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Vivere con gli acufeni, nell’azzurrità

Racconto. Un racconto su come alzarsi ogni mattina con un disturbo uditivo importante e cercare di dare ad esso un senso. Accorgendosi che a guardare bene tutto è azzurro

Lettura 8 min.

In fondo avrei dovuto accorgermene. Invece uscivo dall’aula con un misto di scetticismo e vergogna, dopo i listening. Quelle lezioni di ascolto alle medie e alle superiori, con le cuffie e le postazioni separate una dall’altra, avete presente? Io non le capivo mai. Eppure l’inglese lo sapevo sia parlare che scrivere: ascoltarlo però mi sembrava come sintonizzarsi su una radio araba, capirci nulla e alla fine sentirsi un cretino.

Ho sempre avuto un approccio di accettazione rispetto alle cose e a come si verificano. Quantomeno per ciò che riguarda il mio corpo. Una specie di palazzo bombardato che quando lo guardi, pensi: sta per crollare tutto. Le frantumazioni a terra, le fenditure del soffitto. Quella sensazione di precarietà che ti danno gli edifici vecchi. Le crepe.

A proposito, avrà anche ragione Leonard Cohen quando in “Anthem” canta “there is a crack in everything / that’s how the light gets in”, “c’è una crepa in ogni cosa / è così che entra la luce”. Ma se la crepa ogni volta che c’è uno la vede benissimo, la luce devi imparare a coglierla e a non farti abbagliare. Io di abbagli ne capisco, perché sono fotosensibile e lo sono ancora più con l’emicrania. Da un bel po’ di anni una compagnia tutt’altro che saltuaria.

Non so precisamente da quanto sono emicranico, forse dall’adolescenza. Il ricordo è di lunghissimi pomeriggi e serate passati sugli appunti di biologia. La cellula, i minerali, quelle cose che tieni a memoria solo se le ami veramente la materia. Altrimenti studio, interrogazione e formattazione.

L’emicrania non l’ho mai sconfitta, ma poco più di un anno fa ho trovato un mix di farmaci che me la fa passare nel giro di poche ore – prima il mal di testa rimaneva un giorno intero, spesso due o tre volte la settimana. Sono rimasti invece gli acufeni. Due, in entrambe le orecchie, forse presenti da sempre. Di certo in crescita d’intensità negli ultimi anni. I critici letterari direbbero un climax ascendente.

Questo fatto per cui probabilmente non ho mai provato la sensazione del silenzio assoluto mi colpisce. Ma forse a causa di qualche meccanismo di difesa più o meno inconscio, ho davvero pochi ricordi d’infanzia riguardanti i miei acufeni. Eppure loro c’erano, lo dicono gli esami clinici che ho fatto in questi anni. Prima inconsistenti. Poi, lentamente, sempre più forti.

Immaginando che ora io sia un ciclista, quel lungo falsopiano acustico che è stata la mia vita fino ad oggi a un certo punto si è fatto sentire nelle gambe. Un dolore non fisico, ma psichico. Una questione con cui fare i conti. La consapevolezza che questo falsopiano non avrà termine se non con la mia fine: ultimo battito, ultimo decimo di secondo acufenico – lì poi, ci sarà un riverbero celebrale che nessuno potrà mai sentire o tutto si troncherà di botto? Chissà.

Non ci sono cure effettive per gli acufeni. L’apparecchio acustico non funziona, anzi amplifica, perché i miei tinniti (così in latino) non vengono dalle orecchie come di frequente accade. Ma da una doppia microscopica lesione alla materia bianca del cervello. Insomma, gabole neurologiche su cui sarebbe complesso soffermarsi.

Ci sono vari tipi di acufeni, quelli che ospito io sono due soffioni continui. Sensibilmente differenti fra l’orecchio sinistro e quello destro. In gara per occupare lo spazio e attirare la mia attenzione. Giusto per farvi capire, se dovessi trovare un paragone musicale vi direi di ascoltare la prima traccia di “Black Sea” di Fennesz. Siamo da quelle parti lì, e non è l’unico riferimento musicale di questa mini fenomenologia dei miei acufeni.

Ci sono infatti anche degli acufeni guest, che si presentano di tanto in tanto: un suono digitale (simile al classico fischio all’orecchio, o a una traccia dell’Alva Noto più estremo) e una specie di landscape sonoro. Qualcosa simile a una cascatella d’acqua in un boschetto con degli uccellini che cantano, il tutto psichedelicamente distorto. A metà fra un’ipotetica colonna sonora delle “Bucoliche” di Virgilio e le canzoni più lisergiche di Syd Barrett.

