93FE310D-CB37-4670-9E7A-E60EDBE81DAD Created with sketchtool.
< Home

Sul caso di Brescia e dei maltrattamenti come «fatto culturale». Tutela dei diritti di una minoranza o discriminazione di genere?

Articolo. Nei giorni scorsi, a Brescia, il Pubblico Ministero (PM) ha chiesto l’assoluzione per un uomo bangladese, denunciato per maltrattamenti dalla moglie, sostenendo che il suo comportamento sia stato dettato dalla sua cultura di appartenenza e non dalla sua volontà. In questo articolo, ci chiediamo quale sia la relazione tra reati culturalmente orientati e questioni di genere. Come integrare le recenti chiavi di lettura dei fenomeni di violenza contro le donne con i principi di tutela delle minoranze etniche e culturali? Come tutelare le vittime di violenza?

Lettura 6 min.

Recentemente è stato chiesto dal PM del tribunale di Brescia un’assoluzione per un imputato nato e cresciuto in Bangladesh, denunciato dalla moglie anche lei bangladese per maltrattamenti. Il PM ha chiesto in prima battuta l’archiviazione del procedimento in fase di indagini, che il GIP non ha accolto ordinando l’imputazione coatta. Poi nel processo il PM ha concluso la sua requisitoria chiedendo l’assoluzione dell’uomo con l’argomentazione che il reato in oggetto fosse un reato culturalmente orientato. Ha quindi sostenuto che: «i contegni di compressione delle libertà morali e materiali della parte offesa da parte dell’odierno imputato sono il frutto dell’impianto culturale e non della sua coscienza e volontà di annichilire e svilire la coniuge per conseguire la supremazia sulla medesima, atteso che la disparità tra l’uomo e la donna è un portato della sua cultura che la medesima parte offesa aveva persino accettato in origine».

I reati culturalmente orientati sono intesi come quei reati commessi da membri di gruppi etnico-culturali di minoranza nel rispetto delle proprie regole culturali di origine. Come spiega Massimiliano Bartolini nella sua tesi di dottorato sul tema, l’argomento si inquadra nella tematica di più ampio respiro concernente i rapporti tra il diritto penale e il multiculturalismo. L’idea che sta alla base di questo inquadramento nasce dal sociologo statunitense Thorsten Sellin, che nel 1938 elaborò la teoria dei conflitti culturali. Questa teoria spiegava che in un sistema sociale moderno e disomogeneo (complesso), norme di condotta di diversi gruppi con matrici culturali differenti potevano entrare in conflitto. Infatti, secondo lo studioso, la persona che arrivava in un sistema sociale nuovo poteva sperimentare incertezza interna tra i codici della sua cultura d’origine e quelli della nuova società ed essere soggetto quindi ad una sorta di indebolimento dei meccanismi individuali di autocontrollo della condotta. Ciò, di conseguenza, secondo Sellin, facilitava la devianza e la delinquenza del soggetto.

Per approfondire il tema vi rimando alla lettura della tesi di Bartolini, dove traggo anche la definizione di reato culturalmente motivato da Jeroen Van Broek, definizione a cui la dottrina generale fa riferimento: «un comportamento realizzato da un soggetto appartenente a un gruppo culturale di minoranza, che è considerato reato dall’ordinamento giuridico del gruppo culturale di maggioranza. Questo stesso comportamento, tuttavia, all’interno del gruppo culturale del soggetto agente è condonato, o accettato come comportamento normale, o approvato, o addirittura è incoraggiato o imposto».

Alla luce di questa piccola introduzione, la lettura della proposta del PM di Brescia di assolvere l’imputato ci pone davanti a una vera e propria controversia: vale di più il principio di tutela della cultura dell’offender (colui che ha commesso la violenza) o il principio di tutela della survivor (colei che l’ha subita), che è quasi sempre una donna?

Posto che io non mi occupo di diritto penale, e quindi la mia riflessione non è tecnico-giuridica, a mio parere ci sono due elementi da valutare per derimere la questione. Il primo è riconsiderare il concetto di cultura e slegarlo da quello di violenza. Soprattutto smettere pensare che la violenza di genere sia il tratto distintivo di culture specifiche. Dobbiamo cominciare ad ammettere che la violenza contro le donne sia un fenomeno trans-nazionale e trans-culturale diffuso e legato al gradiente di patriarcato di cui una cultura è intrisa. Non per niente la Convenzione di Istanbul del 2011 sulla prevenzione e la lotta alla violenza contro le donne e alla violenza domestica è una convenzione trans-nazionale.

Tra l’altro, l’Italia è un paese che ha firmato la convenzione e quindi vi partecipa con una serie di obblighi nei confronti delle vittime che la sentenza di Brescia non sembra rispettare. La violenza di genere è piuttosto una degenerazione patologica della cultura intesa come insieme di pratiche, modi di vivere e di pensare. Una degenerazione che attraversa indistintamente da sempre tutte le culture, partendo dal fatto ormai ampiamente riconosciuto che la metà maschile dell’umanità ha dominato storicamente quella femminile spesso attraverso il controllo e la violenza.

