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#coseserie: «Anatomia di uno scandalo», il consenso e la violenza

Articolo. Ci sono tanti modi di vedere la miniserie britannica su Netflix: come un giallo (ma da quel punto di vista è piuttosto deludente), come una storia pruriginosa dell’alta società da spiare dal buco della serratura (se piace) o come una riflessione sul confine tra ciò che è consensuale e ciò che non lo è

Lettura 4 min.
Rupert Friend e Sienna Miller

Sono una grande appassionata di gialli e legal drama, ma delle trame non mi è mai importato nulla. Forse è per questo che «Anatomia di uno scandalo» mi è piaciuto, nonostante i buchi e le inverosimiglianze del racconto.

La miniserie britannica – la più vista su Netflix, dove ha spodestato anche «Bridgerton» - ha tutte le virtù del cinema inglese (attori che sanno recitare, una bella fotografia, Londra e ville in campagna) e pone al centro una domanda prima ancora di una risposta: come definire il consenso?

Fulcro della vicenda – lo dico senza anticipare le conclusioni e senza entrare nei dettagli – è un ipotetico caso di stupro. Interpretato da Rupert Friend (che attore!), il ministro tory James Whitehouse – bello, ricco, privilegiato, felicemente sposato con la bellissima Sienna Miller – è accusato di stupro da una giovane assistente parlamentare, Olivia Lytton (Naomi Scott), con la quale ha tradito la moglie. La relazione sessuale, durata diversi mesi, era consensuale, ma in un caso specifico la donna sostiene di essere stata costretta a subire un rapporto senza volerlo.

La questione del consenso

Le due domande su cui verte la vicenda giudiziaria sono: la donna aveva dato il consenso? James Whitehouse poteva sapere che il consenso non era stato dato?

Rupert Friend (ho già detto che è un grande attore?) rende meravigliosamente bene l’ambiguità del personaggio. A prescindere dall’evoluzione della storia, ciascuno di noi spettatori può considerarlo o non considerarlo come uno “stupratore” , e magari cambiare idea nel corso della serie. È abbastanza chiaro che James Whitehouse – non solo per convenienza personale, ma per l’immagine che ha di sé – non si percepisca mai come tale, ma al massimo come un “donnaiolo”. Eppure ci sono forti probabilità che abbia commesso violenza.

Il #MeToo

Nel corso delle sei puntate della serie ci sono frequenti riferimenti al #MeToo, movimento femminista contro le molestie sessuali e la violenza sulle donne diffuso in modo virale a partire dall’ottobre 2017 come hashtag usato sui social media per dimostrare la diffusione di violenza sessuale e molestia soprattutto sul posto di lavoro subita dalle donne. Un movimento che ha contribuito a porre l’attenzione su un problema e a ridefinire i temi del consenso, ma che è anche stato accusato di eccessivo puritanesimo e di una “caccia all’uomo” talvolta priva di prove.

Le prove sono al centro, invece, di ogni dramma ambientato in un tribunale, dove le singole parole e i singoli dettagli vengono soppesati. Dire «Non qui», equivale a dire «No»? Uno slip strappato è prova di violenza o solo di un rapporto focoso? Un rapporto fra un uomo di potere e una subordinata è sempre un rapporto impari?

Quello che abbiamo imparato

Ormai è assodato che uno stupratore non è per forza un bruto sconosciuto spuntato dal buio in una strada desolata. Si tratta di un’evoluzione (culturale e non solo giuridica) molto recente, visto che – come ricorda nel corso della serie Kate Woocroft, la legale dell’accusa interpretata da Michelle Dockery (la Lady Mary di «Downton Abbey») – nel Regno Unito fino al 1991 non era possibile che il marito fosse accusato di violenza sessuale nei confronti della moglie. E che dire dell’italianissimo matrimonio riparatore, che fino al 1981 consentiva al carnefice di estinguere il reato di violenza sessuale sposando la vittima?

Ora questa concezione è superata: tutti sanno che lo stupratore può essere (e spesso è) una persona con la quale la vittima aveva o aveva avuto una relazione. È anche universalmente accettato dalla maggioranza delle persone che la morale sessuale e i crimini sessuali siano cose diverse. Tradire la moglie o fare sesso in ufficio può essere considerato “sbagliato” sotto diversi punti di vista, ma è cosa completamente diverso dall’esercitare violenza.

Abbiamo anche imparato che ci sono diversi crimini (con diversi livelli di gravità) ma che tutti meritano di ricevere giustizia. Una pacca sul sedere è indubbiamente meno grave di uno stupro etnico, ma non per questo le molestie non debbono essere perseguite.

Violenza o cattivo sesso?

Ma quindi, come definire uno stupro oltre ogni ragionevole dubbio? La risposta più politicamente corretta che potrei dare è che se in un rapporto sessuale non c’è – dall’inizio alla fine – il totale, entusiastico e dichiarato consenso da entrambe le parti allora è legittimo parlare di violenza. Io però non sono convinta. E non perché non sia più che lecito, in qualunque momento, cambiare idea e ritirarsi dai giochi, ma perché – nella vita reale – il sesso è qualcosa di non così facilmente etichettabile.

Credo sia il caso di ammettere che a molti di noi (e a molte, nella fattispecie) sia capitato, prima o poi, di fare sesso e pentirsene. Magari subito dopo, magari durante, senza avere la forza, la voglia, il coraggio di dire di no e andarsene. Mi rendo conto che dirlo sia triste e impopolare, ma non sempre il sesso è una cosa bellissima: può capitare che il partner sia una grossa delusione, che qualcosa partito sotto i migliori auspici si riveli deprimente, sgradevole, persino umiliante o pericoloso. Si tratta di stupro? Lo è se diciamo «no» oppure «basta» (o se le nostre condizioni psicofisiche ci rendono impossibile dare il consenso) e la nostra richiesta non viene accolta. In caso contrario immagino sia solo sesso riuscito male.

Parlarne

Il cattivo sesso sarebbe da evitare, può lasciare strascichi psicologici anche pesanti, ma non è un crimine. Parlarne, però, credo sia comunque utile. James Whitehouse resta completamente basito quando si vede accusato di stupro, ma non mette mai in gioco la sua posizione. Per lui le accuse, oltre a mettere a rischio famiglia e carriera, sono semplicemente senza senso.

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«Anatomia di uno scandalo» diventa interessante se è l’occasione per riflettere su noi stessi: siamo sempre stati pienamente consenzienti quando abbiamo fatto sesso? Abbiamo la ragionevole certezza di potere dire lo stesso del nostro partner? Rispondere aiuta a darci tutti standard migliori. A fare più attenzione all’altra persona e a preoccuparci del suo benessere. A sdoganare una volta per tutte che si può cambiare idea e decidere di smettere di fare sesso in qualsiasi momento, che è lecito farlo senza sentirsi in colpa né vergognarsi, e che l’altra persona è semplicemente tenuta ad accettarlo.

Mettersi in gioco, ammettere la possibilità di avere sbagliato (anche senza esserci macchiati o essere stati vittime di crimini, sia chiaro) aiuta a chiederci che tipo di persona vogliamo essere e diventare, sempre con la consapevolezza che la nostra percezione racconta solo una parte della storia.

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