Tra le immagini del Natale ce n’è una che attraversa secoli e luoghi: il mondo, per una sola notte, sembra concedere una lieve deroga al suo ordine abituale. È un’idea antica, nata dall’incrocio tra i riti d’inverno, il teatro sacro medievale e la memoria cristiana della Natività. È la notte di Natale, tempo liminale nel senso che Arnold van Gennep, lo studioso che teorizzò i riti di passaggio, avrebbe riconosciuto come fase intermedia: dodici giorni tra Natività ed Epifania, in cui l’inverno è assoluto e, insieme, già scavalcato da un principio di rinascita. È la stagione dei prodigi minimi: acqua che cambia sapore, alberi che fioriscono sotto gelo, animali che, una sola notte, possono parlare. Così il bue e l’asino acquistano voce in molte tradizioni e in diverse fonti che narrano o interpretano la Natività.
Per capirlo bisogna tornare al punto in cui tutto si concentra: una stalla, una mangiatoia, un evento sacro che prende forma in un luogo umano; dove una parte delle fonti nasce dalla liturgia e dalla narrazione cristiana, e l’altra germoglia da riti e credenze legate alla terra, all’inverno, al ciclo della natura. Nella tradizione cristiana, il bue e l’asino non provengono dai Vangeli canonici, ma dagli apocrifi più antichi – Protovangelo di Giacomo, Pseudo-Matteo – dove compaiono come presenze che scaldano il Bambino e lo riconoscono. L’iconografia accoglie subito questo dettaglio: nei sarcofagi tardo-antichi del IV secolo essi sono già accanto alla mangiatoia, e Giotto, nella Cappella degli Scrovegni, li pone così vicini alla scena da trasformarli in testimoni.
La tradizione successiva non fa che amplificare questa intuizione. In molte aree alpine, nelle pianure del Nord Italia, nelle coste adriatiche e fino alla Bretagna, si narra che nella notte di Natale gli animali acquisiscano parola. Non predicano, non profetizzano: constatano. Qualcosa è accaduto. Il tempo ha fatto un passo di lato. Alessandro D’Ancona, filologo e storico della letteratura, riporta, nella sua raccolta di testi di «Sacre Rappresentazioni», un breve passo attribuito a un manoscritto quattrocentesco della cerchia dei Disciplinati di Perugia, in cui il bue e l’asino non parlano con voce umana, ma risultano partecipi dell’annuncio:
«Et ’l Bue inchina ’l capo verso ’l Fanciull,
e l’Asen pian move, presso alla greppia;
non con parola d’huomo
— e pur parve detto, come chi annunzia l’evento»
Non parlano, ma è come se lo facessero: ai due animali è attribuito un linguaggio umano, sospeso tra silenzio e annuncio. La parola non suona, ma affiora nel gesto, come una frase interiore. Tra Seicento e Settecento, nelle descrizioni delle veglie di Natale dell’Europa centro-orientale si registra la convinzione che alla mezzanotte del 24 dicembre «anche gli animali parlino con voce umana». Alcune raccolte moderne di tradizioni europee segnalano che, fin dal XVIII secolo, in varie regioni dell’alto Adige, dell’Est Europa, dei Paesi nordici e delle zone montane, si soleva dire che «a Natale le bestie parlano». Non si tratta di fonti nobili, ma di testimonianze popolari trasmesse oralmente, raccolte in epoca moderna come memoria di usanze rurali e di una fede domestica e semplice.
Nel XIX secolo il tema riemerge come nostalgia laica. Thomas Hardy, in «The Oxen» (1915), scrive:
«If, on Christmas Eve, someone were to say: “Come; hear the ox speak”,
…I would follow him into the dark, hoping it were true»
«Se alla Vigilia di Natale qualcuno dicesse: “Vieni; ascolta il bue che parla”, …io lo seguirei nel buio, sperando che fosse vero»
Nel Novecento la scrittrice svedese Selma Lagerlöf, nel suo libro «La notte di Natale. Leggende di Gesù», raccolta di leggende e tradizioni popolari sulla Natività, assegna agli animali il primato della comprensione sulla parola: «Chi ha quattro zampe, sa prima». A questa linea appartiene la carola «The Friendly Beasts», testo di una carola inglese ottocentesca che si rifà a testi inglesi del Cinquecento, che mette in bocca agli animali frasi brevi ma che comunicano affetto:
«I, said the donkey, I carried His Mother»
«I, said the cow, I gave Him my manger»
«Io - disse l’asino - portai Sua Madre»
«Io - disse il bue - gli diedi la mia mangiatoia»
«Il bue conosce il padrone, l’asino la mangiatoia del suo Signore» (Is 1,3). Il profeta Isaia non attribuisce voce agli animali, attribuisce discernimento: la capacità di cogliere ciò che accade prima che la lingua lo traduca, un sapere anteriore che anticipa la parola. Si comprende così perché la tradizione degli animali parlanti nella notte di Natale non svanisce: il Natale, soglia di passaggio tra un mondo che finisce e uno che nasce, invita a anteporre alla parola la comprensione. E se gli animali parlano, è perché hanno compreso per primi.