A questo punto avrete capito che una situazione simile dà dei problemi. Almeno da quando il falsopiano si è fatto sentire nelle gambe. È stato un punto di rottura, un prima e un dopo puntellato da un esame audiometrico tendente alla catastrofe. Un giorno mi sono reso conto che non ci sentivo più bene. Qualche giorno dopo ho scoperto che era scientificamente vero e scientificamente un casino.

Non so se avete mai fatto un test audiometrico. Quello che ho fatto io era diviso in tre momenti. Primo test ascolto di diverse frequenze mandate nelle cuffie, suoni tipo composizione neoavanguardista molto spinta a cui rispondere alzando la mano quando sentivo il suono (andato bene, ho mancato solo le medio alte). Secondo test una sequenza di parole da ripetere (andato medio: qualcuna presa, ma risultato mediocre). Terzo test parole da ripetere con ambiente sonoro incorporato (zero parole comprese).

Lei Barachetti fa una vita difficile” è stato il fin troppo realistico responso della otorinolaringoiatra. Seguito da un candido “non c’è cura per questo tipo di problemi. Provi con gli apparecchi acustici, ma sarà difficile migliorare la situazione”. Ovvio che aveva ragione lei su tutto, meno sul tono da Generale Patton nel dire a qualcuno che la sua vita da lì in poi sarebbe stata parzialmente compromessa, senza rimedio.

Come si reagisce a tutto questo? O meglio, come ho reagito io? Semplice, non ho reagito. Pensare di contrattaccare dinanzi a una privazione importante della capacità di comprendere le persone che ti parlano in situazioni normali, con gradazioni di rumori mai sovrastanti (in un giardino, in ufficio, in un pub), è semplicemente inutile e impossibile.

Può essere una banalità dirlo, ma con gli acufeni ci devi convivere, perché tanto vinceranno sempre loro. Non è vittimismo, non mi sento una vittima, come dicevo all’inizio accolgo le cose come sono. Non dico nemmeno poteva andarmi peggio o poteva andarmi meglio. È così e basta. In qualche modo è una mia personalissima versione dell’approccio tragico alla vita del mondo greco.

Tu hai sentimenti, rapporti sociali, passioni, obblighi. Gli acufeni invece sono solamente una frequenza variabile, disturbante e senza quiete. Gli acufeni insistono. Come una tua zia che a ogni festa comandata ti chiede “Ma quando avrete un figlio?” e tu rispondi “Per ora no” e lei alla festa comandata successiva ripete “E allora, un bambino non lo fate?”, “Te l’ho già detto zia, per ora no”.

Ma cosa significa convivere con degli acufeni? Nella buona sostanza della vita di tutti i giorni in cosa consiste questa specie di gomito a gomito dove uno dei due alza spesso il braccio? Se andate a leggere la voce acufene su Wikipedia troverete alcuni passaggi che spiegano chiaramente come lo stato di isolamento causato da un acufene possa portare alla depressione. A me non è successo fino ad oggi, ma la “selva oscura” di Dante (c’è un’interpretazione psicologica di quel verso del primo canto della Commedia che indica nella selva una metafora della depressione) l’ho vista a pochi passi, so di cosa parlo.

Quando le persone si rivolgono a me, nella maggior parte dei casi faticano a capire che non sento come tutti. Del resto non lo sanno, è normale, e comunque succede anche a chi lo sa: siamo tutti molto concentrati su noi stessi, l’acufene di per sé non è visibile, nessuno ha mai stampato un libretto di istruzioni su come comportarsi e inoltre circola nell’aria questa retorica imbarazzante per cui tu, comunque, anche se hai un limite ce la devi fare. Personaggi pompati mediaticamente come Alex Zanardi o Bebe Vio non sono sempre positivi. Il sottoscritto ad esempio pensa che i propri limiti (gli acufeni sono un handicap, ho anche una percentuale di invalidità!) non vadano sempre superati ma compresi e possibilmente vissuti come una possibilità.

Attenzione, io non appartengo a quel tipo di persone che ringraziano le loro menomazioni o la loro malattia come un’occasione di scoperta di chissà cosa. Per quanto mi riguarda avrei preferito non avere nulla, evitare questo isolazionismo spesso difficoltoso e vivere una vita normale. Però non do la colpa a nessuno. È andata così.

Quindi tornando al capoverso sopra, la risposta classica ad una frase pronunciata da qualcuno che ho di fronte è “Non ho capito”. Oppure “Eh?”. Di solito l’interlocutore parla a voce più alta, magari si spazientisce (e vi assicuro che si spazientiscono in tanti) e comincia ad urlare in mezzo a tutti un po’ scocciato. In realtà non serve ingoiare un megafono per dirmi qualcosa, basta alzare di poco la voce e soprattutto parlare più piano. Non troppo (c i a o L u c a), un po’, quanto mi basta per leggere il labiale e adattarlo a ciò che ho appena percepito.

