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Pericolo greenwashing: come riconoscere i falsi prodotti ecologici

Guida. Etichette ingannatrici, pubblicità fuorvianti, lessico confuso: orientarsi nell’universo delle aziende sostenibili è un po’ come avventurarsi nella tana del Bianconiglio di Alice. Ci sono cappellai matti, regine sconclusionate e rose verniciate da individuare

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foto Didecs

Nel gennaio 2020 Eni fu multata per “pratica commerciale ingannevole”: la pubblicità “ENIdiesel+”, trasmessa dal 2016 al 2019, che promuoveva un diesel bio, green e rinnovabile, costò al colosso energetico una sanzione amministrativa di 5 milioni di euro . Si trattò della prima sentenza italiana contro il greenwashing .

Definito un ecologismo “di facciata”, dietro il greenwashing si celano azioni e comportamenti che vanno in una direzione opposta rispetto alla tutela ambientale. Il dizionario di Cambridge lo descrive come “il far credere che un’azienda sia impegnata nella protezione dell’ambiente più di quanto non lo sia in realtà”. Un fenomeno tanto più diffuso quanto più prende piede la sensibilità generale nei confronti di queste tematiche.

Eco-Business, un media indipendente con sede a Singapore, ogni anno stila una classifica delle più eclatanti operazioni di greenwashing praticate da diversi attori, specialmente grandi multinazionali: nel 2020 otto, nel 2021 undici storie smascherate, come l’azienda mineraria che afferma di estrarre “responsabilmente” metalli dal fondo del mare.

Un’indagine effettuata dal laboratorio SuM (Sustainability Management) della Scuola Superiore Sant’Anna ha scoperto che l’84% delle 1300 pubblicità analizzate presenta profili di rischio potenziali di greenwashing. Il problema è vasto e non riguarda solo il consumatore finale, ma anche gli investitori. Tant’è che la Consob ha annunciato la scorsa estate che, per contrastare il fenomeno, avvierà un’analisi dei criteri ESG (Environmental, Social e Governance), che misurano la sostenibilità degli investimenti.

Nel frattempo, non ci resta che provare a ritrovare la bussola in questa Tana del Bianconiglio e, come la Regina di Cuori di Alice, provare a capire quali rose rosse sono, in realtà, solo verniciate. Con esempi pratici per non perdere la bussola.

#1: Guardiamo il dito che punta alla luna

Recita il famoso proverbio: “Quando il saggio indica la luna, lo stolto guarda il dito”. Eppure, nel nostro caso, è proprio il dito che dovremmo guardare, perché spesso è un malcelato tentativo di distogliere l’attenzione da pratiche poco sostenibili. Il primo dei “sette peccati del greenwashing” individuati da TerraChoice è infatti rappresentato da “un’affermazione che suggerisce che un prodotto è green sulla base di un insieme ristretto di attributi, senza attenzione ad altre importanti questioni ambientali”.

La carta , per esempio, non può essere automaticamente classificata come “sostenibile” se proviene da una foresta gestita responsabilmente. Altri importanti step nel processo di produzione della carta, come le emissioni di gas serra o l’uso di cloro per lo sbiancamento, sono altrettanto importanti. Un esempio virtuoso a km 0? Grafinvest, una tipografia di Treviolo, ha utilizzato per la sua brochure commerciale carta certificata FSC (Forest stewardship Council), stampata con impianti di produzione a basso impatto ambientale, 100% riciclata e carbon neutral , e ha anche compensato i 1.026 Kg di CO2 emessi per la realizzazione aderendo a un progetto di tutela boschiva nella foresta di Samboko-Ituri in Congo.

#2: Cerchiamo prove, non solo indizi

Mai fidarsi di un’affermazione a carattere ambientale non comprovata da informazioni di supporto facilmente accessibili o da certificazioni riconosciute. Esempi comuni sono tutti quei prodotti che dichiarano varie percentuali di contenuto riciclato post-consumo senza fornire prove di un’effettiva attuazione di quanto dichiarato.

All’estremo opposto Fitocose, produttore milanese di biocosmetici certificati, che apre le porte dei suoi laboratori a chiunque voglia verificare in prima persona come vengono realizzati i suoi prodotti.

#3: Vade retro, genericità

Sono sempre da mettere in dubbio tutti quei claim così poco definiti o ampi che il loro reale significato rischia quantomeno di essere frainteso. L’aggettivo “naturale” è un esempio classico, che subito rimanda a un significato positivo. Non dimentichiamo però che arsenico, uranio, mercurio e formaldeide sono tutti elementi naturali, ma non li vorremmo trovare nei nostri piatti.

