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Arturo Brachetti, “Così tu saresti quello che si cambia d’abito... ma in quanto tempo?”

Intervista. Il grande trasformista ci ha raccontato come ha cominciato. Dalla Parigi dei cabaret sul finire degli anni ’70 arriva al Creberg il 3 dicembre per i suoi quarant’anni in scena. Un tour che dura da quattro anni ed è passato in tutto il mondo

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(foto Paolo Ranzani)

Così tu saresti quello che si cambia d’abito... ma in quanto tempo?”. “Tre secondi”. “Mmh...”. “Allora a Parigi c’è qualcuno più veloce di me” pensai. Invece Jean-Marie Rivière era rimasto stupito. Non se l’aspettava e non aveva nella sua compagnia di artisti una figura di quel genere.
Quell’uomo con il cilindro bianco e il frac era il direttore artistico di Paradis Latin, lo storico teatro fondato da Napoleone Bonaparte nel 1803 a Parigi. Il sipario dopo una serie di chiusure e un alternarsi di successi e decadenza, si era riaperto da qualche anno in una nuova sede, al 28 di rue du Cardinal Lemoine. Il teatro era diventato un cabaret, uno dei più celebri del quartiere Latino e quando Arturo Brachetti ci arrivò per un’audizione trovò proprio Monsieur Rivière.

Brachetti ricorda così l’inizio della sua carriera sul finire degli anni Settanta. Nel 2019 festeggia il quarantesimo anniversario del debutto parigino al Paradis Latin e in queste settimane è in tour in Italia con “Solo. The legend of quick change”, uno spettacolo surreale, fiabesco e sognante, al quarto anno di repliche in tutta Europa. Tappa anche a Bergamo, martedì 3 dicembre alle 21 al Creberg, dopo il successo di pubblico del 2017.

Dopo quella chiacchierata Rivière mi ha preso subito” ricorda Brachetti, il mago del trasformismo che oggi nel suo magazzino ha oltre 450 costumi per altrettanti personaggi diversi: stelle del cinema, cantanti celebri, le quattro stagioni, i peccati capitali, quattro o cinque bambini differenti, donne, vecchietti, mostri, Peter Pan e perfino un travestimento da cactus.
Non ero il più bravo, l’ho capito in quel momento, ero l’unico al mondo a fare quelle cose in quegli anni. Era il 1979. Era facile essere il più bravo essendo l’unico. Ero arrivato in città poco più che ventenne con cravatta e camicia color crema, lasciandomi alle spalle la provincia torinese, spinto dal sogno del palcoscenico. Mi trovai a girare per le strade di Parigi con i capelli blu e le pailettes sul viso anche dopo gli spettacoli, vestito da ufficiale dell’operetta, a bordo di un’automobile da gangster anni Trenta. Ero uno dei new romantics”. Musica new wave, trucchi vistosi. David Bowie. Roxy Music. Duran Duran e il suono dei sintetizzatori del pop degli anni Ottanta in riva alla Senna. Brachetti si trasformava dentro quelle atmosfere.

Al Paradis Latin ci sono rimasto due anni e mezzo, ma Parigi sarebbe diventata la mia casa per lungo tempo. Quell’esperienza non fu solo il mio primo contratto, ma anche una scuola mostruosa di arte e palcoscenico. Con Jean-Marie Rivière ho vissuto l’ultima scintilla del musichall francese, prima che diventasse pane per turisti. Al Paradis Latin ci entravi per cena, potevi mangiare, bere e poi ogni sera cominciava la magia. Facevamo il nostro spettacolo come se fosse una festa di capodanno tutti i giorni, immersi in una frenetica follia. ‘In scena! Domani potrebbe arrivare l’apocalisse!’. Questo era ciò che Rivière voleva e questo era ciò che noi davamo al pubblico ogni sera. La joie de vivre”.

Sul palco del Paradis Latin lo spettacolo di Brachetti durava otto minuti. In platea davanti a lui si sono seduti Sylvester Stallone, Liza Minelli e Peter Sellers. “Spesso oltre al mio numero facevo anche le parti degli altri se mancavano. Sono stato assistente di Dracula, Dracula stesso, Bocciolo di rosa, Groucho Marx e pure la morte. Potevo fare qualsiasi personaggio, Riviére era tranquillo se si ammalava qualcuno: ‘Lo fa Brachetti, tanto si trasforma’”.

La passione per il trasformismo arriva al giovane Arturo come un fulmine, dalle pagine di un libro su Leopoldo Fregoli. Suo illustre predecessore, tra i più grandi di sempre, famosissimo sul finire dell’Ottocento: “Me lo aveva regalato Don Silvio Mantelli, il Mago Sales, che mi ha aperto le porte del mondo dell’illusionismo, insegnandomi i primi giochi di prestigio quando avevo tredici anni. Sfogliando le pagine di quel volume ho scoperto la vita di questo personaggio della Belle Époque, che trovava la banda musicale ad accoglierlo alla stazione in ogni città in cui arrivava per i suoi spettacoli. Nel tempo mi sono ritrovato a lavorare nei suoi stessi teatri e a battere i suoi record. Lui è un po’ come il fantasma dell’opera della mia vita. Mi guarda in silenzio dal palco numero cinque”.

Dietro la magia e l’illusionismo c’è anche un lavoro costante. Oggi gli spettacoli di Brachetti sono per sua stessa definizione “un’opera di artigianato italiano in cui supervisiono tutto: dal software che gestisce i video, alla musica e ai testi, ai girasoli, che ritaglio, ne faccio modelli e poi li affido al sarto, ma non basta portare sul palco dei personaggi per fare uno show. Ci deve essere un’emozione vera dietro e la gente lo sente. Il mio spettacolo è il mio parco giochi: torno bambino ogni volta e vivo mille vite in una sola sera. In questo viaggio mi porto dietro il pubblico, per sollevarci un po’ insieme dal quotidiano, come Peter Pan”.

Arturo Brachetti in scena vola davvero e per lui è il momento più piacevole. “Nonostante l’ombra ci voglia portare verso il basso e strisci per terra, io non voglio smettere di volare e così a volte queste due parti lottano dentro di me. Spettacoli come questo vanno molto forte nei periodi più bui, quando la realtà ci trascina verso il basso e non ci dà più risposte. Sono cosciente che il mio show sia di completa evasione, ma continuare a sognare e a far sognare per me è fondamentale, soprattutto quando nella vita i sogni rischiano di spegnersi. Questa è la mia vocazione”.

Questa parola riporta Arturo Brachetti con il pensiero a don Silvio Mantelli, il salesiano che ha scoperto il suo talento e che dal 2001 con la Fondazione Mago Sales, che porta il suo nome d’arte, sostiene le missioni nella loro contro la povertà in tutto il mondo. “Quando dopo sei anni ho lasciato il seminario, il prete mi disse che se far sorridere gli altri era la mia vocazione avrei dovuto seguirla. Nonostante oggi io sia praticamente ateo, questo lavoro lo vivo ancora così. Questa è la mia missione”.

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