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Di conchiglie, ghiacciai e orti: come la scienza (e l’arte) ci salveranno dal cambiamento climatico

Articolo. Tom Battin presenterà stasera a BergamoScienza una conferenza dal titolo “Delle conchiglie e dello scioglimento dei ghiacci” nell’ambito del Meru Art*Science Research Program, che sostiene e promuove il dialogo tra arti e scienze

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Chi l’avrebbe mai detto che le conchiglie avessero qualcosa da insegnarci sullo stato di salute del nostro Pianeta? Intervistare Tom Battin, biochimico, zoologo e docente di scienze ambientali all’Ecole Polytechnique Fédérale di Losanna, è come un viaggio sulle montagne russe: sai che ciò che verrà dopo la prossima curva sarà totalmente inaspettato, ma non vedi lo stesso l’ora di scoprire di cosa si tratta.

La mia curiosità è inizialmente intrigata dall’insolito titolo scelto per il suo incontro di oggi per la XIX edizione di Bergamoscienza: “Delle conchiglie e dello scioglimento dei ghiacci”, alle 18.30 al Centro Congressi Giovanni XXIII. Così glielo chiedo: cosa ci porta dalle conchiglie ai ghiacciai che si sciolgono? “Le conchiglie sono fatte di carbonio”, inizia a spiegarmi: “Solo poche specie marine sono capaci di prendere il carbonio dall’acqua e costruirne dei gusci”.

Molluschi come cozze o vongole sono esempi che vengono subito in mente. Ma c’è molto di più: “la biodiversità prevalente nell’oceano è la biodiversità che non possiamo vedere a occhio nudo. Si tratta di organismi microscopici, presenti in quantità gigantesche nelle acque oceaniche, molti dei quali sono provvisti di gusci. Sono loro che guidano la macchina biogeochimica dell’ecosistema marino ”.

A minacciarli c’è, in primis, l’acidificazione. L’origine di questo fenomeno è da ricondurre a un meccanismo molto semplice. Mi fa notare Battin: “Proprio in questo momento, io e te, mentre parliamo, produciamo CO2, che viene emessa nell’atmosfera. Circa un quarto finisce nell’oceano e rende l’acqua più acida ”.

Quando l’acqua diventa più acida”, spiega Battin, “le conchiglie si dissolvono e gli animali non possono più costruire i loro gusci”. L’acidificazione, per il danno che può portare, è equiparabile a un altro fenomeno dannoso per gli oceani: l’aumento della temperatura del mare, causato dal surriscaldamento globale e che a sua volta causa una riduzione dell’ossigeno in acqua.

Cosa causa il surriscaldamento globale?”, si chiede Battin. La risposta chiude il cerchio delle precedenti questioni: “è l’anidride carbonica, o, in altre parole, i gas serra. È a causa dei gas serra che il clima si sta riscaldando”. L’oceano ne è colpito su più livelli: “i ghiacciai si stanno sciogliendo in tutto il mondo, sia sulle montagne che sulle calotte di ghiaccio”. Di conseguenza, anche la temperatura dell’oceano si alza, riducendo i livelli di ossigeno nell’acqua e mettendo a repentaglio la salute e la vita di tutti quegli organismi che necessitano di ossigeno per sopravvivere.

Il problema dell’innalzamento della temperatura non influenza solo gli ecosistemi marini, ma anche altri organismi, che vivono in condizioni ben più estreme. Battin è al momento impegnato in una ricerca sull’attività genomica ed ecologica essenziale dei microbi presenti nei corsi d’acqua.

Noi studiamo i ruscelli che scorrono sulle massime altitudini del nostro Pianeta, che sono alimentati dallo scioglimento dei ghiacciai”, mi spiega e specifica: “Si tratta di un processo molto naturale”, minacciato però dal surriscaldamento globale: “ i ghiacciai si stanno sciogliendo a un ritmo senza precedenti ”.

Cos’hanno di particolare questi ecosistemi? “L’ambiente è piuttosto estremo. È molto freddo e molto buio d’inverno, quando sono coperti da metri di neve. D’estate, al contrario, le radiazioni ultraviolette sono molto intense”. A una prima osservazione, sembrerebbe trattarsi di un ambiente estremamente ostile alla vita. Invece, tutto il contrario.