Virginia Woolf scriveva in « Una stanza tutta per sé »: «La vita per entrambi i sessi […] è ardua, difficile, una lotta incessante. Richiede forza e coraggio giganteschi. Più di ogni altra cosa, forse, creature dell’illusione quali siamo, richiede fiducia in se stessi. Senza fiducia in noi stessi siamo come neonati nella culla. E come possiamo generare questa qualità imponderabile, e tuttavia così preziosa, nel modo più veloce? Pensando che altre persone siano a noi inferiori». Le letterature femministe hanno messo in luce ormai da più di 150 anni come il genere maschile nelle forme delle società patriarcali abbia costruito la sua supremazia creando questo mito di inferiorità delle donne e sottomettendole attraverso il controllo dei loro corpi, la negazione dei loro i diritti e la mobilitazione di un modo di pensare sessista. Come spiegato magistralmente nel saggio di bell hooks «Il femminismo è per tutti. Una politica appassionata» tradotto da Maria Nadotti, che vi consiglio.

Tornando al nostro discorso, il secondo aspetto per valutare la controversia consiste nel guardare nello specifico della sostanza di questi reati culturalmente orientati. Bartolini mette in luce come il giurista Fabio Basile – Professore ordinario di Diritto Penale nell’Università degli Studi di Milano – abbia raccolto questi reati in varie categorie delittuose, sottolineando come la tipologia dei reati culturalmente motivati sia tendenzialmente a numero chiuso. Come argomenta Bartolini, questi reati sono ricollegabili quasi esclusivamente alle relazioni familiari ed interpersonali, alle concezioni in materia di onore e ai comportamenti nella sfera sessuale riproduttiva. Tutti temi che sono al centro degli studi sulla discriminazione contro le donne.

Eppure, nell’inquadramento del caso di Brescia, come molti altri casi, sotto la categoria dei reati culturalmente orientati, la lettura di genere è totalmente assente. Cioè tutti quei reati che vengono considerati da letteratura il corpo della violazione dei diritti umani delle donne, perdono il loro peso specifico di gravità e vengono condonati in nome della tutela delle culture minoritarie. La controversia si risolve con un apparente maggior considerazione del principio di tutela culturale della minoranza, rispetto ai diritti della minoranza di quella stessa minoranza.

Per concludere unendo questi due aspetti, il paradosso che emerge, a mio parere, è che tutelando la minoranza culturale di un gruppo, in realtà si sta proteggendo la maggioranza al potere. Ovvero si legittima in modo trans-culturale la supremazia violenta del genere maschile su quello femminile. Quello che accade è infatti che, l’atto discriminatorio compiuto dall’offender appartenente a una minoranza etnico-culturale non è affatto un atto culturalmente minoritario.

Non lo è in un paese dove c’è un femminicidio ogni tre giorni.
Non lo è lì, dove gli omicidi avvengono per mano di familiari, partner o ex partner.
Non lo è, in un paese dove una donna su tre subisce violenza.
Non lo è, in un paese che ha abolito il delitto d’onore solo nel 1981.
Non lo è, in un paese dove dei ragazzi si organizzano per commettere una violenza di gruppo a danno di una coetanea e il commento pubblico del compagno della Premier in carica, Andrea Giambruno è: «Se eviti di ubriacarti e di perdere i sensi, magari eviti anche di incorrere in determinate problematiche perché poi il lupo lo trovi».

Il meccanismo retorico alla base del principio dell’inquadramento del caso di Brescia, come un reato culturalmente orientato, funziona bene nei nostri tribunali, non perché sia un provvedimento che promuove l’integrazione delle minoranze, ma perché risuona con la cultura maschilista, sessista e patriarcale del nostro paese. Se osservate con attenzione il commento di Giambruno e quello dell’argomentazione del PM di Brescia si assomigliano. Quando infatti il PM specifica che «la disparità tra l’uomo e la donna è un portato della sua cultura che la medesima parte offesa aveva persino accettato in origine», accusa la parte lesa di aver accettato di far parte di un sistema iniquo. In quel «persino» c’è tutto.

L’argomentazione non critica l’abuso in sé, legittimo se appartenente a un’altra cultura, ma la vittima che si è prestata all’abuso, perché avrebbe dovuto sapere prima che sarebbe andata a finire così. Esattamente come Giambruno incolpa la ragazza di Palermo di non aver messo in atto i comportamenti adeguati ad evitare lo stupro, cioè di averlo in qualche modo “attirato”. Quindi lo stupro, l’abuso, la violenza sessuale sono considerati in questo sistema di valori trans-culturale “cose che succedono”, cose naturali, inevitabili perché “il lupo lo incontri sempre”. In questa linea retorica, la responsabilità non mai è dell’offender, che preso da dilemmi culturali, raptus, momento di follia, accecamento da gelosia e troppo amore, commette del tutto involontariamente atti di abuso. La responsabilità è tutta di chi l’abuso lo subisce. Si può dire cornute e mazziate? Ecco l’ho detto.

Concludo dicendo che, come sottolinea la professoressa Vera Lomazzi, sociologa dell’Università di Bergamo, in un suo recente articolo, i discorsi istituzionali hanno un ruolo fondamentale nel promuovere relazioni di genere egualitarie e nel riconoscere i diritti umani delle donne. Pertanto, politiche, regolamenti e leggi dovrebbero aggiornarsi e integrare nella loro visione strumenti e sapere legati alla prospettiva di genere. Se, come dice Lomazzi, i valori morali della società e il consenso del gruppo sono potenti motori per rafforzare la legittimazione della condotta violenta, spero che questo mio contributo serva a ribadire che una grossa fetta della società civile non ritiene più accettabile certe letture semplificatorie, arcaiche e strumentali di casi di violenza contro le donne. Ci auguriamo pertanto che la sentenza del tribunale di Brescia, prevista per ottobre 2023, non accolga l’argomentazione del PM, evitando così l’ennesimo caso di vittimizzazione secondaria.

Approfondimenti