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Davide Enia: per raccontare è necessario imparare a guardare

Intervista. Venerdì 1 ottobre a Molte fedi l’attore con “L’orizzonte in fuga”: conversazione scenica sui modi di raccontare il tempo presente e sull’uso intenzionale di alcune parole. Appuntamento alle 20.45 (con prenotazione necessaria) all’Auditorium Modernissimo di Nembro, in piazza della Libertà

Lettura 5 min.
Davide Enia, Maggio ’43 (foto Giuseppe Distefano)

Drammaturgo, attore teatrale, scrittore e regista italiano. La carriera di Davide Enia è ricca di esperienze e riconoscimenti, ma quello che traspare di fronte all’essere umano è il desiderio incessante di raccontare il presente, mettendo da parte il bisogno di protagonismo proprio dell’artista.

Enia si afferma nella scena contemporanea del teatro italiano, in special modo in quello di narrazione, con lo spettacolo “Italia-Brasile 3 a 2” del 2002, una rievocazione della famosa partita dell’82 vista da una dimensione palermitana. In seguito presenta “Schegge” e “Maggio ‘43”, dedicato alla guerra e ai bombardamenti di Palermo. Continua la sua carriera impegnandosi con intelligenza e onestà nella messinscena di tematiche sociali, collettive e condivise. Negli ultimi anni si concentra sugli avvenimenti nel Mediterraneo, pubblicando il libro “Appunti per un naufragio” (Sellerio 2017, Premio Mondello 2018) diventato poi l’opera teatrale “L’abisso”, con la quale nel 2019 vince il Premio Ubu per il migliore nuovo testo italiano o scrittura drammaturgica, il Premio Hystrio Twister come migliore spettacolo dell’anno e il Premio Le Maschere del Teatro come migliore interprete di monologo.

Il prossimo venerdì sarà ospite di Molte Fedi sotto lo stesso cielo presso l’auditorium Modernissimo di Nembro, abbiamo parlato con lui per capire meglio cosa aspettarci da questo incontro, sì teatrale, ma non certo performativo.

CD: Non uno spettacolo, ma una “conversazione scenica”. Cosa significa?

DE: È una definizione che non amo utilizzare ma, per intenderci, è ciò che negli anni novanta venivano definite “lezioni-spettacolo”. Sostanzialmente ragiono e discuto sui metodi di scrittura e sui processi che mi hanno portato a scrivere in un determinato modo riguardo al tema della frontiera e di Lampedusa. Naturalmente arrivando io dal teatro c’è una struttura e una gestione abbastanza precisa dei tempi e delle pause, ma semplicemente perché credo sia ciò che va fatto di fronte ad un pubblico. Quando mi trovo in situazioni simili, per dimostrare la differenza tra scrittura per la pagina e scrittura per il corpo, utilizzo una parte teatrale: accendo il corpo per mostrare cos’è quel tipo di scrittura.

CD: Restando sulla sinossi del lavoro, si parla di riflessione sull’“uso internazionale di alcune parole”. Qualche esempio?

DE: Noi abbiamo avuto per almeno vent’anni un uso criminale del vocabolario italiano. Prendiamo la parola “clandestino”: la clandestinità è una condizione giuridica che può essere stabilita da un giudice dopo la fatta richiesta di permesso di soggiorno. Tecnicamente, al momento di ogni partenza da un paese, la persona può essere richiedente diritto d’asilo. Scegliendo di utilizzare il termine “clandestino” si sta volutamente fornendo una connotazione. Il fatto più interessante della dimensione profondamente violenta che abitiamo nella società contemporanea, è quello della riduzione numerica degli esseri umani, la logica delle cifre e delle statistiche. Noi non abbiamo persone che attraversano il mare, il deserto, che muoiono, no: abbiamo numeri. Questo processo di “spersonalizzazione” è proprio il segno del tempo che stiamo vivendo.

CD: Si tratta quindi di una riflessione sulle alternative?

DE: La domanda che mi faccio e alla quale cerco di dare la mia personale risposta è “in che modo è possibile raccontare il presente in tempo di crisi?”. Questo è ciò di cui parlo con il pubblico. “L’orizzonte in fuga” rappresenta l’incontro con ciò che accade ora, con la storia attuale, qualcosa di smisurato nel suo darsi, ma al contempo immediatamente percepibile nella sua vastità. Ciò richiede un’operazione che sempre meno persone sono disposte a fare, ovvero la rinegoziazione della categoria dello sguardo. È talmente nuovo ciò che sta accadendo, mai accaduto in questi numeri e in queste proporzioni, anche perché abbiamo finalmente compreso l’interconnessione del tutto, che il nostro sguardo fa continuamente scontro con il fatto di essere vecchio, del millennio passato.

CD: Partendo da questo assunto, come si procede?

DE: Per riuscire ad osservare quello che accade, scevri dal giudizio, bisogna mettersi in una condizione di sguardo nuovo e iniziare a fare quella prima operazione che in pochi hanno fatto: ascoltare. Ascoltare significa prestare attenzione alle testimonianze di queste persone, essere in grado di leggere i segni che queste persone veicolano. Un diario di questi segni è il corpo, sono proprio i corpi a dire che in Libia ci sono lager in cui le persone vengono torturate e la quasi totalità delle donne stuprate. Le visite mediche fatte a queste persone ci raccontano cosa è successo.

