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Laura Curino: resistere, raccontare, farsi raccontare. Con lo sguardo di una donna

Intervista. L’attrice torinese rivendica con gentilezza le “quote bordeaux” del teatro. Che non deve mai perdere il legame con società e politica, “altrimenti non è necessario”. Per Molte fedi sotto lo stesso cielo il 13 novembre “Passioni, barricate e… sottogonne”, riservato ai possessori della Card

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Laura Curino

Niente pubblico, scenografia ridotta all’essenziale, spazi ritagliati, un lockdown in atto: sono queste le condizioni che, volenti o nolenti, molti artisti di teatro hanno dovuto accettare per riuscire a portare in scena un lavoro in questo 2020. Non facile, ma per Molte fedi sotto lo stesso cielo questo e altro, dice con sicurezza Laura Curino. “Trent’anni fa Benvenuto Cuminetti venne a Settimo Torinese a vedere in scena un gruppo di perfetti sconosciuti, e con la sua visione e apertura mentale decise di dar loro fiducia e appoggio”, ci racconta, con un misto quasi balsamico di serenità e spigliatezza nella voce. “Da lì iniziò il mio rapporto con Bergamo, una città a cui sono molto legata e dove torno sempre con gioia”. Anche se per questa edizione significa tornare virtualmente: “Molte fedi, come altre realtà culturali, sta facendo una cosa necessaria in questo momento: reinventarsi e inventare delle forme di resistenza. E, non meno importante, volevo essere vicina agli amici, in un periodo così duro per Bergamo e il suo territorio”. I possessori della Card Molte Fedi potranno seguire “Passioni, barricate e… sottogonne” venerdì 13 novembre, sul sito della rassegna.

LD: Perché questo testo in particolare?

LC: È un lavoro che feci qualche anno fa, l’anno dell’anniversario dei 150 anni dall’Unità d’Italia. L’idea mi venne così: passeggiando per via Po a Torino notai che era stata organizzata una bellissima installazione, con dei grandi banner a onorare gli eroi del Risorgimento. Mi resi conto che erano tutti uomini. Poverini! Tutti orfani, vedovi, single? Così, quando mi chiesero di pensare a un intervento teatrale all’interno del Museo di Arte Antica a Palazzo Madama, decisi di dedicarlo alle donne del Risorgimento. Misi in scena tre donne al mese, con il pubblico seduto sugli scranni del Senato. Mi è sembrato un lavoro appropriato per questa edizione di Molte fedi. Ho dovuto, però, fare una cernita tra le molte, straordinarie figure femminili che avevo impersonato: Giuditta Sidoni, Colomba Luigi Porzi, Giuseppa la Cannoniera, Bianca Milesi Mojon… Tutte donne che hanno combattuto tanto quanto i loro uomini correndo grandi rischi, e a volte ci hanno lasciato pure le penne. Non è stato facile! Alla fine ho scelto una donna del sud, una del nord, una del centro, una benestante, una popolana… Sono diventate delle rappresentanti di queste vere e proprie donne di coraggio che hanno fatto il Risorgimento.

LD: Lei ha alle spalle un bagaglio ormai immenso di storie e figure iconiche. Come sceglie chi mette in scena?

LC: A volte, ovviamente, ci sono degli innamoramenti nei confronti di alcuni personaggi, ma io vengo dal teatro di gruppo, con un forte elemento di condivisione, quindi difficilmente lavoro imponendo un’idea personale. Diciamo che scrivo sull’onda di un’opportunità. Mi piace anche scrivere per tanti, su tanti, essere plurale: ho interpretato tanti personaggi maschili, ma torno comunque al mondo femminile… È un imperativo categorico, altro che quote rosa, io reclamo le quote bordeaux!

LD: Perché è così importante affermare il punto di vista femminile?

