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#workinprogress: il «merito» non dipende da te

Articolo. Come è consuetudine, il nuovo Ministro dell’Istruzione ha iniziato il suo mandato rilasciando dichiarazioni di intenti che enfatizzano gli elementi di rottura, di innovazione, rispetto alle politiche scolastiche di chi l’ha preceduto. A partire dal nome del suo ministero: «dell’Istruzione e del merito». Ma la retorica della meritocrazia nasconde una realtà ben più complessa

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«Just because you’re better than me
Doesn’t mean I’m lazy
Just because you’re goin’ forwards
Doesn’t mean I’m going backwards»

Billy Bragg, «To Have Or To Have Not»

Attorno a queste dichiarazioni, di riflesso, si è acceso il dibattito politico e mediatico. Le parole del neoministro hanno definito l’ordine del giorno, il campo di battaglia dove far scontrar le diverse parti politiche fino al naturale, algoritmico, esaurimento del tempo di attenzione che un tema del genere è in grado di conquistare. La strategia comunicativa di Giuseppe Valditara, a partire dal cambio della denominazione del ministero, si è dunque rivelata efficace.

Tuttavia, quando il saggio indica la luna, è sempre bene rivolgere lo sguardo al dito e non a ciò che indica. Di fatto, è difficile distinguere le parole d’ordine del ministro da quelle che hanno caratterizzato la retorica ministeriale degli ultimi vent’anni: valorizzare il merito, premiare i talenti, promuovere l’istruzione tecnico-professionale e il raccordo con le imprese, orientare i giovani affinché acquisiscano le fantomatiche «competenze richieste dal futuro mercato del lavoro». Fantomatiche perché oggettivamente difficili da definire e ancor di più da prevedere.

In sostanza stiamo assistendo all’ennesima riproposizione di un modello che — concependo il mercato del lavoro come variabile indipendente — si illude di contrastare disuguaglianze, disoccupazione e sottoccupazione intervenendo esclusivamente sulla formazione dei futuri lavoratori. Ossia creando, da un lato, eguali condizioni di partenza; dall’altro “attrezzando” le nuove generazioni con strumenti che permettano loro di competere individualmente sul mercato. Una politica scolastica, in altre parole, che, anziché coordinarsi con le politiche del lavoro, cerca di supplire alla loro assenza.

«Vi assicuro che lavoreremo per una scuola che torni a essere un vero ascensore sociale e che non lasci indietro nessuno» ha dichiarato Valditara, citando implicitamente il «No Child Left Behind Act» di George W. Bush. Lasciando da parte la retorica del merito — la cui inconsistenza teorica e empirica è ormai talmente evidente da essere smontata pezzo per pezzo non solo nella letteratura scientifica ma anche sulle pagine de Il Sole 24 Ore — l’idea che la mobilità sociale dipenda dall’offerta scolastica è smentita innanzitutto dagli stessi rapporti Invalsi e dall’indagine OCSE-Pisa, il cui dato più rilevante è, sistematicamente, il divario nord-sud all’interno del nostro paese.

A parità di sistema scolastico, i risultati degli studenti sono molto diversi. Le regioni ricche si collocano al di sopra della media UE e OCSE, le altre al di sotto. I fattori extrascolastici — le condizioni sociali, economiche e politiche di un territorio — impattano più di qualunque modello pedagogico e organizzativo sui risultati scolastici e professionali delle persone. È questo l’elefante nella stanza di ogni dibattito su scuola e lavoro.

Analogamente, nel mercato del lavoro, una serie di fattori che nulla hanno a che vedere con le competenze e la motivazione dei singoli incidono in modo sostanziale sulla traiettoria professionale e di vita delle persone: il genere e l’orientamento sessuale, il colore della pelle, il paese di provenienza, le condizioni sociali, culturali ed economiche della famiglia d’origine.

