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Stefano Massini racconta (a) Gaber: «le storie salvano gli uomini»

Intervista. Giovedì 21 luglio per «Lazzaretto Estate 2022» lo scrittore di «Lehman Trilogy» – fresco vincitore di cinque Tony Awards, gli Oscar americani del teatro – porterà in scena il suo personalissimo omaggio a Gaber. Una «storia di storie» per condurre all’oggi la forza intellettuale di un artista inimitabile. «Gaber ti dice “guardati dentro, guarda i tuoi vortici, le ossessioni, i tuoi mostri. Non voltarti dall’altra parte”»

Lettura 6 min.
Stefano Massini (foto Chiara Stampacchia)

Era in estati come questa, magari un po’ meno calde, che Giorgio Gaber e Sandro Luporini si ritrovavano in Versilia per pensare e scrivere lo spettacolo che l’anno dopo l’artista milanese avrebbe portato sui palchi dei teatri italiani. Spettacoli ogni volta densi di riflessioni, di amarezza e ironia, attenti a ciò che accadeva nel nostro Paese e non solo, ma anche alle vite quotidiane delle persone, ai loro problemi, in quelle case dove nascono i primi germogli della Storia.

Il repertorio di Gaber-Luporini, enorme per vastità e profondità, dopo la scomparsa di Gaber non è diventato lettera morta. Ma è stato studiato, celebrato, riproposto in vari modi più o meno riusciti. Ma sempre nella convinzione di avere ereditato dai due una ricchezza per il domani che quelle canzoni e quei monologhi contenevano. Stefano Massini, dopo aver raccontato la saga dei Lehman, la storia di Sigmund Freud e molto altro; dopo essere stato il primo autore italiano ad aver vinto cinque Tony Awards (l’Oscar del teatro americano) con «Lehman Trilogy», torna a Gaber e alla sua storia. Per distillarne altre storie e riportare all’oggi le parole precise e i pensieri ficcanti del Signor G. «Quando sarò capace di amare. Massini racconta a Gaber» il 21 luglio al Lazzaretto (biglietti qui).

«La vittoria dei Tony Awards è stata una cosa inaspettata, io sono andato a New York con l’idea di uno che andava a godersi una cosa che probabilmente non avrebbe mai più rivisto nella vita. A me già bastava la nomination, aver vinto è stata una grande soddisfazione. Ma lo è ancora di più l’essere stato un orgoglio per gli italiani, che da un mese a questa parte riempiono i miei spettacoli e vengono a stringermi la mano».

LB: Massini, dai Lehman a Gaber. «Quando sarò capace di amare. Massini racconta a Gaber» ci suggerisce almeno due direzioni nel suo approccio al Signor G. La prima riguarda la canzone citata nella prima parte del titolo.

SM: «Quando sarò capace di amare» è una bellissima canzone di Giorgio Gaber che chiude lo spettacolo nel segno di quello che è un po’ il comune denominatore di questa serata, cioè l’incapacità di amare sé stessi e l’incapacità di amare chi vorremmo amare. Sono due cose che vanno di pari passo e che in qualche modo caratterizzano tutta la produzione delle canzoni di Gaber che ho deciso di utilizzare come una specie di “segnalibro” di questo mio sfogliare il volume di Gaber.

LB: La seconda è quell’«a» che indica come, in qualche modo, Gaber sia il destinatario del suo racconto.

SM: Racconto «a» Gaber perché io non sono un attore, non sono un cantante, sono un uomo di spettacolo ma sono soprattutto uno scrittore che in questa serata racconta delle storie. Delle storie che ho trovato sulla mia strada dopo aver trovato sulla mia strada le canzoni di Gaber. Cioè dalle canzoni di Gaber sono arrivato ad altre storie. E allora io racconto queste storie che all’apparenza non c’entrano con le canzoni di Gaber ma alla fine ne rientrano dentro, come se Gaber avesse scritto queste canzoni anche per queste storie senza rendersene conto.

LB: Ci può fare un esempio?