LC: Per varie ragioni, di tipo politico e ideale. Prima di tutto, dal punto di vista di una donna sicuramente dirò qualcosa di inatteso, perché la maggior parte delle produzioni, dei film, delle opere è vista da uno sguardo maschile. E invece lo sguardo delle donne è un serbatoio immenso, uno scrigno di gioielli… Quindi c’è sicuramente una maggiore originalità e una straordinaria ricchezza, ma anche un dovere storico. Per quanto ci sia un cambiamento, le voci delle donne si sentono ancora poco, è innegabile. Prendiamo, ad esempio, i panel dei convegni, o le donne con posizioni di responsabilità nell’ambito artistico. Qualcuna c’è, ma a me sembra di notare che al massimo veniamo piazzate in situazioni di grandi crisi da risolvere. A volte le ragazze si indispettiscono quando vengono dette certe cose: l’arte non ha sesso, dicono. Ma il punto è che galleristi, direttori di musei, registi, direttori di produzione… Ce l’hanno, eccome! Chi decide in ambito artistico ha sesso. Dopodiché, penso anche che esistano moltissimi uomini di buona volontà a cui fare appello e con cui lavorare.

LD: A chi e come parla il teatro? Lei si faceva questa domanda già nel 1989, quando avete portato in giro “Stabat Mater”, forse il primo esperimento italiano di teatro in casa. Immersa totalmente nel teatro, lavorandoci e parlandone continuamente come in una bolla, voleva riconnettersi con chi lo guardava.

LC: Quell’esperienza mi ha insegnato moltissimo sul dialogo col pubblico e a livello attorale. Quando si narra non si è mai da soli, si è molteplici. L’artista non può chiudersi all’interno del suo linguaggio, deve stare con la società e capire di cosa ha bisogno: il teatro deve essere necessario. Per questo a me piace lavorare con comparti della società diversissimi, che nulla c’entrano col teatro: scuole, aziende, giovani… Oltre che raccontare, devo farmi raccontare. Se questo legame si spezza non considero più il mio teatro necessario. Sento che devo connettermi con l’altro da me. Alcuni miei colleghi amano quello che io chiamo – senza voler offendere nessuno – teatro museo. È importante portare sul palco le tracce di ciò è stato fatto, ma per me è più importante dialogare col teatro che c’è: artisti da me lontani per stile, ma anche giovani compagnie. Il mio teatro si nutre di queste differenze. E il pubblico? Per me il pubblico te lo devi andare a cercare. È il tuo, che non è necessariamente quello di qualcun altro. Devi portare a teatro una comunità che crede in te.

LD: Come vive, da artista, questo periodo funesto?

LC: Prima di tutto non lo vivo, lo subisco. Ci sono alcuni punti che più mi fanno riflettere, pur con la mia lentezza. Il primo è il forte senso di umanità che attraversa i popoli e ci accomuna tutti. È una sofferenza che viviamo collettivamente. Poi, la nostra caducità e la riottosità delle persone ad ammetterlo. Questo virus ha fatto scoppiare la bolla del controllo. Alcuni ne sono totalmente terrorizzati, perché non sopportano di perdere il controllo sulla nostra eternità.

LD: E come impatto sul suo teatro e sul teatro italiano in generale?

LC: Sicuramente emerge un pregiudizio: che sia superfluo e come tale da trattare. Questo significa che chi fa teatro non ha lavorato bene. C’è un evidente deficit di comunicazione, soprattutto politica, perché posso testimoniare, da direttrice artistica, che il pubblico a teatro sta bene. Ma forse è ora che ricominciamo a essere più presenti a noi stessi e nel dibattito politico. Gli artisti devono poter fare il loro lavoro e avere del tempo per farlo, e soprattutto per pensare. È questa la nostra modalità di lavoro, siamo dei privilegiati! E penso che in un contesto come quello che stiamo vivendo possiamo essere utili a raggiungere tutti, per aiutarli a non sentirsi soltanto una fisicità violata.

Sito Molte fedi sotto lo stesso cielo

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