CD: Nei tuoi progetti tocchi tematiche profonde e sociali, intrise di dolore collettivo, come si riesce ad escludere personalismo e protagonismo dalla narrazione?

DE: Questo incontro, “L’orizzonte in fuga”, è il prodromo de “L’abisso”, tutto ciò che sta prima della scrittura di quel lavoro e di “Appunti per una naufragio” (Palermo, Sellerio, 2017, ndr). Io impiegherò il tempo per provare a rispondere proprio a questo quesito che, declinato nel teatro, significa: in che modo posso evitare di spettacolare la tragedia e di strumentalizzare i corpi delle persone? Interrogandomi su questo, partendo dalla tua domanda, si svolge quello che racconto. Non potrei darti una risposta ora, perché sarebbe infinita, ma è quello che provo a fare con il pubblico per tutta la durata dell’incontro. Bisogna innanzitutto scegliere il mezzo investigativo e narrativo da utilizzare, stringere un patto con il pubblico o il lettore, cercando di far capire chi è l’essere umano che sta raccogliendo le informazioni. Così si aprono una serie di maglie, il cui intreccio finale, probabilmente riesce a fornire una risposta.

CD: Quale valore sociale può avere il teatro di narrazione?

DE: Il teatro ha un unico grande valore: premettere il riconoscimento collettivo all’interno di una comunità alle persone che stanno partecipando all’accadimento. Una comunità che cerca di porsi delle domande per dotarsi di una prospettiva. Quello che ho compreso facendo l’artista è che lì succede qualcosa di misterioso superiore anche a noi che siamo gli interpreti. È essenzialmente questo il motivo per il quale il teatro è nato e continua ad esistere ed è qui la grande possibilità del teatro: la rinegoziazione collettiva dell’urgenza, tenendo presente che la grandezza di una civiltà dipende dalla qualità della risposta data.

CD: Come sono cambiate le tue aspettative verso questo mestiere dal debutto di “Italia-Brasile 3 a 2” nel 2002 ad oggi? Come sono cambiati i tuoi obiettivi?

DE: Nell’attuale presente ciò che mi impongo principalmente è di non fare finta che non ci sia stato un lockdown, una pandemia, cercando di dare una risposta ad un dispositivo che personalmente trovo rotto, quello del teatro. Rotto perché viene meno la questione collettiva delle persone. Il rischio attuale è prendere il pubblico e isolarlo nuovamente, moltiplicando la condizione del lockdown, senza che ci sia una decisione registica o una necessità drammaturgica consapevole per fare questo. Non discuto sulla correttezza o meno di interventi in sicurezza, ritengo però che questo abbia distrutto quel senso di comunità determinato dal contatto fisico, motivo per il quale si va in piazza a fare la rivoluzione. Ora è necessario chiedersi in che modo il teatro possa intervenire sul presente, sempre ammesso che il teatro sia ancora una necessità.

CD: Che sia per il teatro, o per una pubblicazione, da cosa parti quando scrivi?

DE: Quando chiesero al poeta Thomas Stearns Eliot perché avesse utilizzato una determinata metafora per raccontare, lui rispose con un esempio preciso: “perché tra tutte le immagini del mondo, che preesistevano a Montale e tutti noi avevamo davanti agli occhi, il solo Montale scelse i cocci aguzzi di bottiglia sopra la muraglia per il male di vivere?”. Non sappiamo perché, ma sappiamo che è quella scintilla narrativa a l’averlo reso ciò che era e ciò che continua ad essere. Così io non so perché sento un percorso narrativo dentro qualcosa, so che prima di “Italia-Brasile” non c’erano spettacoli sul calcio. Nessuno. Ma io sono figlio della curva del Palermo, è il mondo che io conosco, e in qualche modo credo che ogni autore utilizzi il suo conosciuto.

CD: Siamo la nostra storia.

DE: Tom Waits dice: “scrivere è come quando sei ubriaco e devi pisciare: per non cadere ti appoggi ad un muretto. Quel muretto è tutta la vita che hai vissuto”. Io sono siciliano, i miei lavori raccontano quello in cui sono cresciuto, Lampedusa è un’estensione della mia isola e quello che sono andato a vedere, a vivere, mi ha trafitto. Scrivere e raccontare è stato un modo per esorcizzare e in parte liberarmi di tutto il carico di sofferenza e dolore che mi ha travolto. Se fossi riuscito a chiudere questo percorso con il libro “Appunti per un naufragio”, non avrei messo in scena “L’abisso”, lavoro che comunque mi obbliga a rimettermi, replica dopo replica, in quella posizione emotiva. Sul palco non sono mai solo, oltre al compositore Giulio Barocchieri, ci sono tutti: i vivi e i morti delle storie che racconto. E forse è per questo che il pubblico si sente partecipe ed emotivamente coinvolto: nessuno è solo.

Sito Molte fedi sotto lo stesso cielo

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