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Filamenti #8: donne e lavoro, oltre la «sindrome dell’impostore»

Articolo. Capita spesso che ambienti lavorativi prevalentemente maschili siano più o meno consapevolmente respingenti nei confronti delle donne. Questa cultura organizzativa impatta sulla vita lavorativa delle donne, già pesantemente condizionata dalla mancanza di progressione di carriera, dalla discriminazione e dagli stereotipi. Ecco come e perché è tempo di cambiare

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(Illustrazione di Anton Vierietin)

La giornalista Caterina Soffici, in un libro del 2010 intitolato «Ma le donne no» , racconta la situazione italiana rispetto al tema della disparità di genere. Secondo Soffici, l’Italia rappresenta un’anomalia nel panorama delle democrazie occidentali: nel nostro paese, le donne sono ultime in tutto. Nell’introduzione del suo libro, racconta come i processi di emancipazione nati negli anni Settanta si siano rallentati quasi impercettibilmente fino arrivare ad una stasi negli anni Novanta; anzi, a una pericolosa retromarcia negli anni del berlusconismo. Per un lungo lasso di tempo, in Italia le donne non sono state più un tema. Questo rallentamento ha portato l’Italia a essere un paese più vicino al terzo mondo che all’Europa sui temi di genere. Nel rapporto del 2022 pubblicato dal World Economic Forum ( «Global Gender Gap Index» ), che misura i progressi della parità di genere nei settori della politica, dell’economia, dell’istruzione e della salute di 146 paesi, l’Italia si situa al 63esimo posto.

Il lavoro resta un nodo cardine della normalizzazione del paese sui temi di genere. Il primo dato riguarda il carico di lavoro delle donne che, com’è noto, è molto di più di quello degli uomini. Alle donne, infatti, è da sempre affidato il lavoro domestico, il lavoro della gestione dei figli e quello di cura della famiglia. Dal report dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro leggiamo che in Italia le donne svolgono in media 5 ore e 5 minuti di lavoro non retribuito di assistenza e cura al giorno, mentre gli uomini un’ora e 48 minuti. Le donne, quindi, si fanno carico del 74% del totale delle ore di lavoro non retribuito di assistenza e cura. Questo impedisce in gran parte la loro partecipazione al mercato del lavoro.

Inoltre, quando le donne riescono ad avere e mantenere un lavoro, emergono altre importanti questioni: la minor retribuzione salariale, l’assegnazione di posizioni meno prestigiose dei colleghi maschi, la mancanza di politiche di conciliazione lavoro-famiglia e tutta una serie di discriminazioni di genere che spesso avvengono sul posto di lavoro. Queste disuguaglianze non sono affatto un dato astratto, ma si dispiegano quotidianamente in una serie di pratiche e micro-pratiche a cui possiamo assistere tutti i giorni.

Pensiamo a quanto sia comune che alle donne venga chiesto di ricoprire ruoli multipli, di prendersi cura, per esempio, degli aspetti organizzativi e pratici di un luogo di lavoro: di prendere appunti, di accogliere persone o di chiudere e aprire porte, di portare caffè. Pensiamo a quanto automaticamente si deleghi alle donne l’aspetto della facilitazione della comunicazione interna a un’organizzazione e a quanto si chieda loro di essere flessibili, accoglienti, accomodanti e sorridenti. Pensiamo a quanto sia comune commentare l’aspetto fisico di una donna sul posto di lavoro, i suoi vestiti, il modo in cui si pone. A quanto spesso le idee di una donna siano viste come emergenti dal gruppo di lavoro, mentre quelle dei colleghi maschi siano considerate originali e brillanti idee personali.

Questi sono solo alcuni esempi delle fatiche che quotidianamente le donne affrontano sul lavoro tra mancanza di progressione di carriera, discriminazione e stereotipi. E non dobbiamo pensare che queste siano cose piccole, perché è addirittura provato dalla letteratura psico-medica che questo tipo di richieste implicite e atteggiamenti ripetuti nel quotidiano procurino una condizione di stress lavorativo permanente che impatta pesantemente sul sistema immunitario, causando problemi importanti come per esempio l’aumento del livello di cortisolo, il diabete, disturbi d’ansia, cefalee o problemi legati a sindromi osteoarticolari.

Spesso la cultura organizzativa del lavoro, che si connota come un luogo maschile, fa sentire alle donne di essere “intruse”. Nel 2021 è stato tradotto per l’editore Longanesi un libro di Elisabeth Cadoche e Anne de Montarlot sulla «sindrome dell’impostore» ( «E se poi mi scoprono? Noi donne e la sindrome dell’impostore» ). Questa sindrome, identificata negli anni Settanta da due studiose americane, Pauline Rose Clance e Suzanne Imes, colpisce proprio per il 70% le donne. La «sindrome dell’impostore» deriva dall’interiorizzazione della sensazione di “intrusione” che le donne molto spesso percepiscono quando entrano a far parte di un ambiente organizzativo maschile. Si tratta della sensazione di non sentirsi mai sufficientemente brave, di non meritare i risultati ottenuti e quindi di vivere nella costante paura di essere smascherate.

