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La libertà di scelta, la nuova dignità del lavoro per i giovani

Articolo. Le nuove generazioni – Millennial e Gen Z – stanno disegnando una propria concezione del lavoro. Non si tratta più solo di stipendio o carriera lineare, ma di flessibilità, benessere e allineamento con i propri valori

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«M io padre misurava la dignità nel sudore della fronte. Io la misuro nella libertà di scegliere». Questa frase, scritta da Annie Ernaux nel 1983, sembra oggi più attuale che mai. Quarant’anni fa, l’autrice francese coglieva un cambiamento epocale nel rapporto tra individuo e lavoro, anticipando un sentire che oggi è diventato centrale nelle nuove generazioni.

Si sta ampliando sempre di più il divario tra le culture del lavoro di padri e figli. Un fenomeno da studiare con attenzione perché riflette non solo l’evoluzione del mercato del lavoro, ma anche le trasformazioni sociali, economiche e persino psicologiche che stanno ridisegnando il nostro futuro. Eppure, invece di analizzare questo cambiamento in modo costruttivo, il dibattito pubblico – spesso dominato dalle voci delle generazioni più anziane – scivola nello stereotipo, riducendo le esigenze dei giovani a semplici “capricci” o “mancanza di volontà”. Quando, in realtà, si tratta di un vero e proprio cambio di paradigma: nuove priorità, nuove aspettative e, soprattutto, una diversa concezione del rapporto tra vita e professione.

Le nuove generazioni – Millennial e Gen Z – stanno disegnando una propria concezione del lavoro. Non si tratta più solo di stipendio o carriera lineare, ma di flessibilità, benessere e allineamento con i propri valori. Smart working e orari flessibili sono ormai requisiti fondamentali. Secondo l’Osservatorio Smart Working del Politecnico di Milano, il 58% dei giovani under 35 in Italia preferisce aziende che offrono queste possibilità. Il cosiddetto «Work-life balance» è considerato molto più rilevante di sacrifici e carrierismo. Una ricerca Randstad rivela che per il 67% dei giovani italiani l’equilibrio tra vita privata e professionale conta più dello stipendio. In crescita anche la ricerca di un lavoro con un impatto sociale positivo. Sempre più giovani rifiutano offerte da aziende non sostenibili, dimostrando che etica e ambiente pesano nelle scelte professionali.

Questi cambiamenti non nascono dal nulla: sono la risposta a un mondo del lavoro precario, alla crisi climatica e a una maggiore consapevolezza dell’importanza del benessere psicofisico. Purtroppo, invece di cogliere queste trasformazioni, molti media e opinionisti continuano a proporre narrazioni moraleggianti e superficiali. Ecco i tre luoghi comuni più ricorrenti (e mistificanti).

  • « I giovani non vogliono lavorare ». Non è pigrizia, ma rifiuto di modelli tossici. LinkedIn riporta che il 62% dei giovani italiani è disposto a impegnarsi duramente, purché il lavoro abbia un orizzonte di senso.
  • « Ai miei tempi si facevano sacrifici ! » . Oggi il mercato del lavoro offre stipendi bassi, precarietà e costi della vita insostenibili. Pretendere flessibilità o rispetto non è un “capriccio”, ma una necessità.
  • « Siete viziati dalla tecnologia » . La digitalizzazione non è “comodità”, ma un adattamento inevitabile. Lo smart working e gli strumenti digitali migliorano produttività e qualità della vita: ignorarlo significa rimanere ancorati al passato.

Inoltre si sente spesso dire che i giovani «vogliono essere precari», mentre in realtà quello che chiedono è flessibilità senza precarietà. In modo da poter costruire un progetto di vita che offra fin da subito un certo spazio di autodeterminazione, senza rimandarlo ad un imprecisato momento futuro che dovrebbe far seguito a una stagione di duro lavoro e sacrificio.

In questa situazione vi sono due aspetti importanti da tenere in considerazione. Il primo è il crescente divario nel dialogo intergenerazionale sul lavoro. I toni sprezzanti e accusatori con cui spesso si parla dei giovani non stanno alimentando un semplice “conflitto generazionale” – edipico o politico che sia – come avveniva in passato. Il conflitto presuppone comunque un confronto, seppur acceso, con l’altro. È una forma di relazione. Qui, invece, assistiamo a un vero e proprio disallineamento, un distacco sempre più marcato tra chi difende modelli tradizionali e chi li rifiuta.

Il secondo aspetto riguarda queste rivendicazioni sul lavoro che, pur non assumendo ancora una forma sindacale classica, ne hanno tutta la sostanza. Oggi queste richieste – flessibilità, benessere, sostenibilità –vengono avanzate individualmente, perché anni di precarietà e frammentazione hanno indebolito la percezione di qualunque dimensione collettiva del lavoro. Ma la storia insegna che, prima o poi, le esigenze condivise trovano una voce organizzata. E quando accadrà, potrebbe rivelarsi uno dei più importanti vettori di progresso sociale e politico. In altre parole: ciò che oggi appare solo come una serie di scelte personali potrebbe presto trasformarsi in una spinta collettiva per un lavoro più umano e giusto per tutti.

Il problema non sono i giovani «che non vogliono lavorare», ma un sistema che fatica a evolversi. Smontare questi stereotipi è il primo passo per un mercato del lavoro più equo e moderno. Perché l’obiettivo del progresso è sempre lo stesso che indicava un grande pensatore tedesco dell’ottocento: una società in cui il lavoro non sia soltanto un mezzo di vita, ma anche il primo bisogno della vita.