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Un diario per incontrare Van Gogh a teatro

Articolo. Il 23 novembre va in scena al Teatro Creberg «Gli ultimi giorni di Van Gogh. Il diario ritrovato» di e con Marco Goldin, storico dell’arte e appassionato studioso. Un interessante espediente narrativo è l’occasione per lasciarsi attraversare da racconti di vita inediti e taciuti dall’artista. Con la speranza che la narrazione spinga gli spettatori a (ri)vedere i capolavori del grande pittore olandese

Lettura 6 min.

«Il cassetto del comodino era socchiuso e sbucava un quaderno un po’ lacero, di pelle verde scura, con dei ricami dorati e un dorso nero. Non ho resistito e l’ho aperto. Era il suo diario».

A parlare è Arthur Gustave Ravoux, il proprietario della locanda dove Vincent Van Gogh trascorre le ultime settimane della sua vita, a Auvers-Sur-Oise. È il 14 luglio 1890, giorno della Festa della Repubblica francese: il pittore, all’esterno, è intento a ritrarre il Municipio imbandierato, mentre il locandiere, indaffarato a rifare il suo letto, diventa fortuitamente depositario di un segreto. Pochi giorni dopo la morte di Vincent, Monsieur Ravoux si ritrova ad essere il tramite per raccontare gli ultimi giorni dell’artista, diventato poi uno dei più apprezzati al mondo.

Mercoledì 23 novembre, le parole del diario di Vincent riecheggeranno al Teatro Creberg, dove alle 21 andrà in scena «Gli ultimi giorni di Van Gogh. Il diario ritrovato», spettacolo tratto dall’omonimo romanzo (Solferino, 2022) di Marco Goldin. L’autore e storico dell’arte crea delle premesse narrative talmente verosimili che, una volta conosciuto l’espediente di finzione letteraria, diventa lecito lo smarrimento del pubblico. La finzione narrativa si mette quindi a servizio della verità storica per raccontare un tempo a cui Van Gogh non ha dedicato parole.

Quanto è forte, oggi, il desiderio di umanizzare i grandi della storia, di conoscerli nei loro anfratti più concreti, meno eccellenti, più simili a noi. È come se avessimo bisogno di queste conferme per sentirci in sintonia, per apprezzarli ancora di più, per abbracciare la loro superiorità con le mani della limitatezza umana. Se ci si pensa, è lo stesso meccanismo che animava nell’antichità i racconti sugli Dei greci e romani, connotati sempre con caratteristiche umane, capaci di provare emozioni, di rendersi prossimi ai sentimenti e alle difficoltà di chi viveva quotidianamente gli affanni terrestri.

Allo stesso modo, si ricercano conferme sull’umanità del «grandissimo» Vincent Van Gogh. Come stava, allora, poche settimane prima di morire suicida? Quali pensieri lo attanagliavano? In che modo possiamo ritrovarci nella sua storia, sentirci partecipi di campi di grano, colline a gradoni e cieli tersi? Al Creberg le parole si fonderanno con la musica e le immagini, in una soluzione immersiva e sinestetica. Ho intervistato Marco Goldin per conoscere la genesi di tutto questo.

CDM: Alla luce degli innumerevoli studi che ha fatto, come è nata l’idea di questo spettacolo, tratto dal romanzo?

MG: Posso dire di aver studiato Van Gogh per tutta la vita; ora sono quasi ventisei anni che ne seguo il percorso, la psicologia, le opere. Punti cardine fondamentali sono stati le sei mostre di grande successo che ho curato, gli innumerevoli saggi, gli spettacoli teatrali. Certo, questo è un progetto particolare: è come se calassi il mio ruolo di storico dell’arte prima in quello di narratore e scrittore, poi in quello di attore.

Realizzando le ultime due mostre, nel 2017 e nel 2020, ho iniziato a percepire un intenso desiderio di intrecciare la mia voce con la sua. Ormai sentivo di conoscere Vincent davvero bene; ho letto il suo epistolario infinite volte, ho avvertito una forte affinità. Poi, ammetto di amare particolarmente il canto finale degli artisti. Da qui è nato quello che porterò in scena al Creberg.

CDM: Sicuramente ha saputo scavare nell’intimità di una personalità davvero profonda, talvolta labirintica, spesso taciuta. Quanto di quello che ascolteremo è reale, e quanto immaginario?

MG: Il libro e lo spettacolo sono costruiti sulla Storia: seguono gli ultimi due mesi e mezzo della vita di Van Gogh, dal 15 maggio 1890 (giorno precedente al lascito del manicomio in Provenza), fino al 27 luglio, quando si spara un colpo di rivoltella al petto vicino a un covone. Si tratta quindi esclusivamente di fatti reali, non c’è nulla di inventato rispetto a quanto già conosciamo; è possibile ascoltare la realtà di queste vicende, tra l’altro, in un podcast in cinque puntate disponibile su tutte le piattaforme: un lavoro da storico dell’arte, che prepara a una visione consapevole dello spettacolo. Certo, nei suoi ultimi mesi di vita ad Auvers, Van Gogh si caratterizza per due fattori: scrive molte meno lettere, parla poco dei quadri dipinti. Io ho colmato soprattutto queste lacune attraverso una vicinanza al pittore regalata da anni di studio.

CDM: Cosa ha trovato, alla fine, nell’animo di Van Gogh? Che personalità ne emerge?

MG: È sicuramente un Van Gogh pronto a incontrare la fine del suo tempo. Vive un periodo sospeso, in cui compie significativi bilanci: come pittore, nei rapporti con il fratello Theo, con Gauguin, con l’intera famiglia, con la natura umana. Come tutti coloro che sentono vicina la fine, anche Vincent ripensa al passato. Io, in modo particolare, indago il difficile ma affettuoso rapporto che aveva con il padre.

