93FE310D-CB37-4670-9E7A-E60EDBE81DAD Created with sketchtool.
< Home

La «Fame mia» di Annagaia Marchioro, dai malanni dell’anima si può guarire

Intervista. Venerdì 29 luglio, per «Lazzaretto Estate 2022», l’attrice (fondatrice della compagnia teatrale «Le Brugole») porterà in scena il monologo «Fame mia – quasi una biografia», ispirato al romanzo «Biografia della fame» di Amélie Nothomb

Lettura 5 min.
Annagaia Marchioro

Si può aver così fame da smettere di mangiare? A sentire Annagaia Marchioro, che alle 21.30 di venerdì 29 luglio per «Lazzaretto Estate 2022» (biglietti qui), andrà in scena con il suo «Fame mia – quasi una biografia» (a cura di Teatro Ex Drogheria, regia di Serena Sinigaglia), sembrerebbe proprio di sì. Un monologo teatrale, a tratti drammatico, a tratti ironico, che – liberamente ispirato al romanzo «Biografia della fame» della scrittrice Amélie Nothomb – si impegna con passione e leggerezza, a portare in scena il vuoto esistenziale, quello causato dai malanni dell’anima. Al centro della narrazione, una bambina (e il suo sguardo sul mondo) che, pian piano, diventa donna e che alla fine, nonostante delusioni e disgrazie, intravede il proprio riscatto. Un riscatto dolce, soave, che spalanca le porte verso speranza e nuova consapevolezza, verso una profonda gioia di vivere.

FR: Annagaia Marchioro, come può il teatro affrontare, con rispetto e tatto, un argomento delicato come quello dei malanni dell’anima?

AM: Ogni artista ha il proprio metodo. La mia cifra stilistica è l’ironia e credo che sia lo stile più adatto per trattare i malanni dell’anima. Con essa, provo ad affrontare questo genere di tematiche, cercando di universalizzarle e, in un certo senso, cercando di dare loro una risposta. Del resto, è la modalità con cui narro a me medesima la mia stessa vita. In questo tempo storico, credo che l’ironia sia il modo migliore per penetrare nel vissuto di ciascuno e narrare storie. Finché non riesco a far emergere l’ironia, non sono in grado di dar vita a dei racconti.

FR: Quali sono le eventuali difficoltà?

AM: Come detto, anche se fin dall’inizio è chiaro di quale chiave stilistica ci si vuole avvalere, non è detto che se ne riesca a trovare una interessante e che, soprattutto, la si riesca ad adattare facilmente alla particolarità di ogni singolo spettacolo. Ci vuole tempo, è un lavoro estremamente faticoso, implica molta ricerca e un lungo percorso di studi. Per quanto riguarda «Fame mia», le genesi sono state diverse: questa è la versione definitiva, è perfetta e ne sono estremamente soddisfatta. Ma, come accennato, è arrivata dopo una serie di tentativi. Prima, ho provato a cambiare il testo, poi la storia della protagonista, ma alla fine, grazie alla regia di Serena Sinigaglia e grazie alla fondamentale collaborazione con Gabriele Scotti, sono riuscita ad approdare alla forma esatta.

FR: «Fame mia» sarà quindi uno spettacolo ironico?

AM: L’ironia è, senza ombra di dubbio, il motore principale di tutta la performance, ma preferirei definire «Fame mia» uno spettacolo folle, comico e poetico. Attraverso il riso (e senza retorica alcuna), il monologo, con estrema schiettezza, porta in scena il dramma dell’esistenza, toccando corde intime e profonde, cercando di far riflettere lo spettatore. È una pièce tragicomica, se così si può dire, in cui la fame è la vera chiave di lettura. Anche lo smettere di mangiare è indissolubilmente legato al “fenomeno-fame”.

FR: Non è un paradosso?

AM: «Fame mia» parla di un percorso di crescita interiore ed esteriore. È il racconto di una bambina che si fa donna, di una femmina entusiasta che, però, deve affrontare grandi “buchi neri”, come disillusioni, fallimenti, imperfezioni, sofferenze, lutti. Supera questo disagio attraversandolo e il suo non è altro che un lungo cammino verso la fame o, per meglio dire, per giungere, finalmente, ad avere fame. Del resto, Amélie Nothomb non ha scritto un libro sull’anoressia, bensì sulla fame, una necessità in grado di abitarti anche quando sei sazio. Essa è ovviamente intesa come qualcosa di reale ma anche come qualcosa di simbolico perché, dopotutto, la fame come la intendo io non è altro che fame di vita, amore, ricerca, desiderio. Ma quando tutto ciò è vorace e tende verso l’assoluto (e di questo assoluto, però, non ci si riesce a cibare), possono scattare altri meccanismi e il nostro essere passionale si ritorce contro di noi. Quindi sì: si può avere così tanta fame da non essere mai paghi, da non sopportare una sazietà a metà, da non tollerare minimamente il compromesso e, dunque, da smettere di mangiare del tutto. E, alla fine, ci si fa del male perché non si sa come uscire da questo intrico, da questo labirinto. E questo perché in realtà si vorrebbe sbranare la vita. Bramare, come detto, l’assoluto.

