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I polli in batteria e la sobrietà del Natale

Articolo. Gli affollamenti dello scorso weekend inducono come non mai a una riflessione sulle festività (pandemiche) di quest’anno. Siamo sicuri che la cosa più importante siano i regali?

Lettura 3 min.

Le immagini della folla di sabato e domenica, l’invasione delle vie centrali delle città, hanno una loro logica, che però forse non basta per giustificare il fenomeno. In Italia nel 2020, Covid o no, si sono fatti più di 700mila morti, come nel 1944, in piena Seconda guerra mondiale. Anche gli USA, in quest’anno che sta per finire, hanno totalizzato più persone decedute di quante ce ne furono in tutta la loro partecipazione alla Seconda guerra mondiale.

Sono due statistiche che ci aiutano a percepire come la pandemia – e i suoi risvolti economici, sociali e politici – sia stato un accadimento percepito da tutti, o meglio da tutto l’Occidente per come lo conosciamo. Anche i cosiddetti “negazionisti” – termine fuorviante (la Shoah come il coronavirus?) per definire chi nega l’esistenza di covid-19 e la sua pericolosità – sono tali proprio perché il covid-19 esiste, ci conviviamo quotidianamente e rimarrà sui libri di Storia.

Insomma, con oltre sessantamila morti e un radicale cambiamento delle nostre vite, nessuno può dirsi estraneo a ciò che sta succedendo. E allora perché prendersi il rischio di riempire le strade, le piazze e i negozi per i regali di Natale? La risposta apri tutto, avvii il cashback e poi cosa pretendi? forse non basta. In gioco c’è qualcosa di più su cui è bene riflettere.

Il Natale purtroppo è da anni un accadimento consumista. I regali sono la nostra risposta all’iperstimolazione mediatica della pubblicità, al clima natalizio che fra luminarie e babbi natale scandisce il countdown al 25 dicembre, alle offerte e agli sconti, alla necessità (chissà quanto davvero necessaria) di regalare qualcosa ad amici, parenti e conoscenti – come se regalare un oggetto a qualcuno e non la vicinanza e l’empatia fossero ciò di cui abbiamo bisogno per mantenere saldi i nostri rapporti sociali.

La dimensione spirituale del Natale esiste ancora ma, è inutile negarlo, è minoritaria rispetto al resto. Questa minoritarietà rientra in quella presa d’atto dell’essere minoranza del mondo cristiano, come ha detto Papa Francesco alla curia romana circa un anno fa e come dimostra la realtà di tutti i giorni, in cui quella differenza cristiana – per prendere in prestito il titolo di un bel libro di Enzo Bianchi di qualche anno fa – semplicemente non si vede.

È questo il contesto spirituale nel quale abbiamo assistito all’invasione in nome del consumo. È da qui che dobbiamo ripartire per chiederci cosa vale veramente oggi. La vita umana – messa in pericolo da comportamenti sconsiderati come quelli dello scorso finesettimana – o l’acquisto? L’assembramento o il discernimento in una realtà pandemica lontana dal concludersi?

Viene difficile, e forse avventato, dare una risposta a queste due domande, che non hanno alcuna volontà di colpevolizzare, semmai di comprendere. Siamo ancora nel bel mezzo della tempesta pandemica e infodemica (ogni giorno leggiamo o ascoltiamo di tutto), non sappiamo quando finirà e soprattutto non sappiamo come ne usciremo. Definire irresponsabili i comportamenti di chi sabato e domenica ha voluto prendere una boccata d’aria approfittandone per fare compere è giusto, ma forse non è tutto. E comunque bando ad ogni pauperismo: fare un regalo non è come commettere un omicidio.

Proviamo però ad inquadrare la faccenda da un punto di vista diverso, e quindi con una domanda differente: che valore ha oggi il consumo? Comprare l’ennesimo paio di scarpe, l’ultimo smartphone o una delle tante chincaglierie che entrano a sproposito nelle nostre case (perché a volte non si sa proprio cosa regalare e allora un oggetto vacuo-ma-carino è quello che fa per noi) significa solo comprare e la soddisfazione che ne deriva? O qualcosa di più?

Se consumare sfida il valore della vita, allora c’è qualche cosa di più di una soddisfazione momentanea ed effimera nell’acquisto. C’è un significato. E se è vero, giocando con le parole, che per un regalo si dice che basta il pensiero, allora è lecito domandarsi: qual è questo pensiero? Qualche giorno fa il premier Conte ha raccomandato, forse con un po’ troppo paternalismo, di trascorrere un Natale sobrio, scatenando così un’estenuante tiritera sui social network, indignati perché lui come si permette, non è mica il nostro buon padre. È vero, ma la sobrietà è un valore. E non riguarda solo gli acquisti natalizi, ma anche i nostri rapporti con l’Altro, sia esso il/la proprio/a partner o un amico/a, il nostro stile di vita, l’utilizzo moderato delle risorse del pianeta per non peggiorare una situazione che è già tragica dopo decenni di sfruttamento eccessivo.

Sobrietà. Cioè un Natale più sobrio. Forse dovremmo ripartire da qui per capire cosa vogliamo essere (cittadini o consumatori? Esseri umani o clienti sempre e comunque?). Forse dovremmo pensare in modo diverso e magari chiederci perché cadiamo nel loop senza un senso appagante del desiderio infinito, del bisogno autoindotto, del consumo sfrenato che non ci fa essere cittadini e uomini, ma consumatori. In ballo c’è quella dignità dell’accontentarsi di cui ci parlò Padre Bernardino Prella in un’intervista su Eppen un anno fa. Polli da batteria che beccano il mangime quando la luce si accende, questo vogliamo essere? O c’è un’alternativa? Buon Natale (sobrio) a tutti.

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