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Dalla Germania nazista all’Europa dell’indifferenza, il teatro “che apre” di Beppe Casales

Intervista. “Nazieuropa” è un viaggio che comincia dal passato e si conclude alla stazione del presente – il presente dove ancora, troppo spesso, si corre il rischio di “diventare disumani”. Un monologo sul razzismo e sui diritti in scena a Calcinate il 28 gennaio alle 20.45, ingresso gratuito

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Nazieuropa (Foto di Raffaella Vismara)

Manca troppo spesso l’abbraccio, nell’Europa del 2022. Il rispetto dei valori di dignità della persona, quel rispetto su cui il continente in cui viviamo avrebbe – uso il condizionale non a caso – fondato la propria identità. L’Europa di oggi, costellata di campi profughi e cimiteri di migranti, ha qualcosa in comune con la Germania nazista? Una domanda “scomoda” a cui Beppe Casales , attore e drammaturgo padovano, ha cercato risposta già dal 2018, anno di debutto di “Nazieuropa”.

Un monologo tanto politico quanto emotivo, forse il più amato tra i molti scritti dall’artista e rappresentati in tutta Italia : “Salud”, “Appunti per la rivoluzione”, “La spremuta”, “L’albero storto – una storia di trincea”, “Superfiaba”, “Welcome” (patrocinato da Amnesty International Italia) e, tra gli ultimi, “Cara professoressa” e “Il monsone”.

“Nazieuropa”, con cui Casales ha vinto il Premio Mauro Rostagno 2021 nella categoria di migliore attore, andrà in scena il 28 gennaio alle ore 20.45 presso la Sala della Comunità di Calcinate (ingresso gratuito, obbligo di Green Pass rafforzato e mascherina ffp2). L’occasione è il Giorno della Memoria, lo scopo è quello di andare oltre. Perché si rischia anche oggi, nonostante la Shoah, di “diventare disumani”. In Europa, in Italia, a Bergamo, nelle case di chi si batte per i diritti e poi cambia canale guardando il tg.

MM: “Nazieuropa” è un’espressione inequivocabile. Da dove nasce?

BC: Mi è stato fatto notare spesso che il titolo è molto forte o provocatorio. In realtà, credo che i fatti che continuano ad accadere siano più forti di questo titolo… nel senso che il Mediterraneo è ancora considerato la rotta migratoria più pericolosa del mondo, ogni anno muoiono migliaia di persone, e fondamentalmente muoiono perché l’Europa non adotta corridoi sicuri oppure altre politiche che siano diverse dal “qui non può arrivare nessuno”. Ho trovato l’espressione “Nazieuropa” su Twitter usata da un utente di estrema destra: diceva che l’Europa era nazista perché stava programmando l’estinzione dei bianchi… mi ha fatto molta impressione. Ho preso questo termine e l’ho rovesciato.

MM: C’è anche un’esperienza personale alla base dello spettacolo?

BC: Si, un’esperienza da cui ho tratto più in particolare lo spettacolo “Welcome”. Nel 2016, sono andato insieme ad altri attivisti presso il campo profughi di Idomeni, al confine tra Grecia e Macedonia, dove erano raccolte più di 15mila persone, soprattutto siriani e afghani (quello che il ministro dell’interno greco Kouroublis definiva “la Dachau dei nostri giorni” per intenderci, ndr). “Nazieuropa” è una specie di secondo tempo. Uno spettacolo che come pretesto ha quello di una lettera a una figlia che ancora deve nascere, proprio come una specie di antidoto alla vergogna di stare zitti di fronte al massacro che si sta consumando… Il pretesto è proprio quello di scrivere una lettera per non pensare che non si è fatto proprio niente, che si è stati zitti e buoni…

MM: Nella sinossi del tuo spettacolo scrivi che “Nazieuropa” è una domanda, ovvero “Che differenza c’è tra la Germania nazista e l’Europa dei nostri giorni?” Tu che risposta ti sei dato?

BC: Ovviamente sono cose diverse, ma hanno punti in comune. Nella Germania nazista, il governo attuava leggi discriminatorie, e penso che anche l’Europa stia adottando politiche migratorie di fatto discriminatorie. E poi, nella Germania negli anni ’30, i comportamenti dei tedeschi nei confronti degli ebrei erano in realtà molto simili a quello che succede ora nei confronti dei migranti… c’è una continua demonizzazione nei confronti di queste persone, vengono usate delle specifiche parole, che si ripetono…

MM: Una tra tutte, il “non sono razzista ma” …

BC: Esatto, oppure c’è una cosa che mi ha molto colpito. Lessi un aneddoto a proposito di un tedesco che, quando vennero a prendere il suo vicino ebreo, cercò di spendersi con le SS e disse “No, ma guardate che lui lo conosco, ed è bravo…”, con l’idea che “siccome lo conosco, è bravo”. Questa è una cosa che succede spesso anche in Italia, soprattutto ora che c’è più possibilità di conoscere persone che vengono da altri paesi: “lui lo conosco, è bravo, gli altri sono delinquenti”.

