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#bestof2021: Quello che ho imparato su Bergamo e sui bergamaschi (e su di me grazie a Bergamo)

Racconto. Oggi vi racconto tutto ciò che ho appreso dopo tre anni di permanenza come studentessa fuorisede, sulla città e i suoi abitanti. Una ricerca etnografica semi-seria condotta da una sociologa calabrese con l’intento di ribaltare un’incontrovertibile verità: nessun posto è bello come casa propria.

Lettura 6 min.

È iniziato tutto con una menzogna. Mi ostinavo a chiamare casa quella che in realtà era solo la stanza di una residenza in via Garibaldi, 3/F. Precisamente la numero 303.
Il tre è sempre stato il mio numero. Mi perseguita negli appuntamenti importanti e lo ritrovo, suo malgrado, nei ricordi felici e nelle circostanze più impensabili. Non so se chiamarla fortuna, casualità o coincidenza, ma allora mi sembrò un presagio rassicurante, tanto per cominciare.

Arrivai a Bergamo in una sera di ottobre, con una valigia grande che avevo ereditato da mia madre. Disse che dovevo averne cura, era il bagaglio delle grandi occasioni . Ero piuttosto confusa da quella affermazione, poi mi spiegò che si trattava della valigia che utilizzava quando andava in ospedale a partorire.
Insomma, vi lascio immaginare che impatto ha avuto la mia partenza su una donna per la quale l’unico viaggio concesso era quello che la conduceva in sala parto, per dare alla luce un figlio (per la precisione tre, manco a farlo apposta). E non lo definirei certamente un viaggio di piacere.

Erano le 9 di sera. Dal diritto allo studio mi avevano assicurato che mi avrebbero fatto trovare qualcuno ad accogliermi, nonostante avessi ampiamente sforato l’orario di apertura della portineria. Eppure, di presenze umane nemmeno l’ombra. Suonavo il citofono all’esterno, chiamavo i numeri della segreteria, senza ottenere risposta. Ero in panico, stavo per mettermi a piangere, mi rimprovero di essermi catapultata in una nuova città, senza aver ponderato bene i rischi.
Ma proprio quando le speranze sembravano perdute, la porta principale si aprì e comparvero due ragazze, Federica e Agnese , le uniche per le quali non utilizzerò nomi di fantasia. Devo ancora mantenere la mia reputazione al Nord e soprattutto devo preservare i pochi amici che mi sono rimasti, probabilmente perché sono gli unici a non essersi accorti che ho sempre parlato male di loro nei precedenti articoli.

Erano siciliane, lo colsi subito dall’inequivocabile accento. Mi accolsero molto calorosamente, soprattutto mi aiutarono a capire come recuperare il badge e la chiave che mi avrebbero consentito di entrare nella mia famosa camera. Notavo dall’aspetto che sicuramente erano più giovani di me, eppure si muovevano con disinvoltura, si sentivano a loro agio, come se quella fosse davvero casa loro. Ma paradossalmente quell’atmosfera, più che rassicurarmi, aumentava le mie insicurezze: mi sentivo sola, ora che quel portone si era finalmente chiuso alle mie spalle, in una città che mi sembrava già troppo fredda perché fossero i principi di ottobre .

In me tre (come al solito) appigli ai quali mi aggrappavo disperatamente : una valigia carica di speranze, una stanza singola con bagno privato (un dettaglio da non sottovalutare), il mio senso dell’umorismo.

Il mattino seguente fui convocata dal portinaio per regolarizzare il mio ingresso nella struttura. Mi chiese: - Sei tu Carmela? - E io gli risposi seria: - Sì, ma non lo dica in giro . - La sua espressione era perplessa, quasi accigliata, così mi convinsi che forse era il caso di mettere da parte il mio sarcasmo criptico, almeno per il momento. Avevo ben chiara una lezione di psicologia che avevo interiorizzato fin dal primo giorno di scuola delle superiori: sradicare l’effetto della prima impressione è quasi più difficile che estirpare un pregiudizio .

Tutto il mondo è paese?

Col senno di poi mi rendo conto che quella fu la mia prima conversazione con un abitante del posto . Quella cadenza, così dissimile dalla mia, mi trasmetteva una sensazione di sicurezza, tranquillità sua che si scontrava con la mia ansia da prestazione e con la paura di fare una brutta figura . Gli spiegai che stavo scherzando, ma neanche più di tanto. Il segreto che doveva mantenere si riferiva al mio nome. Che sì, all’anagrafe mi chiamavo Carmela ma che odiavo quell’appellativo perché oltre a tradire le mie origini del Sud si fondava su un’ennesima menzogna. Quando sono nata, i miei genitori decisero che avrei portato il nome di mia nonna che non ho mai conosciuto. Con la stessa diplomazia convennero che quel nome portava il peso di un’antichità che non si addiceva ad una bambina, troppo anacronistico. Meglio optare per un più moderno diminutivo: Carmen .

Si tratta di una pratica innocente e abbastanza comune dalle mie parti, ovvero quella di storpiare i nomi di battesimo e che però a Bergamo era diventata una questione spinosa, un segreto a mia insaputa. Ogni qual volta i miei amici del Nord sbirciavano distrattamente sui miei documenti e ne scoprivano il nome, rimanevano quasi sconcertati, si sentivano traditi da questa verità rivelata. Quando raccontavo loro la storia descritta poc’anzi, provavo un certo imbarazzo per quello che sembrava a tutti gli effetti un retaggio culturale. E loro, che coglievano il mio disagio, iniziavano a chiamarmi col mio “vero” nome oppure a storpiarlo con variazioni che mi hanno sempre terrorizzata da bambina : “ Carmelina ”, “ Mela ” “ Lina ” e poi il peggiore di tutti: “ Carminuzza ”.