FR: In che senso l’assoluto?

AM: L’assoluto è l’esattezza, la perfezione, ciò che non ha limite. Il compromesso è il suo contrario e la vita è sempre piena di compromessi. In qualunque momento, devi accettare il compromesso. L’adolescenza è il momento in cui non accetti più i compromessi; al contrario, diventi adulto quando cominci a farli tuoi, a venire a patti con la routine di ogni giorno. «Fame mia» è la storia di una grande fame e della sua relazione con il limite.

FR: Il monologo è ambientato in Italia. Come mai questa scelta?

AM: Perché l’Italia è il Paese peggiore dove avere fame. In Italia si parla solo di cibo: siamo l’unica nazione al mondo dove qualcuno a Ferragosto ti chiede cosa hai mangiato a Natale ed è seriamente interessato (ride, ndr). Eppure, dopotutto, essere affamati è straordinario, perché l’affamato è qualcuno che cerca. L’affamato cerca l’amore o, magari, sé stesso, una casa, il proprio posto nel mondo, il successo, un centro di gravità permanente. Oppure solo un bar aperto di domenica.

FR: A un certo punto, in «Biografia della fame», Amélie Nothomb afferma: «Tra i 15 e i 17 anni smisi di mangiare, il corpo sparisce poco a poco, assieme all’anima». Anima e corpo sono indissolubilmente legati?

AM: Sì, certo: anima e corpo sono inscindibili. Amélie Nothomb dice così perché, affamando il suo corpo, ha smesso di sentire la propria anima. È un modo per stordirsi, per non provare nessun dolore, ma anche nessuna gioia e nessun altro sentimento. È un modo per smettere di odiarsi, per mettere in stand by se stessi, per gestire il fallimento, per scollarsi completamente dalla realtà.

FR: Lei è laureata in Filosofia. Se si escludono il culto di Dioniso e il cristianesimo, il pensiero occidentale, almeno fino a Nietzsche, ha sempre ostracizzato il corpo, rendendolo, in un certo senso, tabù. Perché?

AM: Sicuramente il corpo, per alcune persone, può risultare eversivo e rivoluzionario, se non, addirittura, negativo e sgradevole, insomma: qualcosa da censurare, di cui non si deve parlare. Anche per questo, nella storia dell’umanità, si è perseguito l’annullamento del corpo (sia a livello reale che simbolico), in favore di ciò che, ai tempi, era codificato come bello, buono e giusto: di solito, la mente e lo spirito. Ma la verità è che se si annulla il corpo anche l’anima, pian piano, perisce.

FR: In una società tecnologica come la nostra, in cui il mondo virtuale gioca un ruolo fondamentale, il corpo può essere visto come un intralcio?

AM: Non credo. Ma è anche vero che il virtuale può diventare un problema nel momento in cui ci si abitua a esso in modo morboso, nell’istante in cui diventa dipendenza. È forse però presto per parlarne: siamo ancora nel bel mezzo del fenomeno.

FR: «Fame mia» porta in scena una vicenda particolare: può mutare in storia universale?

AM: Assolutamente sì, anzi: direi che sia proprio la finalità dello spettacolo. Ognuno di noi ha la propria vita, una vita particolare. Ma, in quanto tutti esseri umani, le frecce (aspirazioni e desideri) che verso il cielo vengono scoccate dal nostro arco, nella loro diversità sono in realtà le stesse. Bisogna essere in grado di astrarre il senso da ogni tipo di particolarità per dar vita a una narrazione in cui tutti si possano riconoscere. «Fame mia» tratta di una bambina che cerca il suo posto nel mondo, che cerca di avere fame senza correre il rischio di distruggersi, imparando a accettare i propri “buchi neri”.

FR: Perché ha deciso di scrivere e interpretare questo monologo?

AM: Durante l’adolescenza, ho sofferto di malanni dell’anima. Ma ne sono uscita. Non offro facili soluzioni, ma mi sforzo di dare una risposta. E la risposta (che ha a che fare con quello che, personalmente, ho capito del significato di stare bene con sé stessi) è una risposta di riscatto, perché la protagonista ha nel cuore una profonda voglia di vivere. Il finale, seppur sbilenco e imperfetto, è confortante e positivo, perché i malanni dell’anima si possono vincere, si può guarire: è ciò che racconto. «Fame mia» vuole essere un inno alla vita e mi auspico possa far sentire meno sole, meno spaventate e meno infelici tutte quelle persone che stanno attraversando un momento di sofferenza.

FR: Lei, tempo fa, in un’intervista, ha detto: «Ho sempre saputo che se non avessi fatto teatro sarei morta dentro, umanamente». Perché?

AM: Fare teatro è la modalità privilegiata con cui mi rapporto al mondo, la mia strada, il mio grande desiderio. Il teatro è stato terapeutico per i miei malanni dell’anima, in esso ho trovato qualcosa che generava in me la fame, che mi corrispondeva intimamente. Una passione che, sempre, accende in me un grande fuoco che mai brucia ma, al contrario, fortifica. Se non avessi avuto il teatro, sarei diventata una persona arida e infelice. Ma non è stato così: grazie a esso, mi sono salvata.

Approfondimenti