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Water grabbing , questo sconosciuto antropocenico

Articolo. Ne parlerà martedì 26 ottobre a Molte fedi sotto lo stesso cielo, in diretta streaming alle 20.45, Marirosa Iannelli di Water Grabbing Observatory, nell’incontro “Atlante geopolitico dell’acqua”

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(foto Piyaset)

La strada che conduce dall’aeroporto di Tel Aviv “Ben Gurion” a Gerusalemme attraversa il Deserto di Giuda (un deserto relativamente piccolo, esteso su 1.500 Km quadrati) e permette di osservare le differenze paesaggistiche fra Israele (a destra, andando verso Gerusalemme) e Palestina (a sinistra). I territori israeliani sono tendenzialmente verdi, piantumati e coltivati; quelli palestinesi aridi, sabbiosi e rocciosi. La differenza, su una larghezza di troppi chilometri, si spiega con la gestione da parte di Israele delle risorse idriche del territorio: l’acqua, una delle cause – oltre a quelle religiose, etniche e territoriali – dell’infinito conflitto israelo-palestinese.

Secondo il Water Grabbing Observatory ciascun palestinese ha una media di 70 litri d’acqua al giorno, contro i 280 litri in media di un israeliano e i 350 litri di abitanti delle colonie – cioè israeliani che hanno occupato con i loro insediamenti il territorio palestinese. Le cifre israeliane sono in linea con gli standard Nord Americani, quelle palestinesi sono uno dei tanti casi al mondo di water grabbing, cioè – come spiega bene Emanuele Bompan – l’accaparramento dell’acqua da parte di un governo, una corporation o un’autorità. Solitamente a discapito della popolazione (intera, o di una parte) che abita un territorio, subendone tutte le conseguenze, a livello di sussistenza e salute in primis (tornando ai numeri sopra citati è di 100 litri la soglia per una vita sana indicata dall’Organizzazione Mondiale della Sanità).

Tuttavia di water grabbing si parla poco, anche perché a volte il problema – come nel caso della questione israelo-palestinese – viene considerato di secondo piano rispetto alle frizioni etniche e religiose fra due popoli. Marirosa Iannelli è la presidente di Water Grabbing Observatory, e sarà martedì 26 ottobre in diretta streaming alle 20.45 per Molte fedi sotto lo stesso cielo in un incontro dal titolo “Atlante geopolitico dell’acqua”. Iannelli è specializzata in cooperazione internazionale e water management ed è ricercatrice presso la London School of Economics, dove lavora a un progetto su cambiamenti climatici e governance delle risorse tra Africa e Sudamerica. Insieme a Emanuele Bompan, che abbiamo citato sopra, ha scritto il libro “Water grabbing. Le guerre nascoste per l’acqua nel XXI secolo” (EMI edizioni, 2018), il racconto di come l’acqua sia diventata, sempre di più negli anni, complice anche il riscaldamento globale, oggetto di scontri commerciali, tensioni sociali e guerre internazionali.

Come racconta Oltremare, il magazine online dell’Agenzia Italiana per la Cooperazione e lo Sviluppo, il 47% della popolazione mondiale vivrà in zone “a elevato stress idrico” entro il 2030 (sono osservazioni delle Nazioni Unite) e per la Cia “le questioni idriche sono principalmente una questione di stabilità mondiale”. Israele e Palestina ma anche Israele e Libano, India e Cina per le acque del fiume Brahmaputra, e poi Nepal, Bangladesh, Vietnam, Brasile, Sudafrica, Etiopia, Stati Uniti: secondo i dati della Banca mondiale, sono 507 oggi i casi nel mondo di tensioni sull’impiego dell’acqua non risolti.

Fra tutti i paesi citati emergono gli Stati Uniti, un paese molto ricco (e molto indebitato) ma con grandi disuguaglianze e problemi esemplificativi, di cui Iannelli e Bompan nel loro libro descrivono le conseguenze sul piano idrico del fracking. Ovvero il processo di estrazione di gas non convenzionale che ha portato una mancanza di acqua potabile a intere zone della Pennsylvania, poiché le falde acquifere hanno subito l’inquinamento dei gas di scisto. In California invece la produzione di energia elettrica, che necessita di un ampio utilizzo di acqua, priva la popolazione delle quantità necessarie all’uso civile, senza dimenticare che più si utilizza energia, più acqua serve.

Il water grabbing nelle sue diverse modalità è un problema tipicamente antropocenico, che l’Occidente estrattivo impone ai paesi più poveri e alla sua stessa popolazione: a essere estratti e trasformati non sono solo gli idrocarburi, ma anche l’acqua viene trasferita attraverso la costruzione di megadighe come quella delle Tre Gole sul Fiume azzurro in Cina – che ha comportato il trasferimento forzato di 1,2 milioni di persone e si porta dietro una storia di alluvioni e centinaia di migliaia di morti – e la megadiga Gibe III in Etiopia che sta attaccando gli equilibri geo-sociali della popolazione della regione dell’Oromia (400.000 le persone interessate).

Il water grabbing e la green economy

L’accaparramento dell’acqua si “nasconde” anche in fenomeni apparentemente positivi, ad esempio la green economy. Come scrivono Matteo De Giuli e Nicolò Porcelluzzi in “Medusa. Storie dalla fine del mondo (per come lo conosciamo)” (Nero edizioni, 2021) “il funzionamento di pale eoliche, pannelli solari, veicoli elettrici dipende dall’uso di alcune terre rare – tra le altre: scandio, ittrio, lantanio, cerio, praseodimio, neodimio, vanadio, samario, europio, lutezio, promezio – e di metalli di altri gruppi chimici – come berillio, gallio, cobalto”.

Ma per estrarre e purificare queste terre rare, che sono completamente incistate nelle rocce, servono complessi procedimenti con l’utilizzo di reagenti chimici e acqua in proporzioni molto grandi: per una tonnellata di terre rare, spiegano sempre De Giuli e Porcelluzzi, servono almeno duecento metri cubi di acqua che si carica di acidi e metalli pesanti. Dove e come avviene il water grabbing? Come già detto, queste risorse servono soprattutto alle nazioni Occidentali per costruire pannelli solari e pale eoliche, ma l’estrazione dei metalli rari avviene in nazioni come la Repubblica Democratica del Congo, il Kazakistan e l’America Latina (nel sottosuolo dei deserti argentini, cileni e boliviani), che inquinano le falde acquifere e l’acqua usata per la purificazione dei metalli. Nelle cave della Mongolia interna, ad esempio, questo genere di estrazioni provoca l’affiorare di laghi di acqua tossica, tanto che gli abitanti di queste zone definiscono i loro paesi “villaggi del cancro”.

Che fare?

Quello appena descritto, o il caso in Pennsylvania, sono forme di water grabbing “indiretto”, ovvero le risorse idriche non vengono sottratte, ma inquinate, e quindi sono grabbed, in quanto inutilizzabili. Soprattutto però il water grabbing è una delle tante sfaccettature antropoceniche dell’enorme problema del riscaldamento globale, di come abbiamo abusato delle risorse del pianeta e le abbiamo sottratte a comunità a cui spettavano di diritto, in un contesto che vede varie zone del mondo (Italia compresa) procedere verso una sempre maggiore desertificazione.

Rimane alla fine una sola domanda: che fare? E persone come Marirosa Iannelli che provano a dare una risposta per salvare il pianeta.

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