Nei primi giorni prevalse l’istinto di sopravvivenza . Andavo all’università, seguivo con rinnovato interesse le lezioni, pranzavo mangiando cose a caso e la sera tornavo in quella che pur non essendo dal punto di vista formale una casa, aveva tutta una serie di riti che le conferivano le caratteristiche per diventarlo, a livello pratico. C’era e c’è ancora, questo rituale della cena servita alle 19.30 anche d’estate (perché al Nord si mangia presto) nella mensa che, lasciando immaginare un retroscena nel quale ci sono persone che ogni giorno ti preparano un piatto caldo, ti fa sentire che c’è qualcuno che si sta occupando di te e almeno dal punto di vista sostanziale ti restituisce una parvenza di quella casa lontana. Poi assaggi e ti ricordi l’unico motivo che ti fa venire voglia di tornare: il cibo .

Si cena tutti insieme e divisi in gruppi che col tempo si trasformano in vere e proprie famiglie . C’è il tavolo degli studenti Erasmus, ci sono “quelli di giù” e poi ci sono i gruppi misti. Io però mangiavo da sola . Inizialmente mi sentivo fuori posto. La prima sera presa dall’agitazione, mentre prendevo il vassoio che conteneva i piatti, mi cadde tutto il cibo per terra. Mi sentii mortificata, soprattutto perché la cassiera che mi serviva il cibo, palesava un certo fastidio piuttosto che mostrami comprensione e giusto per confermare l’importanza del fattore “prima impressione”: nonostante abbia cercato per i due anni successivi di riscattarmi da quello spiacevole incidente (almeno dal suo punto di vista), ogni volta che arrivava il momento in cui mi porgeva le pietanze, mi guardava con una certa tensione, facendo crescere la mia ansia e terminando ogni conversazione con un proverbiale: “ Stai attenta, altrimenti finisce come quella volta che...

Penso che sia una delle poche persone veramente originarie di Bergamo che ho conosciuto e anche se aspetto ancora la mia redenzione, le sono grata per avermi implicitamente permesso di cogliere una prerogativa fondamentale sugli autoctoni: i bergamaschi perdonano…ma non dimenticano!

Moglie, buoi e i paesi degli altri…

Il mio ingresso in famiglia avvenne già durante la prima settimana . Scelsi il gruppo misto o loro scelsero per me, devo ancora chiarirlo. Le prime volte entravo in quella sala mensa che mi sembrava enorme, sceglievo un posto a lato, frettolosamente consumavo il mio cibo e poi mi richiudevo in camera.
Finché una sera, una ragazza che probabilmente aveva notato le mie cene in solitaria mi chiese: - Mangi con noi? - Ma non fu subito amicizia, dentro mi sentivo ancora un “ homo homini lupus ”.

Il mattino seguente avvenne un fatto strano. Ero appena scesa dall’autobus che mi portava in università e come me, anche la ragazza che mi aveva invitata la sera prima. Non mi ero accorta della sua presenza, si azzardò a salutarmi e a chiedermi se stessi bene e se fossi riuscita ad ambientarmi. Era un puro e semplice atto di gentilezza che mi colse alla sprovvista , in fondo per lei ero solo un’estranea.
Lo raccontai subito ad una mia amica “di giù”: - Oh, ma lo sai che a Bergamo sono proprio gentili? Ti chiedono anche come stai! -

Il mio gruppo era composto da ragazzi che abitavano nella provincia, c’erano alcuni siciliani, un ragazzo ivoriano e poi c’ero io, modestamente la più simpatica.

Bergamo mi ha insegnato a limare la mia diffidenza e che col tempo potevo addirittura essere io accogliente coi nuovi arrivati, come lo erano stati gli altri con me . Che si può essere anche altruisti, senza aspettarsi niente in cambio , che la polenta è buona ma i pizzoccheri con le patate sono un po’ pesanti, soprattutto se li mangi di sera. Che il caffè senza latte si dice “liscio” e che la maggior parte dei bergamaschi immagina la Calabria come una terra di sole e di mare in cui si coltivano peperoncini piccantissimi dai quali si ricava la ‘nduja e si mangia la cipolla di Tropea.
Perciò quando spiego che sono una calabrese atipica che abita in montagna, odia l’estate e oltretutto detesta il mare e non mangia piccante, mi guardano sempre con un misto di stupore e dispiacere.

A Bergamo non ho trovato l’amore, come chiedono e sperano in molti ma ho trovato la mia definizione di casa.
Perché è vero che i pregiudizi semplificano l’esistenza, ma sono gli imprevisti a regalare le soddisfazioni migliori : la cena ivoriana organizzata a sorpresa dal mio amico Jonathan, la neve a dicembre, la prima volta in cui ho visto l’albero di Natale in centro, i compleanni e le feste in residenza, i regali inaspettati, i pianti di disperazione, le notti insonni, le crepes preparate a mezzanotte, gli amici che ti vengono a prendere in aeroporto e tutte le volte in cui mi sono concessa di perdere il controllo perché mi sentivo al sicuro anche se non ero in una vera casa, perché mi sono circondata della famiglia che ho scelto.

Scorrono i titoli di coda e se dovessi scegliere una colonna sonora per questa sceneggiatura, non avrei alcun dubbio, sarebbe “Bergamo” dei Pinguini Tattici Nucleari che sicuramente più poeticamente di me canterebbero: “ …ecco cosa intendo, quando ti dico che sei bella come casa mia…

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