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“Vita da vecchi”: il viaggio di Antonio Censi alla riscoperta di una vecchiaia più umana

Articolo. Il sociologo bergamasco ed ex direttore di una Residenza Sanitaria Assistenziale analizza nel suo libro le RSA moderne e il modo in cui spersonalizzano l’anziano non autosufficiente. Proponendo un paradigma del tutto nuovo, dove al centro ci sia la vita e il bagaglio personale di ognuno

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(foto Strannik_fox)

Almeno tutti, una volta nella vita, ci siamo dovuti confrontare con la vecchiaia. Una fase della vita che porta con sé gioie e dolori: da un lato ci si può godere il riposo e la famiglia; dall’altro le difficoltà di quando sopraggiungono malattie e condizioni invalidanti. Proprio per gestire questo secondo aspetto – dal quale se si è fortunati si deve obbligatoriamente passare – sono nate le RSA (Residenze Sanitarie Assistenziali). Comparse in Italia a metà anni Novanta, e arrivate purtroppo alla ribalta dei media con la pandemia, sono strutture non ospedaliere a impronta sanitaria, che ospitano a tempo indeterminato persone non autosufficienti, impossibilitate all’assistenza domiciliare e che necessitano di un’assistenza continuativa.

Antonio Censi, laureato in Sociologia ed ex direttore di una grande residenza per anziani, ha convogliato tutte le sue conoscenze ed esperienze in «Vita da vecchi. L’umanità negata delle persone non autosufficienti». Libro in cui racconta, in modo chiaro e deciso, cosa significhi oggi, in Italia, essere non autosufficienti: «significa entrare a far parte di un gruppo sociale inteso solo come fruitore di prestazioni sanitarie e assistenziali». Un viaggio all’interno del complesso mondo delle RSA e della loro impostazione bioeconomicistica.

Il disastro del Covid-19 nelle RSA

È evidente che durante la pandemia ci sia stato qualche problema di gestione nelle RSA italiane. Il libro di Censi si apre proprio con una riflessione sul tema, presentando uno studio fatto dall’Istituto Superiore di Sanità su 1634 residenze. In Lombardia, il tasso di mortalità nei mesi di febbraio e marzo 2020 è stato del 19.2%. Un numero incredibile che, se esteso a livello nazionale, avrebbe creato circa 25.000 decessi in meno di due mesi. Ma non solo: le RSA durante lo studio hanno anche segnalato gravi disagi nel gestire la pandemia dal punto di vista pratico. In particolare, i problemi son stati relativi all’isolamento di anziani positivi, al reperimento di dispositivi di protezione e all’assenza di personale a causa della pandemia.

Antonio Censi parte da questi dati per condurre una riflessione profonda sul tema della gestione delle RSA. Innanzitutto, il primo argomento che va a toccare è la disponibilità di posti letto, che nel corso degli ultimi dieci anni in Italia è rimasto immutato. È questo il primo esempio che Censi porta della scarsa considerazione politica delle tematiche legate alla vecchiaia: in un Paese che invecchia sempre di più, com’è possibile che non venga aumentata la disponibilità di queste strutture?

La vita che si allunga… e non migliora

Antonio Censi descrive con tre aggettivi l’incremento della longevità umana. È inedito, poiché si tratta della prima volta nella storia dell’umanità. È incisivo, poiché si ripercuote in ogni ambito della società. È infine irreversibile, dal momento che le nostre società saranno sempre più composte da persone anziane. Inedito, incisivo e irreversibile: l’aumento degli anni in cui una persona vive sta creando grossi problemi. Non solo a livello assistenziale, ovviamente, ma anche economico, psicologico e sociale. A livello culturale, viviamo in società indirizzate al profitto: valiamo in quanto produciamo valore. È innegabile questo aspetto della nostra cultura e si vede in ogni aspetto della vita.