SM: Le canzoni che ho scelto sono tra quelle più inaspettate, come quel brano meraviglioso che è «I mostri che abbiamo dentro», in cui Gaber racconta il nostro rapporto con le ombre, i vortici e le ossessioni che ci portiamo dietro. Mi ha ricordato la storia del processo al mostro di Milwaukee, un serial killer che aveva ucciso un sacco di persone. Durante il processo l’imputato si rivolse alle persone che erano presenti al dibattito e disse loro «io e voi siamo uguali, abbiamo addosso dei mostri con cui facciamo i conti fin dalla nascita». Io racconto nel dettaglio questa storia del mostro di Milwaukee, che è molto vicina a ciò che Gaber dice nella canzone, e queste parole del mostro di Milwaukee finiscono proprio dentro la canzone di Gaber.

LB: «I mostri che abbiamo dentro» appartiene all’ultimo disco di Gaber, «Io non mi sento italiano», uscito postumo poche settimane dopo la morte. La scelta delle canzoni si muove anche nel passato del percorso gaberiano?

SM: Ho raccolto queste canzoni dai momenti più diversi della produzione di Gaber e ci tengo tantissimo a questo, nel senso che ho voluto cercare delle canzoni che non fossero quelle più riconosciute e riconoscibili. Di solito quando vai a sentire una serata su Gaber ti aspetti di trovare «Lo shampoo» o «Destra sinistra», che nello spettacolo non ci sono. Io ho cercato delle canzoni che raccontassero quello che io cerco di farmi passare da Gaber e ho voglia di raccontare a lui. È un “dialogo” tra me e Gaber, che io immagino seduto in mezzo al pubblico ad ascoltare una serie di percorsi che da narratore mi sono inventato. Partendo da ciò che ha fatto questo grandissimo personaggio, che insieme a Luporini riusciva a portare sul palco delle riflessioni meravigliose, che in alcuni casi non sono così note ma sono di una profondità e di una bellezza sconcertante.

LB: Rispetto a «Lehman Trilogy», a «Qualcosa sui Lehman», ma anche a «L’interpretatore dei sogni» su Freud, il metodo con cui ha costruito questo spettacolo su Gaber è differente?

SM: È uguale e identico l’amore verso queste storie. «Lehman» è un collage di storie, «Freud» è un collage di sogni, in quei libri si respira la mia voglia, la mia sete, la mia urgenza, la mia necessità, la mia passione per il racconto di storie. In questo caso riguardante Gaber invece di un racconto solo ci saranno più racconti differenti all’interno della stessa serata, ma è uguale e identico il meccanismo che sta a monte, cioè l’amore e la passione per il racconto delle storie e anche la sicurezza che ho sempre avuto: che il racconto delle storie salva chi le racconta e chi le ascolta. Perché da che mondo è mondo l’uomo si salva nel raccontare storie, le proprie e quelle che ascolta dagli altri, che sono sempre un manuale esistenziale. Ricordo una serata in cui venni a Bergamo insieme a Ferruccio De Bortoli a raccontare «Lehman» e mi persi nel racconto di tante storie che erano collegate alla storia dei Lehman. Torno a Bergamo questa volta con uno spettacolo che è sempre figlio di quella passione per le storie, grazie alle quali le persone mi conoscono e mi sono venute a cercare l’altra volta come credo accadrà questa volta.

LB: In scena con lei ci sarà l’Orchestra Multietnica di Arezzo. Quale sarà il suo ruolo?

SM: L’Orchestra Multietnica di Arezzo è un ensemble di musicisti straordinari che hanno provenienze da ogni parte del mondo. Queste sonorità differenti danno possibilità di arrangiamento molto particolari, perché ad esempio non avere in scena la batteria ma il salterio, oppure non avere il basso ma il bouzouki cambia tutto. Quindi quello che arriva in scena è qualcosa di particolare perché le canzoni di Gaber vengono arrangiate in modo che diventino figlie di sonorità completamente diverse da quelle a cui siamo abituati. L’Orchestra Multietnica di Arezzo non fa musica facilmente multietnica, “da bazar”, perché non avrebbe senso. Propongono invece un altro modo di ascoltare Gaber, grazie anche alla direzione di un grande uomo di musica e di scena come Enrico Fink.

