosi preciso per i pazienti, capire da dove veniamo per prevedere dove stiamo andando. È poi quel passo politico, economico, militare, che non ci compete e che viene fatto fuori dai laboratori, che può fare la differenza tra la conquista scientifica per i cittadini e arma contro i cittadini.
Stati Uniti, Iran, Israele, Palestina e… Italia
Il legame tra scienza e guerra non è solo nel passato: è il presente. Le tensioni geopolitiche tra Iran, Israele e Stati Uniti ruotano attorno a progetti nucleari, cyberguerra, e tecnologie di sorveglianza di massa. Ogni nuovo conflitto alimenta la corsa all’innovazione bellica, mentre i confini tra difesa e attacco si fanno sempre più labili. Viviamo in un contesto incerto, con conflitti evitabili che ci tengono con il fiato sospeso. Se avete 3-4 minuti, vi consiglio di ascoltare la canzone “F*cked Up” di Macklemore, un rapper statunitense che descrive la vita da cittadino americano durante quest’amministrazione Trump, senza mandarle troppo a dire.
Anche l’Italia, tradizionalmente orientata a una spesa militare moderata, ha recentemente deciso di alzare il budget della difesa al 5% del PIL: un dato storico che apre interrogativi su dove andranno questi fondi, e quali settori della scienza ne verranno influenzati. Saranno investiti in difesa passiva, innovazione civile, tecnologia verde? O serviranno a rafforzare una spirale bellica già in atto?
L’oligarchia che orienta l’innovazione
Considerato il contesto incerto di oggi, è lecito chiedersi se non ci sia troppo potere nelle mani di pochi che orientano alcune branche dell’ampio, meraviglioso ed eterogeneo mondo scientifico verso un utilizzo dannoso di certe tecnologie e scoperte, che potrebbero invece essere usate in modo più utile e benevolo da tutti. Fortunatamente, i laboratori che un tempo producevano armi oggi sviluppano algoritmi, vaccini, modelli climatici. È un cambiamento di rotta per cui serve un’etica della ricerca al servizio della popolazione, che metta al centro la cooperazione, la trasparenza e la solidarietà globale. Incentivare la “scienza per la pace” significa investire in tecnologie verdi, sanità pubblica, resilienza climatica, educazione condivisa. Significa far sì che le menti più brillanti del mondo lavorino non per vincere guerre, ma per evitarle.
a chi ha interessi economici,
che se ne sta ben distante dalle guerre.”
Gino Strada
- «Science for war’s sake»: la scienza per la guerra, al di fuori dei laboratori
- Lo scienziato guerriero
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