A questo punto magari qualcuno starà domandandosi come faccio con il cinema, il teatro, le conferenze e le birre con gli amici al pub. Semplice, non ci vado. Al cinema solo se ci sono i sottotitoli (quindi in Italia pochissime volte). A teatro se è uno spettacolo muto o se qualcuno alla fine me lo racconta. Mentre le conferenze le ho salutate da un bel po’ (leggo i libri, che è meglio). E al pub con gli amici non ci vado quasi mai. Perché dovete sapere che quando il rumore di fondo cresce, l’acufene non si tira indietro. E non si tira indietro nemmeno se mi sdraio prima di dormire: aumenta di volume e di solito rimane a quel livello fino all’alba – come faccio a dormire? Eh, amici, ormai sono un professionista dell’acufene, io.

Cambiando discorso, prima dalle dita è uscita la parola isolazionismo. Mi ha stupito, non ci avevo mai pensato, ma in fondo scrivo tutto questo anche per chiarirmi le idee. Perché non ho scritto isolamento? La risposta mi dà un bell’assist per raccontarvi come ho fatto i conti con gli acufeni e come ci vivo insieme ormai da qualche anno senza averci lasciato la psiche.

Dunque: per me è stato importante capire che i miei acufeni sono un disturbo psichico, me lo hanno spiegato i neurologi. Perciò è inevitabile che diventino pure una visione del mondo. Ci sono il capitalismo, il comunismo, il cattolicesimo, il musulmanesimo e via dicendo. Sono ideologie e fedi, visioni del mondo più o meno influenti sullo spirito dei tempi. L’isolazionismo da acufene è anch’esso un’ideologia. Ha dei valori (l’ascolto, la pazienza, la sopportazione etc.) ed è capace di condizionare profondamente la percezione della realtà di un individuo, ben oltre qualsiasi crinale depressivo – lo so che in un’era post-ideologica come la nostra la parola ideologia fa storcere il naso. Tuttavia è in questo che siamo immersi: orate nell’oceano che forse sanno di essere nell’acqua, o forse no (in ogni caso attenti all’amo).

Di conseguenza ho la presunzione di dire che il mio punto di vista sulla realtà è speciale. Non perché sono l’unico ad avere degli acufeni ovviamente, il punto è un altro. Quando dico che l’isolazionismo è un’ideologia e quindi una visione del mondo, non mi riferisco agli argomenti tipici di un’ideologia (l’economia, la società, le questioni etiche etc.). Intendo proprio l’influenza sulla realtà, sulle cose. Me ne sono reso conto grazie a una sorta di improvviso I’m not there biografico, quegli accadimenti che capitano quando non te lo aspetti (“But I don’t belong there”, come cantava Dylan) e sono strettamente personali.

Per farla breve, ho avuto questa intuizione, doppia.

Primo: l’emissione d’aria psichica dal mio cervello, gas di un altrove polmonare che è il mondo, mi ricorda in ogni momento da dove vengo io e da dove veniamo tutti: dal Big Bang. Gli acufeni sono una mia specie di eco della radiazione cosmica di fondo, che mi indica in ogni momento quel punto lontanissimo dello spazio-tempo da cui ogni cosa si è ingenerata. Quel bozzolo di materia cosmica squarciato da una farfalla-universo che, ci dice la scienza, sta ancora battendo le ali per la prima volta. E questo battito, su cui stanno tutti i nomi delle cose e la loro tragica bellezza, ha il suono della mia radiazione. Di cui porto l’intera meraviglia, una somma incredibilità capace di dirmi chi sono e perché sono qui, risonante.

Secondo: dopo questa intuizione mi sono subito chiesto di che colore fossero la radiazione cosmica, i miei acufeni, le ali della farfalla. La risposta istantanea, un nuovo altrove che mi è arrivato addosso, è stata: azzurro. Gli acufeni mi fanno vivere in un’azzurrità. Che non è un difetto della vista. E non è neppure banalmente il colore del cielo o quello del mare. L’azzurrità è la membrana sottile che ricopre la realtà secondo la mia percezione. È tutto il dolore assurdo e vitale del mondo. Le persone, gli animali, le pietre, i licheni, una brocca d’acqua sul tavolo: tutto è azzurrato.

L’azzurrità è nel vivente e non-vivente che si manifestano e si mescolano. Grazie ad essa ho dato un senso ai miei acufeni, secondo il paradosso irreale in cui loro vincono sempre, ma io non perdo mai. La mia è una piccola verità d’inerme. La luce che passa dalla crepa di Cohen, per me, è azzurra. Dalla crepa erompe anche una farfalla, ha le ali azzurre ed è il mondo.

(le fotografie sono di Luca Barachetti)

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