Incredibilmente, qui vivono tantissimi microbi”, mi svela Battin. “Noi la chiamiamo ‘giungla microbica’, perché ci si trova di tutto: batteri, alghe, molti virus e tantissime altre forme di vita semplici. Si tratta ciononostante di microrganismi molto importanti: da un lato, costituiscono la base della catena alimentare; dall’altro, guidano i cicli biogeochimici ”.

Da due anni il suo gruppo di ricerca viaggia in tutto il mondo e preleva campioni al fine di “stabilire quanto sia estesa la biodiversità che stiamo perdendo a causa dell’arretramento di questi ecosistemi, provocato dallo scioglimento dei ghiacciai, e capirne le conseguenze”.

La mia domanda, di fronte a problematiche tanto complesse, sorge spontanea: cosa dovrebbero fare i policy maker per affrontare questa situazione? Tanto per iniziare”, mi risponde Battin, “dovrebbero ascoltare più seriamente gli scienziati. La scienza ha fatto un buon lavoro, presentando fatti e proponendo raccomandazioni, ma non è stata ascoltata abbastanza”.

Una luce in fondo al tunnel forse c’è, e proviene da una fonte inaspettata: l’arte. A finanziare la conferenza di Tom Battin a BergamoScienza è il Meru Art*Science Research Program, il programma di ricerca transdisciplinare promosso dalla Fondazione Meru – Medolago Ruggeri per la ricerca biomedica, in sinergia con l’Associazione Bergamoscienza e GAMeC. Concepito nell’intento di sostenere e promuovere l’approfondimento del dialogo tra arti e scienze, il programma di ricerca ha affiancato la conferenza di Battin alla realizzazione di una nuova installazione dell’artista svedese Nina Canell.

Presentata nello Spazio Zero della GAMeC nell’ambito della mostra “Nulla è perduto. Arte e materia in trasformazione” (15 ottobre 2021- 13 febbraio 2022), l’installazione è tutta a carattere ambientale ed è intitolata “Muscle Memory”: i visitatori sono invitati a camminare su una distesa di conchiglie.

Battin stesso conduce sperimentazioni con la fotografia in bianco e nero per esplorare le diverse componenti delle transizioni spazio-temporali e l’interfaccia tra scienze e arti. Gli chiedo cosa accomuna queste due discipline all’apparenza tanto diverse e come esse possano influenzarsi a vicenda.

Dal suo punto di vista, la scienza e l’arte “hanno molto in comune. Alla base di entrambe c’è un processo, che può portare a un’opera d’arte o alla conoscenza scientifica. Il processo è inoltre molto simile, se lo si analizza nel dettaglio: in quello scientifico le fasi sono l’osservazione, la riflessione critica, l’ipotesi e la verifica dell’ipotesi. Anche nell’arte abbiamo una sorta di riflessione critica, che viene poi tradotta in qualcosa che possiamo guardare, ascoltare, toccare o sentire”.

Ma non è finita qui. “Un altro aspetto in comune tra le due”, continua Battin, “è appunto lo spirito critico. Gli scienziati cercano di capire la natura, su qualsiasi scala (globale o molecolare), di comprendere questa entità intrinsecamente complessa”. Ed è proprio di fronte a questa complessità che il pensiero scientifico getta la spugna, non in termini di ricerca ed esplorazione ma di comunicazione e divulgazione. Ed ecco come l’arte può giungere in suo soccorso.

“L’artista”, sostiene Battin, “può aiutare noi scienziati a presentarci in modo molto tangibile e a trasmettere il messaggio a chi prende le decisioni”. Con l’aggiunta di un passaggio intermedio, che ci coinvolge tutti: “Prima di arrivare ai decisori dobbiamo far arrivare i messaggi in modo molto ampio alla società. La società può poi diffondere la consapevolezza, servendosi del linguaggio dell’artista, e passare infine a sottoporre il problema a chi prende le decisioni ”.

Qual è, quindi, la lezione che dovremmo imparare? Battin prende ispirazione da un classico della letteratura francese, il “Candido” di Voltaire: “Alla fine del libro, quando tutti i personaggi sono vecchi, dopo una vita di peripezie in giro per il mondo decidono di sistemarsi in una fattoria, con un piccolo orto. Penso che anche questo sia parte della soluzione: dovremmo tutti ridurre la nostra mobilità, rifiutare i modelli della globalizzazione e sostenere una produzione più locale ”.

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