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“Per arrivare all’alba non c’è altra via che la notte”: il “Partage de Midi” di Claudel in onore di Benvenuto Cuminetti

Articolo. Paolo Bignamini e Gabriele Allevi colgono la sfida di un testo complesso, profondamente drammatico, dalle tinte cupe e oniriche, a chiusura di deSidera 2020. In omaggio al grande studioso bergamasco per i vent’anni dalla sua scomparsa

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“Partage de Midi”

“Partage de midi” non è un testo facile. Per molteplici ragioni, legate tra loro. Prima di tutto da un punto di vista strettamente testuale: abbonda di parole e immagini, di riflessioni ed esternazioni accorate. I tre atti dell’azione sono ambientati in una dimensione ben definita – un transatlantico, un cimitero occidentale in Cina, una città cinese infuocata da una rivolta – e al tempo stesso vaga, immersa in una serie di riferimenti a valenza simbolica. La vicenda è un flusso inesorabile di eventi che intrecciano le sorti del quartetto di personaggi: Ysé e il marito De Ciz, l’amante Mesa e lo spregiudicato Amalric.

Il titolo, poi, presenta già un piccolo rompicapo di senso: la prima traduttrice in italiano del testo, Simonetta Valenti, ha scelto “Crisi di mezzogiorno” per rendere il concetto di “partage”, che potrebbe rappresentare uno spartiacque di avvenimenti e momenti, un punto di non ritorno, una divisione interiore. Il secondo traduttore del testo, il poeta Giovanni Raboni, fece una scelta diversa, quella di sostituire “crisi” con “Cantico”, in riferimento a un passaggio centrale della pièce, il monologo-preghiera che il co-protagonista e alter ego dell’autore, Mesa, rivolge a Dio.

Un’opera di grande densità testuale, concettuale e di resa scenica, quindi; esiste infatti un unico altro adattamento italiano di “Partage de midi” prima di oggi. Raboni lo tradusse appositamente per questa versione di scena, diretta da Andrée Ruth Shammah e presentata al Salone Pier Lombardo, oggi Teatro Franco Parenti, nel gennaio 1988. Le opere di Paul Claudel, in generale, non hanno circolato moltissimo in Italia, ma questo testo in particolare ha avuto una curiosa storia di diffusione, anche sulle scene d’oltralpe.

Claudel lo scrisse nel 1905, ma non volle renderlo pubblico immediatamente”, racconta Paolo Bignamini, co-autore e regista dello spettacolo per deSidera (in scena giovedì 22 all’Auditorium Piazza Libertà di Bergamo e venerdì 23 ottobre all’Auditorium Cuminetti di Albino, alle 20.30, ingressso 10 € con prenotazione sia a Bergamo che ad Albino). “Rifiutò gli adattamenti scenici fino agli anni ’40, quando, per la versione di Barrault, lo rimaneggiò aggiungendo un finale che possiamo definire edificante. Altrimenti, non possiamo nemmeno considerarlo un testo fatto per andare in scena. È prima di tutto fortemente autobiografico”.

Questo è in parte il motivo che ha spinto Bignamini, di concerto con il co-autore Gabriele Allevi, alla scelta di “Partage de Midi” come spettacolo da presentare a deSidera, oltre all’occasione di onorare i vent’anni dalla scomparsa di Benvenuto Cuminetti. “Avevo letto e apprezzato il testo e, confrontandomi con Gabriele, che ha collaborato a lungo con Cuminetti, ho scoperto che era una delle opere di Claudel a lui più care. La considerava il suo testo drammaturgico più intenso e riuscito, più di altri maggiormente diffusi nel nostro Paese, e aveva il sogno nel cassetto di vederlo in scena”.