È cosa buona e giusta, invece, quando il claim è accompagnato da un’esaustiva spiegazione. Come nel caso di Punto Natura , ristorante e negozio di alimentazione naturale macrobiotica e vegana di Bergamo, il quale specifica che con “naturale” intende che “Tutti i prodotti utilizzati (...) sono contraddistinti dall’Etichetta Trasparente che permette la completa tracciabilità della filiera e provengono da filiere agroalimentari che NON utilizzano OGM o sostanze chimiche di sintesi”.

#4: Non avrai altro riferimento al di fuori delle certificazioni riconosciute

Oggi nell’UE esistono più di 200 etichette ambientali, per non parlare delle metodologie: solo per la contabilizzazione delle emissioni di carbonio si contano più di 80 metodi di reporting utilizzati. Si tratta però nella maggior parte dei casi di certificazioni costose, a cui molte aziende, non potendo accedervi, si limitano a rimandare vagamente, senza averle ottenute. Pratica vietata dalla ùdirettiva UE in materia.

Al contrario, BG Service, impresa di pulizie di Carvico, afferma di scegliere per i suoi servizi solo prodotti certificati Ecolabel. Ecolabel UE è un’etichetta ecologica volontaria molto nota, basata su un sistema di criteri selettivi, che tiene conto degli impatti ambientali dei prodotti o servizi lungo l’intero ciclo di vita.

#5: L’insostenibile leggerezza delle affermazioni irrilevanti

Rientrano in queste categorie tutte quelle affermazioni ambientali che sono magari anche veritiere, ma sicuramente non importanti o utili. Un esempio comune è la dichiarazione che un deodorante sia “senza CFC”, quando l’uso di tale sostanza è vietata in tutti i prodotti della categoria in questione. Similmente tutte le dichiarazioni che attestano l’assenza di un prodotto nocivo (ad esempio una sostanza chimica) per categorie di prodotti che generalmente non contengono tale prodotto.

#6: Il male minore… viene per nuocere

Non lasciamoci ingannare da quei claim che possono anche essere veri all’interno della categoria di prodotto ma che rischiano di distrarci dai maggiori impatti ambientali della categoria nel suo complesso. Sigarette biologiche, veicoli sportivi a basso consumo, perfino un pesticida etichettato come “biodegradabile” e “positivo per l’ambiente”, sebbene molte delle sostanze in esso contenute fossero dannose per il suolo: mai come in questi casi, l’abito non fa il monaco.

Categorie più neutre sono per esempio il cibo e l’abbigliamento: alla prima abbiamo dedicato tempo fa una guida su come mangiare in modo sostenibile, alla seconda dei consigli per identificare buone pratiche e falsi miti.

#7: Attenzione alla falsa testimonianza

Purtroppo esistono: affermazioni ambientali semplicemente false o ingannevoli. La direttiva UE considera ingannevole “una pratica commerciale che contenga informazioni false (...) o (...) inganni o possa ingannare il consumatore medio, anche se l’informazione è di fatto corretta (…) e in ogni caso lo induca o sia idonea a indurlo ad assumere una decisione di natura commerciale che non avrebbe altrimenti preso”.

Ci sono le pratiche oggettivamente ingannevoli, come l’uso del termine “biodegradabile” per un prodotto che in realtà non lo è, e poi ci sono le pratiche soggettivamente ingannevoli, come le pubblicità che ritraggono un’auto che sfreccia in una foresta verdeggiante o l’uso di oggetti naturali (fiori, alberi) come simboli. Queste ultime sono le più subdole e ricorrono spesso a più livelli di mascheramento.

“Si può fare greenwashing anche dicendo la verità puntualizza infatti Fabio Iraldo, professore di management alla Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa – Se dico per esempio che produco carta al 35% riciclata, ma non specifico da dove arriva quella carta (se post consumo oppure è uno scarto industriale) sto facendo greenwashing”.

Iraldo ricorda inoltre che ogni qual volta vediamo su una confezione “zero emissioni”, non ci dovremmo fidare perché non esiste nessun prodotto che durante il suo ciclo vita o nella sua supply-chain (ovvero la rete che include tutti gli individui, le organizzazioni, le risorse, le attività e le tecnologie coinvolte nella creazione e nella vendita di un prodotto) non produca alcuna emissione.

Non esistono prodotti che fanno bene all’ambiente. Anche il più innocuo dei nostri consumi implica un costo per le risorse del pianeta. Ma sebbene la responsabilità sia in capo a chi li produce, noi nel nostro piccolo possiamo giocare le nostre carte nella scelta.

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