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«Giorni muti, notti bianche». Anche il teatro cura

Intervista. Uno spettacolo teatrale per raccontare di quella Bergamo epicentro della pandemia, con gli occhi dell’Italia e del mondo puntati sull’Ospedale Papa Giovanni XXIII. Dopo il recente debutto, lo spettacolo andrà in replica il prossimo 28 marzo al Teatro Sociale di Città Alta e il 15 aprile al Centro Culturale Aldo Moro di Orzinuovi

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(Foto Yuri Colleoni)

«Giorni muti, notti bianche» è un racconto corale, generoso ed epico. Un’opera che, prima di tutto, vuole restituire un’esperienza entrata a far parte della storia di ciascuno. Il progetto (qua tutte le informazioni sulle prossime repliche) è nato all’interno del gruppo medici e infermieri, donne e uomini, del Pronto Soccorso del Papa Giovanni XXIII di Bergamo, per riflettere insieme sull’esperienza vissuta durante la crisi della prima ondata Covid-19 nel marzo 2020. Loro stessi si presentano rifiutando l’appellativo «eroi»: «A quelli che ci chiamano eroi, noi vogliamo dire che siamo persone normali».

Esseri umani che hanno fatto del loro meglio: questo sono la ventina di infermieri e medici che hanno vissuto il Covid-19 in prima linea, tra incredulità e disperazione, fino a intravvedere i primi raggi di speranza. Tre anni dopo quei «giorni muti e notti bianche», in un incontro di ricordi, corpi e voci, gli operatori sanitari portano in scena avvenimenti ed emozioni.

Il coordinamento del progetto è stato affidato a Marco Barchiesi, Claudio Calzana, Danilo Cavalieri, Massimiliano De Vecchi, Gabriella Erba, Francesca Maltese e Silvia Ricci. Gli interpreti in scena sono: Patrizia Argiolas, Lorella Barcella, Marco Barchiesi, Eugenia Belotti, Simone Benatti, Francesca Canevali, Danilo Cavalieri, Renata Colombi, Roberto Cosentini, Massimiliano De Vecchi, Rossana Locatelli, Laura Maffi, Francesca Maltese, Antonella Mangili, Eleonora Pisano, Silvia Ricci, Valentina Rosti, Martina Stroppiana, Elisabetta Venturelli. La regia è di Silvia Briozzo, le musiche dal vivo di Gianluigi Trovesi e Marco Remondini, il disegno luci di Simone Moretti e la drammaturgia è di Carmen Pellegrinelli.

Ed è proprio Carmen, l’autrice, a spiegare come il cuore del racconto si sia cucito addosso alle testimonianze personali dei protagonisti. Tante storie che convergono in una coralità omogenea nel vissuto. La drammaturga spiega come tra i protagonisti si sia creata una forte comunanza. Dall’insieme dei testi emerge sofferenza, dolore, senso d’impotenza, rabbia, ma anche un’empatia tradotta in piccoli gesti capaci di fare la differenza. Un sostegno reciproco basato sullo spirito di adattamento umano che porta alla leggerezza, alle battute, al cibo, per mantenersi vivi prendendosi un po’ in giro.

CD: Questo non è “solo” spettacolo, alle spalle c’è un progetto che coinvolge molte persone. Ci racconti l’esordio? Come si rende memoria l’esperienza vissuta?

CP: L’esigenza era quella di confrontarsi collettivamente con i ricordi traumatici dell’esperienza e riuscire a fare qualcosa di quelle memorie dolorose. Proprio nel solco della tradizione classica, è venuta l’idea di usare uno degli strumenti più antichi della medicina: il teatro. Il teatro nasce infatti come esperienza che genera catarsi, ovvero purificazione dalle emozioni negative. Ma il teatro ha la capacità di allargare questa catarsi alla dimensione della comunità, diventando anche testimonianza civica. Una cura non solo personale, ma collettiva. Per questo, il gruppo ha deciso di intraprendere un percorso annuale di formazione teatrale, attraverso un laboratorio, con l’idea poi di produrre uno spettacolo da mostrare alla città.

CD: Le testimonianze sono personali storie di vita di quei giorni bui. Come le hai raccolte e come hai sviluppato la drammaturgia?

CP: Ho costruito la drammaturgia cucendo insieme diversi pezzi di testo. Alcuni di questi erano testi scritti da loro (io li ho solo resi teatrali), altri erano frutto di materiale emerso da improvvisazioni create durante il laboratorio. Ne sono nati dei monologhi, ognuno con una sua storia. Un’altra parte dei pezzi racconta invece in modo più corale delle pratiche lavorative di quel periodo e del clima vissuto in reparto. A questo proposito, è stato per me una fonte fondamentale il libro “L’inferno negli occhi” di Lorella Barcella, anche lei parte del gruppo, per l’editore Epika Edizioni. È un libro molto bello, diretto, denso e corale che fa una panoramica precisa e da cui ho preso molto. Oltre alla drammaturgia di testimonianze, serviva però un’inquadratura narrativa del racconto di più lungo respiro, qualcosa che ampliasse l’esperienza rendendola un po’ universale (parola che non mi piace, ma che qui funziona).

