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La cultura in quarantena – Damiano Grasselli (Teatro Caverna): “abbiamo scelto di svendere il teatro”

Articolo. Primo contributo dal teatro. L’analisi della compagnia di Grumello al Piano: “Non mi soffermo nemmeno sulla ridicola proposta di una Netflix della cultura italiana, tutta evidentemente a vantaggio del mainstream che potrà produrre grandi eventi e schiacciare così definitivamente le piccole realtà”

Lettura 4 min.
“La ballata del vecchio marinaio” di e con Damiano Grasselli (Francesco Ferri)

Teatro Caverna è un’associazione, una compagnia teatrale che si occupa di teatro a livello professionale. Ha sede in uno spazio a Grumello al Piano, in periferia.
Teatro Caverna ha scelto negli anni di lavorare in una personale ricerca, etica ed estetica, tralasciando spesso la possibilità di un riconoscimento facile ed immediato, per dedicarsi ad alcuni concetti che il nostro gruppo ha sempre ritenuto fondamentali per praticare questo mestiere:

la relazione: senza incontro, senza guardarsi, sentirsi, essere insieme, il teatro non può essere. Il teatro, diceva tra i tanti Jerzy Grotowski, avviene solo nella relazione tra attore e spettatore;

l’ascolto: tutta la storia del teatro è storia della phoné. Questo è l’incipit folgorante della biografia di Carmelo Bene: e se il suono, la phoné, sono il nucleo della storia del teatro, senza l’ascolto il teatro non può esistere;

il rapporto tra etica ed estetica: l’impossibile tentativo di equilibrio è tra lo sheakespeariano “Siamo fatti della stessa sostanza dei sogni” e il materialismo di Feuerbach: “Noi siamo ciò che mangiamo”.

Molto sinteticamente parto da qui a raccontare: siamo un tentativo di rincorsa al mistero, un tentativo di equilibrio tra il reale e la finzione.

Credo sia importante che si definiscano questi parametri per poter dire che per noi è difficile parlare di impresa/industria culturale. Siamo persone: ciascuno di noi ha un contratto di lavoro con l’associazione e questo è ciò che ci permette di comprare pane e companatico. Ma crediamo che prima di tutto la nostra sia un’esigenza di arte come fondamento della vita. E, contemporaneamente, cerchiamo di tenere in ordine i conti, pagare regolarmente, essere lavoratori.

Oggi tutto ciò è per noi difficilissimo, al limite dell’impossibilità. Dal 23 febbraio non svolgiamo più alcuna attività lavorativa. Non abbiamo attività di compagnia. Ma malgrado questo avere uno spazio presenta dei costi: assicurazioni, bollette, gestione del consulente del lavoro...

Nonostante ciò stiamo cercando di garantire qualche riconoscimento ai lavoratori dell’associazione. Dalle casse della stessa perché, se da un lato alcuni di noi hanno avuto accesso ad ammortizzatori sociali molto ridotti e che non hanno tempistiche chiare di elargizione, dall’altro alcuni dei nostri lavoratori non avevano questa possibilità: abbiamo cercato di mantenere comunque viva la dignità del loro ruolo, in attesa di tempi migliori. Ma tutto questo ha un costo di cui ci stiamo facendo carico noi, con il nostro fondo cassa.

Quanto potrà durare questo? Non molto. Nel frattempo ci siamo mossi per presentare alcune richieste di finanziamento ad istituzioni private. Ma le tempistiche di risposta sono procrastinate a data da destinarsi. Così come le risposte su bandi di finanziamento presentati a fine 2019: non ci sono date certe sugli esiti. Abbiamo cercato di ricalendarizzare gli impegni lavorativi coi committenti: prima ad aprile, poi in estate, poi dopo l’estate... Ora pare che tutto lo spettacolo dal vivo avrà un anno sabbatico. Dunque impossibile progettare lavori.

A questo punto abbiamo cercato di riorganizzare anche le possibilità del nostro lavoro, dedicandoci ad altri ambiti culturali. Scrivendo, registrando audio, proponendo progettazioni radiofoniche. Ma non ci si improvvisa professionisti di un settore in poco tempo, ed in ogni caso le risorse disponibili per la cultura sono limitate. A Bergamo come in molte parti d’Italia.

Insomma, la situazione si può riassumere in quattro punti essenziali:

lo spazio teatrale è chiuso fino a una data incerta, sicuramente per molti mesi ancora;

la compagnia è senza quella che è la sua naturale fonte di lavoro: il palcoscenico; e lo sarà ancora per molti mesi: ci sono stati cancellati decine di lavori a Bergamo, a Cuneo, a Ravenna, a Modena, in Francia... ovunque;

la compagnia è in grande difficoltà, ma sta cercando forme di sussistenza, anche reinventandosi;

la situazione culturale era difficilmente sostenibile già prima (parecchi anni prima) del 23 febbraio 2020.

