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#coseserie: «Bang bang baby», se non puoi sconfiggere uno stereotipo alleati con lui

Articolo. Su Prime Video una serie made in Italy che si immerge nelle atmosfere anni ’80 per rispondere alla domanda: fin dove saresti disposto a spingerti per amore? Raccontando la criminalità organizzata calabrese con toni grotteschi, caricaturali e al tempo stesso affascinanti

Lettura 5 min.

Quando ho iniziato a guardare «Bang bang baby» – serie tv creata ideata da Andrea Di Stefano («Escobar», «The Informer») e diretta da Michele Alhaique («Romulus»), Margherita Ferri e Giuseppe Bonito – ero molto prevenuta, lo ammetto. Dopo la visione del trailer, la prima impressione è stata quella di un maldestro tentativo di replicare in modo grottesco lo stile di serie tv americane che hanno fatto successo tra i millennials in stile «Stranger Things», per citarne una.

La cosa è andata addirittura peggiorando quando ho capito che molti dei personaggi della serie erano meridionali emigrati al Nord. Mi sono detta: Oh no, ecco l’ennesima serie che ripropone i soliti cliché all’Italiana. Ebbene, non sono mai stata così felice di smentirmi. E soprattutto mi sono resa conto che dietro al mio aprioristico rifiuto nei confronti di quella rappresentazione si nascondeva la paura di riconoscermi in un background culturale che cerco da anni di scrollarmi di dosso: la calabresità .

Mi sono totalmente immersa in uno dei prodotti seriali più riusciti degli ultimi anni cadendo nella trappola del binge watching dopo molto tempo che non mi accadeva. Quindi, mentre aspetto con trepidante impazienza la data in cui saranno disponibili anche gli ultimi 5 episodi della prima stagione (il 18 maggio), ho deciso di spiegarvi perché dovreste vederla.

I ricordi non se ne vanno mai veramente

A primo impatto la serie potrebbe a tutti gli effetti essere collocata nel genere teen-drama. La storia viene narrata dal punto di vista di Alice (Arianna Becheroni), un’adolescente timida e impacciata che abita con sua madre, Gabriella (Lucia Mascino) a Bussolengo, una tranquilla cittadina in provincia di Verona che si trova ad un paio d’ore da Milano.

Siamo nel 1986, Gabriella è una femminista convinta e crede bonariamente che l’emancipazione delle donne passi dal mettersi al volante di una macchina e soprattutto spera che sua figlia un giorno possa proseguire la strada per il successo che presto o tardi la condurrà a seguire le orme della madre. La sua idea di progresso, infatti, non ha niente a che fare con le navicelle spaziali, ma coincide, malgrado per Alice, col posto fisso in fabbrica. Il passato di entrambe è segnato dalla morte di Santo (Adriano Giannini), il padre di Alice un uomo appartenente alla malavita, brutalmente ucciso davanti ai suoi occhi, quando era solo una bambina.

Un giorno però Alice, durante l’ennesima pessima giornata a scuola, mette gli occhi su una pagina di giornale, nella quale spicca la foto di un calabrese coperto solo da un lenzuolo, che era stato arrestato mentre cercava di inseguire maldestramente la sua amante: si trattava proprio di suo padre. Prevedibilmente, la trama segue i canoni del genere. Alice è l’adolescente ribelle che piuttosto che chiedere spiegazioni alla madre, si lancia in una disperata ricerca di informazioni che la condurrà a Milano, la grande metropoli in cui da molti anni si è insediata la “famiglia” di Santo, il clan dei Barone.

Quello che la ragazza si troverà di fronte sarà però un ambiente ben lontano dal progresso, con la riproposizione di un rione calabrese trapiantato al Nord, con tanto di animali che scorrazzano per la strada e bambini con un marcato accento del sud che suonano la fisarmonica e che accolgono la cuginetta con un proverbiale «E tu i cu si figghia? (di chi sei figlia?)».

Da questo frastuono di voci e rumori emerge il capo-famiglia Nonna Lina (Dora Romano), uno dei personaggi più enigmatici della serie. La donna dall’aspetto burbero e dallo sguardo impenetrabile che niente ha a che fare con le nonne amorevoli del Sud è soprannominata anche «Nonna Eroina» per via dei loschi affari di famiglia che gestisce. Il suo obiettivo è di mettere le mani anche sugli appalti per l’aeroporto di Malpensa al fine di realizzare un altro intento nondimeno ambizioso: diventare la “Mammasantissima”, prima donna a capo di un clan mafioso.