CD: E quindi che cosa hai fatto?

CP: Ho pensato pertanto di seguire l’intuizione di Massimiliano De Vecchi e recuperare alcuni pezzi della tradizione classica che parlavano di epidemie. Ho individuato e riscritto stralci da Omero, Sofocle, Ovidio e Virgilio e li ho messi in dialogo con i vissuti degli attori. Infine, per fare lievitare gli ingredienti della narrazione, affinché il racconto non fosse solo drammatico, ho pensato di costruire una sorta di controcanto corale. Si tratta di tre cori tragicomici che raccontano di cosa molti dicevano prima che scoppiasse la pandemia, dei tormentoni durante il lockdown e di quelli successivi dei negazionisti. La drammaturgia testuale è composta dal collage organizzato di tutti questi elementi, legati poi dalla modulazione espressiva dei corpi in scena orchestrata dalla regista Silvia Briozzo.

CD: Qual è stato il tuo ruolo, accanto a Silvia Briozzo, nella fase successiva alla stesura? Come si realizza uno spettacolo quando gli interpreti non sono attori professionisti, ma persone con una storia che merita di essere raccontata?

CP: Silvia Briozzo ha fatto un grande lavoro di regia, operato su due piani. Il primo è stato il lavoro sulla qualità attorale dei partecipanti. Queste persone hanno fatto un percorso incredibile in un solo anno di laboratorio con Silvia. Si sono letteralmente trasformate, da neofiti della scena hanno piano piano acquisito la consapevolezza di stare sul palco. Ognuno ha maturato un suo modo di stare in scena, così forte e personale (anche nella dimensione del testo), che alla fine il fatto di non essere professionisti appare non come un limite, ma come una forza. Il secondo piano su cui Silvia ha lavorato, è stato sulla creazione e la composizione delle scene. Le scene sono create da una bellissima e fluida partitura di corpi che racconta l’intreccio relazionale dell’esperienza vissuta e “metacomunica” la forza della loro comunanza. Io sono rimasta in dialogo con Silvia nella parte di relazione con il testo. Alcune scene sono state tagliate e altre aggiunte, come quando si adatta un vestito al proprio modello.

CD: Oltre agli interpreti e a voi due, teatranti di lunga esperienza, hanno contribuito alla creazione anche molte altre persone.

CP: È stato un progetto davvero corale dove ciascuno ha portato le sue competenze. Claudio Calzana ha curato l’aspetto del fundraising con grande determinazione e si è occupato anche della comunicazione, promuovendo la fruttuosa collaborazione con l’agenzia di comunicazione Studio Poliedro. Il bel materiale fotografico è a cura di Andrea Franzetta. Gabriella Erba è stata motore trainante. Ha coinvolto il Centro Isadora Duncan come promotore ufficiale dell’iniziativa e ha curato tutti gli aspetti produttivi. Ha seguito il laboratorio dal primo all’ultimo appuntamento, occupandosi personalmente di diversi dettagli, dalla trascrizione dei testi alla gestione degli attori, dall’accompagnamento alla regia alla comunicazione con i partecipanti. È stata per me una sorta di “facilitatrice” della comunicazione interna, rendendo fluidi passaggi tra persone che per la prima volta lavoravano insieme. A loro aggiungo nella parte della realizzazione dello spettacolo, la meticolosa cura delle scene da parte dello scenografo Enzo Mologni, che ha lavorato con una scena essenziale, modulandola attraverso elementi semplici, ma d’effetto, e il disegno luci del bravo Simone Moretti che ha colorato le atmosfere, donando plasticità e drammaticità alle scene.

CD: Le musiche hanno un ruolo molto importante, specialmente nelle scene corali. Quale ricerca c’è stata? Quale “impostazione” avete privilegiato?

CP: L’aspetto musicale è stato curato dalla regista, insieme con i maestri, Gianluigi Trovesi e Marco Remondini, che si sono uniti a un certo punto del percorso, ma che hanno contribuito a dare carattere allo spettacolo trasformandolo ulteriormente. Le musiche hanno puntato soprattutto a sottolineare le atmosfere e a creare emozioni in dialogo costante con i testi e i movimenti. C’è molto ascolto tra attori e musicisti e ogni replica è quasi una conversazione che modula gli elementi in modo simile ma con sfumature leggermente diverse. Un po’ come se fosse jazz.

CD: Quale futuro sognate per questo progetto?

CP: Si è un po’ parlato tra noi di futuri sviluppi. Di certo delle lunghe tournée non sono possibili perché in scena abbiamo il trenta per cento dei medici del pronto soccorso del maggiore ospedale di Bergamo. Però magari qualche replica in più si riuscirà a fare, pensiamo forse a Milano. Questo dipenderà da quanto a questi bravissimi professionisti mancherà il teatro. “Diagnostico” comunque già in questa sede che il teatro li ha fortemente contagiati. I sintomi sono chiari e purtroppo in visibile aumento. Guariranno?

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