Di tutto ciò raramente si parla quando si fa orientamento scolastico e professionale. Vi è la tendenza, nel preparare le persone ad affrontare il mercato del lavoro, a escludere tutti questi elementi oggettivi concentrandosi solo su quelli soggettivi. Come se il destino di una persona dipendesse solo dalle sue scelte e dalle competenze, specifiche e trasversali, che è in grado di maturare. Il problema è che i tempi sono cambiati e con loro le nuove generazioni. Ai loro occhi la parzialità di questo approccio è sempre più evidente. E la retorica della competizione individuale come via maestra per l’emancipazione economica e sociale è sempre meno credibile.

Chi, come me, opera da anni nel settore ha assistito a un grande mutamento della composizione sociale, culturale, etnica e di genere delle aule. Oggi ci troviamo di fronte persone che partecipano a processi culturali e politici globali, e che dunque interrogano le disuguaglianze in modo diverso. Le discriminazioni razziali e di genere, ad esempio, sono sempre più declinate in termini sistemici, strutturali prima che culturali. A noi formatori vengono poste domande che non possono essere evase con alcun discorso sulle capacità individuali. Ci costringono a far rientrare dalla finestra tutti i fattori oggettivi che, negli anni del benessere, avevamo cacciato dalla porta.

Inoltre i recenti sconquassi globali hanno reso ancor più chiaro alle nuove generazioni quanto la Storia — proprio quella che Francis Fukuyama e altri proclamavano finita negli anni ‘90 — determini la vita e il futuro più di qualunque sforzo soggettivo. Eventi come la pandemia, la guerra, il cambiamento climatico non sono più solo temi di discussione politica, non sono più qualcosa di lontano e ipotetico. Sono esperienze reali che condizionano materialmente la vita quotidiana dei giovani. Dunque emergono sempre più nei momenti di formazione e orientamento.

Ignorare questa dimensione, così chiara agli occhi delle nuove generazioni, rischia di compromettere seriamente il dialogo intergenerazionale. E di produrre, più che un conflitto tra generazioni (che è pur sempre una forma di dialogo), uno sganciamento. Non ti attaccano. Semplicemente non ti ascoltano perché ciò che dici non li aiuta a comprendere la realtà che li circonda. Non credono più, giustamente, a chi dice loro «sei padrone del tuo destino, basta che ti impegni». Perché sanno che non è vero.

Certo, parlare di «ciò che non dipende da te ma che più di te condiziona la tua vita» può sembrare strano, inopportuno, scoraggiante in un contesto di orientamento e formazione al lavoro. Ma non è così. Si può parlare del mercato del lavoro — e dunque della società — senza nasconderne la complessità, le contraddizioni, le ingiustizie, i vincoli oggettivi. Nella mia esperienza la risposta è tutt’altro che negativa o depressiva. Al contrario, si istaura una relazione “adulta” che è molto più apprezzata delle prediche pedagogiche.

D’altra parte qualunque percorso di emancipazione comincia nel momento in cui si acquisisce la consapevolezza di non essere liberi. Senza la comprensione dei processi che ci sovradeterminano, difficilmente potremo coltivare l’ambizione di modificarli.

Per anni abbiamo spinto i giovani nella direzione di una falsa attivazione. Invitare un soggetto a formarsi in base alle esigenze del mercato del lavoro, presentato come naturale e immodificabile, come qualcosa a cui ci si può solo adeguare, significa indurre un atteggiamento passivo, di mero adattamento. Forse è giunta l’ora di reintrodurre nel dibattito politico un discorso abbandonato qualche decennio fa. Vale a dire tornare a discutere non solo di una scuola che risponda alle richieste del mercato del lavoro, ma anche di un mercato del lavoro capace di rispondere alle esigenze della scuola e delle persone. Per fare ciò, però, bisogna tornare a governare non solo la scuola, ma pure il mercato del lavoro e il mondo della produzione, senza delegarne interamente la regolazione all’interazione impersonale e acefala degli agenti economici.

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