Questa sensazione di “estraneità” e d’intrusione non è solo un sentire personale, ma riflette quello che le sociologhe del lavoro Silvia Gherardi e Barbara Poggio definiscono «un’infrazione all’ordine simbolico di genere» (in «Donna per fortuna. Uomo per destino» ETAS – Rizzoli 2003). L’ordine simbolico di genere, ovvero la divisione tra uomini e donne, è un prodotto storico-culturale che si riproduce in modo continuo nelle nostre società, senza che noi ce ne rendiamo bene conto.

L’odine simbolico di genere, così inteso, fonda la divisione sociale del lavoro, che comunemente assegna agli uomini la responsabilità primaria della produzione, del lavoro per il mantenimento del nucleo familiare e alla donna la responsabilità primaria della cura e della riproduzione. Pertanto, se una donna svolge professioni che appartengono all’ambito della cura non è considerata un’anomalia, ma se assume ruoli tradizionalmente maschili in ambienti organizzativi maschili, lì avviene l’infrazione, lo strappo, la rottura. Ricucire questo strappo richiede una grande quantità di spiegazioni, adattamenti, energia. Significa non solo non cadere nella trappola della «sindrome dell’impostore», ma anche sapersi ritagliare in modo affermativo un proprio spazio dentro un ambiente naturalmente respingente.

In questo contesto di fatica, resta il fatto che il lavoro per le donne rappresenta pur sempre un ambito irrinunciabile, l’unico in cui sia possibile non solo conquistare la propria indipendenza economica, ma anche emanciparsi. Come dicono Gherardi e Poggio, il lavoro nei vissuti delle donne può essere un’esperienza di sfida e di soddisfazione. Mentre quando raccontano le loro esperienze di lavoro in relazioni ai temi di genere, gli uomini assumono una posizione difensiva, tendendo alla negazione di ogni differenza, per le donne invece l’ambito lavorativo è un luogo dove sviluppare, pur nelle difficoltà, la consapevolezza di sé come persone capaci di intraprendere un percorso non tradizionale. Le donne si percepiscono nel lavoro come persone capaci di guardare con soddisfazione a ciò che hanno saputo fare e capaci di seguire una passione o il desiderio di affermare loro stesse.

Voglio concludere pertanto sottolineando che essere consapevoli, come donne, che non ci muoviamo in un luogo “neutro” quando lavoriamo in un ambiente organizzativo maschile, può aiutarci a trovare un nostro modo di stare in questi ambienti senza sentici delle intruse. È importante capire che ci stiamo confrontando con una condizione comune, che non dipende da noi. È importante leggere questi fenomeni di discriminazione per fare alleanza, per aprire un confronto, una condivisione che possa essere di sostegno reciproco. È infine cruciale osservare le micro-pratiche non eque del quotidiano che strutturano le nostre giornate al lavoro in modo che, mettendole in discussione, si contribuisca a cambiare la cultura organizzativa del posto di lavoro. Come dire: «oggi la porta la chiudi tu».

Concludo con un paio di consigli di visione sul tema dell’emancipazione delle donne sul posto di lavoro. Il primo è un film che ormai è un grande classico: «Hidden Figures», in Italia «Il diritto di contare» . Si tratta un film drammatico biografico americano, diretto da Theodore Melfi e scritto da Melfi e Allison Schroeder nel 2016. Il film è basato sull’omonimo libro di Margot Lee Shetterly su tre matematiche afroamericane: Katherine Goble Johnson (Taraji P. Henson), Dorothy Vaughan (Octavia Spencer) e Mary Jackson (Janelle Monáe), che ha lavorato alla NASA durante la corsa allo spazio. Il film racconta come, sfidando il razzismo e la discriminazione di genere negli Stati Uniti della segregazione, queste scienziate riuscirono insieme a molte altre colleghe a tracciare le traiettorie per il Programma Mercury e la missione Apollo 11.

Il secondo è una serie uscita nel 2015 su Amazon e che racconta una favolosa esperienza collettiva di emancipazione sul posto di lavoro. Si tratta di «Good Girls Revolt – La rivolta delle brave ragazze» , regia di Dana Calvo. La serie è tratta dal libro della giornalista statunitense Lynn Povich, mai tradotto in Italia, «The Good Girls Revolt – How the Women of Newsweek Sued their Bosses and Changed the Workplace» («The Good Girls Revolt - Come le donne di Newsweek hanno fatto causa ai loro capi e hanno cambiato il posto di lavoro»). La serie racconta come nel 1970 un gruppo di settanta impiegate nella redazione del giornale Newsweek abbia fatto causa alla testata per discriminazione di genere.

Nella redazione del giornale, infatti, non era possibile per le donne fare carriera come reporter e nemmeno essere autrici di articoli. Potevano quindi svolgere mansioni di segreteria di redazione e fare il lavoro di ricerca sul campo per fornire poi i dati ai giornalisti maschi, unici titolati a firmare i pezzi. La serie racconta come lentamente il gruppo di lavoratrici abbia preso consapevolezza delle proprie condizioni di lavoro e abbia deciso di organizzarsi con un’avvocata nera per fare causa alla testata. È interessante osservare l’emergere di questo lento processo di presa di coscienza femminile, dentro a pratiche lavorative maschili così radicate da sembrare irremovibili. È entusiasmante vedere come poi sia proprio l’avvocata nera a spiegare al gruppo di donne bianche i meccanismi della discriminazione e della lotta, unendo le conquiste dei neri per l’emancipazione razziale alla lotta femminista.

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