MM: Ecco, l’aspetto della conoscenza mi fa riflettere, perché la paura per lo straniero, per ciò che non si conosce, è in realtà qualcosa di abbastanza naturale, di insito all’uomo fin dalle epoche più antiche… Come si trasforma in odio?

BC: Ti ringrazio per avermi portato qua, nel senso che lo spettacolo si conclude esattamente con questa riflessione. Le varianti sono tante, però è evidente che se non facciamo un lavoro su di noi e sulle relazioni che abbiamo è molto difficile che possano cambiare certe cose. Se noi stessi abbiamo un atteggiamento di paura e un sentimento di continua inadeguatezza nei confronti degli altri, anche verso le persone che ci stanno più vicine, è molto difficile che riusciamo ad aprirci senza pregiudizio rispetto a tutto quello che succede nel mondo. La riflessione che mi pongo riguarda tutta la società che abbiamo attorno, e noi stessi prima di tutto.

MM: C’è speranza?

BC: Sì. Io non voglio portare un messaggio di speranza, però per me è necessario che ci sia un’apertura, e non l’idea che non cambieranno mai le cose, andrà tutto peggio… In maniera ingenua forse continuo a credere che le persone possano fare cose meravigliose. Il mio è uno spettacolo in apertura, anche per il fatto che è dedicato a una figlia: c’è l’idea che sia noi che siamo al mondo ora, sia quelli che verranno dopo di noi, possono e devono fare di più e meglio. E poi, penso che anche il teatro in sé possa in un certo senso cambiare le cose. Quelli che fanno questo tipo di lavoro vivono tutti dei momenti di sconforto e dei momenti di entusiasmo. Io, nel mio piccolo, ho già avuto testimonianze del fatto che comunque anche se una sola persona in platea è toccata da quello che faccio, questo dà ragione e valore al mio lavoro.

MM: Oltre alle parole, nel tuo spettacolo ti servi di immagini e video. Ecco, tante volte mi chiedo: com’è possibile che davanti alle immagini della Shoah siamo ancora spinti dalle stesse dinamiche di odio e razzismo?

BC: La cosa non mi sorprende, perché in realtà ci abituiamo veramente a qualsiasi cosa. Vediamo talmente tante immagini, di qualunque tipo, che ne siamo assuefatti. Il punto vero è la capacità di andare un po’ oltre a quella immagine, un po’ più a fondo. Se non si va più a fondo è difficile che l’immagine possa scatenare una qualche empatia o riflessione, se è un’immagine che si limita a passare in quel minuto di scroll sul feed di Instagram…

MM: Lo spettacolo viene presentato in occasione del Giorno della Memoria. In Italia siamo molti legati a questi giorni: il Giorno della Memoria, il Giorno contro la Violenza sulle Donne… Come a dire che abbiamo bisogno di un giorno…

BC: Sicuramente l’intento è andare oltre il singolo giorno. Non succede spesso che un ente comunale, per una giornata così solenne, porti in scena uno spettacolo che parte sì dalla Shoah, ma si spinga a parlare di quello che succede adesso. Penso che questo sia un buon segno. Non è stato neanche facile organizzarlo nella situazione di pandemia, per cui sono contento, e spero che questo continui anche in altre iniziative, e non sia solo un’iniziativa di un giorno.

MM: Hai nominato la pandemia e mi è sorta una riflessione. Lo spettacolo è del 2018. Alla luce di quello che abbiamo vissuto in questi anni, delle forme di discriminazione che si sono aggiunte con l’arrivo del Covid-19 (penso anche solo alla diffidenza con cui guardavamo la comunità cinese a marzo 2020, o all’attuale scontro sì-vax / no-vax che tanto va sui social network) hai aggiornato qualcosa, ti sei posto ulteriori riflessioni?

BC: Sinceramente no. Il dibattito – che poi non è un dibattito, sono quasi sempre urla e insulti da una parte e dall’altra – non mi ha mai appassionato. Penso che quello che è successo in questi anni sia la naturale conseguenza del fatto che in Italia continuino ad esserci migliaia di analfabeti funzionali. Rispetto a quello che dico, la pandemia non mi ha suggerito granché di nuovo, a parte l’idea che la sanità pubblica debba continuare a essere una priorità assoluta e l’importanza di investire nella scuola perché ci siano persone che sappiano minimamente come funziona la comunità scientifica. E poi, la necessità di andare oltre Facebook, Instagram, le piattaforme informatiche. La vita è altro. È molto più complessa.

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