Per Bignamini l’intensità del testo è legata a un impulso personale che l’autore ha infuso nella scrittura. “’Partage de Midi’ nasce da un’esigenza fortissima di Claudel. La vicenda reale che ispirò l’opera è la sua relazione amorosa con una donna, Rosalie, che Claudel visse in modo molto tormentato. Io penso che di fronte alla necessità di sublimazione di un vissuto, dentro l’opera ci sia ciò che all’autore sta più a cuore. È un’urgenza reale, quindi quanto di più condivisibile e universale esista. Per portarla finalmente in scena, la pièce venne modificata, ma altrimenti sarebbe rimasto un testo scritto per la pura esigenza di scrivere, di farsene una ragione, in un certo senso, di dar conto di un tormento che Claudel stava vivendo”.

Rosalie, l’amata, nella pièce diventa Ysé, splendida donna che cambia le sorti di tre vite maschili. La figura desiderata e respinta, lo specchio del peccato e della redenzione, un secondo alter ego dell’autore: Ysé ha molte facce, dalle più reali alle più immaginifiche.

Ysé è sicuramente l’incarnazione in scena dell’amore della vita di Claudel, per lui impossibile e peccaminoso. Ha vissuto interamente e concretamente tutto: l’amore clandestino, un figlio illegittimo poi, forse, riconosciuto, la dolorosa rottura, gli incontri successivi. È stata una storia che ha attraversato la sua vita, lo sappiamo anche grazie alla corrispondenza, pubblicata di recente, tra i due amanti. Quindi una figura concreta. Ma tutto nasce da un punto di vista, dalla necessità di dare un senso a quello che si vive. Ysé viene trasfigurata sulla scena, diventa la donna imprendibile, l’amore assoluto che non si compie mai fino in fondo, a prescindere dal fatto che si consumi carnalmente. Sono eloquenti alcune battute ripetute più volte da entrambi gli amanti: ‘Io non posso darmi tutta! Lasciamoci’, una situazione drammaturgicamente paradossale”.

Di conseguenza “Il compimento della loro relazione si avrà solo con l’annullamento finale. C’è quindi una direzione autobiografica e una di senso: Claudel cerca nell’arte un riscatto al rifiuto e alla sofferenza, che non è dato dall’esperienza amorosa ma dal senso misterioso dell’amore stesso e della sofferenza intrinsecamente legata all’amore. L’opera serve all’autore a sublimare l’esperienza tragica e a trasformarla. Sono le parole di Mesa nel Cantico: ‘Ora capisco perché ho vissuto questa sofferenza’”.

Una consapevolezza che, per Mesa e per gli amanti tragici, porta con sé la salvezza. È un percorso interiore che incarnano anche altri personaggi di Claudel e che Bignamini indaga nel suo lavoro registico. Nel 2015, il regista ha messo in scena un altro dramma di Claudel, “L’annuncio a Maria”, anche questo in collaborazione con Allevi.

In quest’opera la protagonista, Violaine, ha 18 anni e sostiene di avere delle certezze di vita: sa chi è, cosa vuole, afferma di avere una fede molto forte, che in realtà è solo professata, non vissuta. “La sua fede viene messa a dura prova da una serie di esperienze umane terribili: viene abbandonata dal promesso sposo, si ammala di lebbra”. Al culmine della sua sofferenza, la sorella si presenta al suo capezzale, con il corpo della figlioletta morta tra le braccia. Violaine realizza finalmente la sua piccolezza e in quel momento avviene il miracolo: la nipote torna in vita. Allo stesso modo, Mesa capisce il senso dell’amore e della fede solo nel turbamento”.

La fede va cercata dove non si pensa che sia, ma soprattutto vissuta attraverso una lacerazione: “Il percorso di Mesa è simile a quello di Violaine: come il suo alter ego nella realtà, Claudel, Mesa è stato respinto quando ha chiesto di prendere i voti, e inizialmente vive con atroce sofferenza questo rifiuto. Ma nel momento della sua presa di coscienza, capisce le ragioni della sua manchevolezza: ‘Ero orgoglioso!’. Questo è un nodo centrale, per me, un percorso di ricerca che mi tocca molto e che approccio, da non credente, con delicatezza e rispetto. C’è sempre qualcosa oltre i nostri limiti e le nostre categorie di pensiero che può distoglierci dalle nostre certezze e farci vivere appieno ciò che credevamo di conoscere”.

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