Secondo questo punto di vista, quindi, diventa inevitabile che le persone non autosufficienti vengano considerate, a livello strettamente economico, “sovrappopolazione”. Entrano infatti a far parte di tutte quelle persone che non contribuiscono al funzionamento dell’economia, pur avendo dei costi pro capite non indifferenti. Continuando in questo ragionamento, quindi, Censi sottolinea come l’anziano non autosufficiente venga in qualche modo spersonalizzato, poiché spesso considerato un peso della società, un mero costo da sostenere.

Le RSA: luoghi di produzione di non-persone

La scarsa considerazione umana che si ha dell’anziano non autosufficiente, secondo Antonio Censi, è ben visibile anche nelle politiche di finanziamento dei servizi sanitari e sociali deliberate dai governi. Queste si muovono con una lentezza epocale, che non rispecchia affatto l’evidente aumento di persone bisognose. Secondo Censi, il modo in cui la società risponde alle effettive necessità della popolazione di anziani non sufficienti rispecchia egregiamente la loro considerazione. Questo vasto gruppo di persone, infatti, viene svalutato nella sua condizione sociale, economica e politica di cittadino senziente e detentore di diritti. Censi porta diversi esempi di questa svalutazione, causata beninteso non per forza e non solamente da lavoratori e addetti svogliati, ma da un sistema bioeconomicistico che sta alla base della nascita delle RSA.

L’anziano viene infatti visto come fruitore di servizi sanitari, soggetto spesso inserito all’interno di fredde e computerizzate schede di controllo che ne fanno un numero valutato da parametri precisi e schematici. Ma non solo: secondo Antonio Censi, sono anche altre le pratiche di conversione identitaria che caratterizzano le RSA. Tra queste, riveste un ruolo importante la riduzione dello spazio personale, che frequentemente viene ridotta al letto e al comodino. L’anziano si trova spesso a vivere in un ambiente in cui i suoi oggetti sono relegati a uno spazio di pochi metri quadrati, spesso ostile e del tutto alieno alla propria normalità.

La perdita di sé

La considerazione dell’anziano non autosufficiente come fruitore di prestazioni sanitarie ricade pesantemente sul modo in cui la persona considera sé stessa. Sentendosi un peso, infatti, molti anziani vivono in modo negativo l’esperienza all’interno dell’RSA. Ciò che Censi descrive è una metamorfosi identitaria che avviene su due livelli: personale e sociale. Da un lato, l’anziano tende a perdere la consapevolezza di ciò che, come individuo, lo distingue da tutti gli altri. Dall’altro, la mancata identificazione del sé può causare l’incapacità di riscontrare similarità con gli altri, portando un’inevitabile solitudine della persona.

Il più grande problema della mancata autosufficienza, secondo Antonio Censi, non sta quindi nel dover ricorrere all’aiuto di terzi. Il nucleo della questione sta infatti nel perdere il governo di sé e della propria capacità di instaurare relazioni interpersonali simmetriche. L’anziano diventa spesso un paziente e, di conseguenza, diventa parte di relazioni asimmetriche che possono causare la sua stessa svalutazione.

Quindi, cosa fare?

È evidente che Antonio Censi non condivida il modo in cui le RSA moderne identifichino l’anziano non autosufficiente. Il suo libro è infatti un viaggio approfondito e anche doloroso di ciò che ognuno di noi potrebbe sperimentare, in un futuro vicino o lontano. Alla fine del viaggio però Censi presenta la sua proposta di rivoluzione della vita dell’anziano non autosufficiente all’interno di una struttura.

Senza anticipare troppo, ciò che possiamo dire è che Antonio Censi propone qualcosa di incredibilmente simile a uno dei migliori ricordi che ognuno di noi ha dei propri nonni. Oltre alle grandi mangiate e ai rifornimenti di coccole e di caramelle, i più fortunati che hanno potuto vivere i nonni si ricorderanno di loro anche un’altra cosa: la loro capacità di raccontare le storie. Se fossero del tutto reali o un po’ edulcorate per stupirci non lo sapremo mai, ma una cosa è certa: la loro storia di vita, e tutto ciò che la loro mente ha prodotto nel corso degli anni, è il loro bagaglio più importante. E secondo Censi, è in qualche modo da lì che si dovrebbe ripartire per ripensare la vecchiaia.

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