LB: Ma le canzoni verranno anche cantate?

SM: Le canzoni verranno riproposte secondo questo genere particolarissimo che Gaber inventò e che è il teatro-canzone, in cui a tratti lui cantava il ritornello, poi parlava, tornava a cantare e poi a parlare, sempre su una base musicale. Era una cosa molto teatrale, che lo lega ad un altro personaggio come Enzo Jannacci, che sto portando in giro in un altro spettacolo, «Storie», insieme al figlio Paolo. Questo modo di raccontare sulla musica, di intonare un ritornello e poi magari parlare in rima su base musicale lo sento molto mio e mi fa sentire molto vicino sia Gaber che Jannacci.

LB: Lei, fra le altre cose, è molto appassionato di parole. Le parole di Gaber e Luporini erano molto precise, calibrate rispetto a ciò che volevano dire. Cosa ci insegna oggi questa precisione?

SM: Sono parole scelte, nel senso che i testi di Luporini e Gaber sono delle vere e proprie forme di letteratura, perché rispettano una profonda scelta della parola. I loro testi non sono mai gratuiti, soprattutto non cercano mai il compromesso con la colloquialità, ma sono delle vere e proprie ricerche letterarie, che ai miei occhi appaiono meravigliose. Quando Gaber, in una canzone che io affronto in questo spettacolo, dedica dieci minuti, una lunghezza incredibile per una canzone, a un pezzo memorabile di letteratura e teatro-canzone come «Io se fossi Dio» compie un lavoro di pura letteratura e la pura letteratura nasce dalla scelta della parola. Noi a volte siamo molto ingordi nell’usare le parole, Gaber e Luporini ci insegnano a selezionare, a scegliere le parole di una lingua bellissima e ricca di significati diversi com’è l’italiano.

LB: Immagino che lei, per ragioni anagrafiche, abbia visto Gaber dal vivo.

SM: Sì, anzi a un certo punto dello spettacolo racconto come nei miei ricordi da liceale, portato da altri a vedere uno spettacolo di Gaber, quello che mi colpì più di tutto fu vedere quest’uomo alto, dinoccolato, scavato in volto, che faceva una cosa che non capivo ma che mi colpiva tantissimo, cioè mettersi al microfono e su una base continua e ostinata mettersi a raccontare cosa lui avrebbe pensato, detto e vissuto se fosse stato Dio. Oggi quella canzone la ripropongo, perché da ragazzo mi diede la possibilità di capire la grandezza di Gaber.

LB: Quella di riportarla sul palco è una scelta coraggiosa.

SM: Stiamo parlando di una canzone con una storia pazzesca. Una canzone che uscì nel 1979, un anno dopo l’uccisione di Aldo Moro, e fu pesantemente contestata, bloccata dalla censura, perché in quella canzone Gaber e Luporini dicono delle cose di una spietatezza, di una ferocia, ma anche di una verità profonda, che erano inaccettabili per la politica italiana di allora. È una canzone che è stata riscritta da Gaber e Luporini più volte per aggiornarla a quello che avveniva nel frattempo in Italia. E anche io ho deciso di riscriverne alcune parti per aggiornarle al presente, ricevendo una sorta di staffetta da Gaber e Luporini.

LB: Dopo aver attraversato la produzione gaberiana così densamente, secondo lei che messaggio ci dà oggi Gaber?

SM: Un messaggio che è di un’attualità profonda. Gaber ti dice «guardati dentro, guarda i tuoi vortici, le ossessioni, i tuoi mostri» come ti dicevo prima, «non voltarti dall’altra parte». È ciò che mi ha fatto innamorare di quest’uomo e questo intellettuale, tanto da decidere di rendergli omaggio.

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