Fatta questa analisi didascalica della situazione penso che si debba andare un po’ più in profondità, non limitandoci ai numeri ed alle cifre. Non mi soffermo nemmeno sulla ridicola proposta di una Netflix della cultura italiana, tutta evidentemente a vantaggio del mainstream che potrà produrre grandi eventi e schiacciare così definitivamente le piccole realtà. A livello di produzione tecnica lo sforzo economico per una compagnia come la nostra sarebbe insostenibile.

Allo stato attuale delle cose dalle istituzioni, nazionali e locali, le risposte sono davvero confuse e accennate. Non ci sono dichiarazioni che lascino intendere quali siano le reali intenzioni rispetto al teatro, allo spettacolo dal vivo, oggi, in Italia. Ed è piuttosto imbarazzante che le uniche dichiarazioni avvengano sostanzialmente senza contraddittorio, nelle dirette Tv, per pochi secondi e con l’utilizzo di slogan fuorvianti. Secondo mia madre il governo mi sta ben pagando da settimane e la situazione del teatro è sotto controllo: mia madre crede più facilmente alla Tv, che guarda tutto il giorno, che non a suo figlio, che al telefono cerca di spiegarle che le cose non stanno così. Non gliene faccio una colpa, ma credo, anzi, come artista, di dovermi porre qualche domanda.

Siamo ad un punto morto dell’attività artistica se non riusciamo a porci qualche domanda sul perché non siamo in grado di creare un linguaggio coinvolgente, attivo. Ciò che proponiamo (diciamo spesso, non sempre) è un linguaggio che non fa più breccia da nessuna parte. E questo non perché siamo ottocenteschi, io credo, ma esattamente al contrario perché vogliamo essere troppo moderni. Perché inseguiamo, infelicemente, Netflix, da prima che lo sciagurato ministro lo paventasse in TV.

Il teatro è opera antica, “artigianale” diceva il compianto ed amato Beppe Chierichetti. Il teatro è antico. Non vecchio, non veterotestamentario. ANTICO. Parola pregevole, a cui abbiamo sottratto ogni dignità. L’antichità del teatro ci permette da millenni (millenni!) di confrontarci col mistero e di inseguire quel mistero. Eppure noi, e con noi intendo molti che condividono con me questo mestiere, questo mistero lo abbiamo ripudiato. Abbiamo pensato che non potesse essere al passo coi tempi: lo abbiamo volgarizzato. Abbiamo scelto di svenderlo pur di poter partecipare a qualsiasi evento (minimamente) remunerativo.

Il teatro poteva stare nella sagra del salame, purché avesse il gusto di salsiccia. Ma la salsiccia è più gustosa. Il teatro doveva ospitare grandi personaggi televisivi, che importa che non fossero all’altezza del palcoscenico, ci avrebbero garantito visibilità. Ma la Tv è più visibile. Il teatro doveva vivere in relazione non all’opera creativa, ma all’algoritmo del ministero attraverso il quale venivano decisi i finanziamenti pubblici. Ed è così che il teatro ha perso il suo fondamento: abbiamo smesso di ricercare il mistero.

Io credo, se vogliamo in qualche modo dare vita ad un’azione che tenga in vita questo teatro, ci dobbiamo muovere su alcuni punti fondamentali:

- ritrovare un linguaggio, un lessico incisivo che lasci il segno, magari su pochi spettatori, ma segnante;

- considerare l’altro: sapere che noi artisti, senza quello che sta dall’altra parte, in teatro siamo vuoti. E dunque partire da un discorso non onanistico: l’altro c’è e mi deve importare;

- non aver paura di essere minoranza: questo significa abbandonare la sfida col modello televisivo, che ci vedrà sempre perdenti a livello di audience ed economia;

- sfruttare ciò che ci permette di vincere la gara con qualsiasi altro mezzo di espressione: la genuinità del contatto umano;

- essere chiari nelle scelte: professionismo significa sì passione, ma anche retribuzione.

Se sapremo dare seguito a questo, credo che l’antico teatro avrà ancora un senso, un mistero. Ma se cederemo ai compromessi per ottenere, ancor prima che economie, una squallida visibilità, forse la sfida è già persa. E non ci sono più Lazzaro da resuscitare.

Damiano Grasselli, fondatore e direttore artistico di Teatro Caverna. Si occupa di teatro da oltre 20 anni, sia come attore che come formatore. Ha realizzato alcuni radiodocumentari per Rai Radio3, è autore di scritti su teatro e pedagogia, società e cultura, pubblicati da importanti riviste come Gli Asini e Lo straniero.

Sito Teatro Caverna

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