Auvers, poi, è il luogo in cui Vincent riesce a immedesimarsi di più: le gigantesche ondulazioni di colline, i campi di grano, i cieli che spiovono dall’alto sono i luoghi da cui si fa accogliere alla fine, azzerandosi in un conciliato panismo.

CDM: Ci sono, invece, degli stereotipi o dei falsi miti che cerca di allontanare?

MG: In primo luogo, sicuramente il fatto che fosse pazzo: non esiste alcuna diagnosi scritta, è una concezione romantica e non veritiera. Questo è un mito da sfrondare e da sfatare, sul quale insisto molto anche nelle mie mostre. Soffriva probabilmente di sindrome malinconica, che non è pazzia, alla quale seguitavano una serie di disequilibri. In secondo luogo, Van Gogh non era povero: attraverso le lettere che scriveva al fratello Theo, ho calcolato che riceveva 200 franchi al mese; si sappia, per un opportuno confronto, che ai tempi un impiegato dell’amministrazione statale percepiva meno di 150 franchi al mese.

Infine, un falso mito, alimentato per lo più dal cinema, è che Van Gogh non si sia suicidato, ma sia stato ammazzato. Ci sono tanti film importanti che si sono fatti paladini di questa idea, educando il pubblico a una falsità.

CDM: Lo spettacolo si presenta davvero immersivo. Sul palco diversi schermi alternano sia immagini di quadri che scenari paesaggistici.

MG: Sì, tengo molto a questo canale visivo e multimediale. Lo spettacolo ha il suo cuore pulsante nel profluvio di immagini che invadono il pubblico. Un aspetto, questo filmico, che viene continuamente rilanciato attraverso il grande schermo di sette metri, panoramico e infine arcuato, con proiezioni al laser in altissima definizione, che mi avvolgono sulla scena. Fondamentali, poi, sono tutte le riprese fatte dal 2017 al 2019 sui luoghi di Van Gogh, presso le miniere del Belgio, in Provenza, ad Arles, nei campi di grano, sulle strade con cipressi e montagne. Il 90% di questi paesaggi sono di Auvers: abbiamo fatto largo uso dei droni; sono vedute davvero uniche e pazzesche, tanto che spesso esco dal palcoscenico e lascio parlare unicamente immagini e musica. Altre volte, invece, cammino su una passerella che si alza a mezzo metro dal livello del palcoscenico, rendendomi parte di questi paesaggi che scorrono alle mie spalle.

CDM: A tal proposito, un ruolo fondamentale è ricoperto dalle splendide musiche di Franco Battiato, eccezionalmente concesse per questa occasione. Come si integrano con le immagini? Su quali brani è ricaduta la scelta? Perché?

MG: Innanzitutto è bene sottolineare come la musica non sia sottofondo, ma vera protagonista dello spettacolo. Il pubblico sentirà musiche strumentali di carattere operistico, probabilmente sconosciute e non riconducibili al Battiato più famoso, ma fortemente attinenti alle immagini di Van Gogh. Sono tratte per metà dal suo «Gilgamesh», uscito giusto trent’anni fa, poi dal «Telesio» e da quell’album così particolare e nuovo che fu il «Joe Patti’s experimental group». Si assiste a un vero e proprio galleggiamento dentro lo spirito e l’infinito. Tutte insieme, e nell’uso mai gratuito e invece sempre motivato che ne viene fatto, queste musiche costituiscono una parte fondante, un legame ancor più poetico per l’intero spettacolo. Battiato, poi, amava Van Gogh e spesso parlavo con lui davanti alle sue opere.

CDM: Infine, quale potrebbe definire come obiettivo principale di questo spettacolo, una sorta di mostra-evento?

MG: Vorrei attirare chi ha il desiderio di conoscere Van Gogh, ma spontaneamente non andrebbe a visitare una mostra. C’è chi ha bisogno di altri canali di fascinazione e in questo spettacolo parole, immagini e musiche si uniscono in una struttura fortemente immersiva e conciliante con questa necessità. Non escludo che poi partecipi volentieri anche il pubblico fedele alle mie mostre e ai miei saggi: questa sarà sicuramente un’occasione di lasciarsi attraversare emotivamente, a 360 gradi, da una figura che già conoscono e hanno imparato ad amare.

«Vorrei con la mia pittura, con i miei colori consegnare al mondo, senza che lo sappia, questa forza di eternità, questo scatto che dà il pennello mentre distendo un giallo e un verde sulla tela, mentre strappo un angolo di cielo in attesa della notte che arriva. Ormai non c’è più tempo per me, Theo. Sento che mi sto abbandonando al mio destino, preso dalla corrente. Eppure, continuo a lavorare, eppure continuo a dipingere».

Sono alcune delle parole che, il 23 novembre, sentiremo pronunciare da Van Gogh. Troppo spesso noi, presi dalla corrente della contemporaneità, per interessarci abbiamo bisogno di occasioni immersive, che catturino i sensi e l’emotività. Perché però Van Gogh continui a «consegnare al mondo, senza che lo sappia, una forza di eternità», la speranza è che questo spettacolo motivi l’interesse di qualche spettatore, senza esaurirlo. Sarà davvero bello se, al termine, qualcuno non vedrà l’ora di vedere dal vivo, in tutta la matericità dei colori e della tela, quelle opere che hanno fatto sognare intere generazioni. E che si confermi l’effetto di stupefazione. Ecco «l’angolo di cielo» a cui aggrapparsi con tutte le forze.

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