Alice dal canto suo, è una ragazzina affamata di verità e si lascia ingenuamente travolgere dal clima di festa che la accogli e. Mai sarebbe voluta tornare da quel mostro di sua madre che le aveva mentito per tutta la vita, privandola di quella famiglia che finalmente le avrebbe permesso di capire chi fosse veramente.

La morte non fa ridere (fino a prova contraria)

L’ambiente familiare spartano in cui Alice si catapulta, contrasta volutamente con lo spirito globalizzato di una cultura anni ‘80 della quale trasudano i riferimenti: dalla pubblicità delle Big Bubble, al videogioco Pac-man, alla serie «Happy days», alla pioggia di Smarties che Alice ingurgita nei momenti di stressfino a star male. Sono proprio queste atmosfere, i colori, le luci dei neon a rappresentare un elemento di congiunzione tra la messa in scena tipicamente italiana del conflitto tra Nord e Sud e le serie di respiro internazionale, ma non solo.

I generi iniziano a mischiarsi, quando Alice riesce finalmente a incontrare suo padre. Si deteriorano i contorni e bruciano le pagine del suo romanzo di formazione, perché diversamente dalle aspettative della ragazza, quella che si instaura con Santo è una relazione tossica, nella quale l’uomo sfrutta l’affetto puerile che la figlia nutre nei suoi confronti per scagionarsi, promettendole un futuro insieme.

Santo Maria incarna il prototipo del maschio focoso, donnaiolo, passionale ma è anche un manipolatore, un personaggio spietato ed egoista. E la giovane si illude di poterlo rimettere sulla vecchia via, di fargli cambiare vita, ma finisce col lasciarsi sedurre dal suo fascino, entrando in un loop di malefatte, crimini e bugie nel quale conta poco ciò che è giusto e ciò che è sbagliato. Perché di fronte alla rude ingenuità di certi personaggi, perfino trovandosi di fronte alla morte, non si può fare a meno di ridere.

L’episodio più riuscito di questa prima parte di stagione è infatti un flashback nel quale i ricordi d’infanzia che progressivamente riaffiorano nella mente di Alice riportano a galla episodi legati alla famiglia Barone che la sua mente aveva rimosso per proteggersi. Scene violente, incontri con soggetti poco raccomandabili, traffico di armi, vengono proiettati sullo schermo di un vecchio televisore, come se si presentasse una grottesca sitcom nella quale Alice battezza il suo ingresso nel cast, nascondendo un cadavere e ripulendo le prove che avrebbero accertato la colpevolezza del padre.

Paese che vai, usanza che trovi…

In realtà tutto ciò che sembra funzionare della serie, poco ha a che fare con la storyline del personaggio principale. Alice è un’adolescente accecata da una promessa d’amore che, più che rappresentare un elemento di novità, è un buon espediente narrativo che serve per suscitare l’interesse della consistente fetta di pubblico che segue le serie televisive in streaming.

Ciò che convince, piuttosto, è che questa contaminazione di generi e stili, tra la commedia nera e il surrealismo degli immaginari che si fondono mescolando finzione e realtà, porta progressivamente ad emergere, sotto alla luce dei neon, personaggi che da Catanzaro Lido a Milano, sono grotteschi, caricaturali e al tempo stesso affascinanti. Nella misura in cui non ci chiedono di ridere di loro ma di ridere con loro. Da Nereu (Antonio Gerardi), il capo scout che coinvolge (a loro insaputa) i bambini nel traffico della droga, venera George Michael e sarebbe disposto a tutto pur di vendicare la morte di suo fratello. Fino alla cugina veggente (Claudia Arena) che parte in trasferta dalla Calabria, dirigendosi in una città nella quale non si vedono manco le stelle e che tra scongiuri e imprecazioni, è l’unica che riesce a venire a capo delle misteriose scomparse meglio di «Chi l’ha visto» – il suo sogno, del resto, è condurre una trasmissione insieme al cartomante più famoso del momento: Mago Carmelo.

Per questo anche quando questi personaggi sono brutali e commettono i crimini più efferati, non cadiamo nella trappola di provare a umanizzarli, mettendoci dalla loro parte. Essi rappresentano l’intricata rete ‘ndranghetista nella quale la piccola Alice rimane intrappolata, perché – per rispondere al claim che dà avvio alle vicende – ciò che si fa per amore va sempre al di là del bene e del male.

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