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Egidio Locatelli, si può amare un paio di scarpe anche per sessantacinque anni

Articolo. La bigaröla ben allacciata in vita, le dita intrise di lucido nero, gli attrezzi da lavoro sparpagliati sul tavolo. Via Quarenghi negli anni è cambiata, ma per il suo calzolaio di riferimento l’importante è che si continui a «camminare bene»

Lettura 5 min.
Egidio Locatelli al lavoro (Marialuisa Miraglia)

Gli orari di apertura del negozio su Google Maps non ci sono. Non provo nemmeno a cercare siti Internet o pagine social. Non li troverei. La porta della bottega di Egidio Locatelli, in Via Quarenghi 29, è sempre aperta, da sessantacinque anni a questa parte. Da quando, nel quartiere, Egidio era noto semplicemente come lo scarpulì.

Entro nel negozio dopo essermi soffermata a lungo a guardare la vetrina. Nessun logo, solo il nome del proprietario, qualche immagine sacra un po’ sbiadita – naturalmente San Crispino, il protettore dei calzolai – e un cartello che recita «ripariamo scarpe, borse, valigie, indumenti in pelle». Il campanello suona, ma Egidio è talmente assorto nel suo lavoro che non mi vede. Sta lucidando un paio di scarpe, le dita nere, la mascherina colorata appoggiata sulla punta del naso. In sottofondo, una voce femminile legge alla radio la fiaba di Pinocchio. La mente fa un tuffo indietro nel tempo. Alle fiabe sonore della Fratelli Fabbri Editori, che avevo tutte in musicassetta. Posso ancora cantarne la sigla: «A mille ce n’è nel mio cuore di fiabe da narrar».

Quando Egidio si accorge della mia presenza, probabilmente mi trova persa nei ricordi. È lui che mi riporta con i piedi per terra. «Le serve qualcosa? Di interviste, non sono tanto alla portata, ecco, sto nel mio brodo». Non sarà un’intervista, gli assicuro. Chiedo solo che mi racconti perché a settantacinque anni fa ancora il mestiere che faceva a undici. Allora accetta di parlare.

Storie di riparazioni

«Mio padre, Camillo, era anche lui calzolaio, e io mi sono trovato qua, in Via Quarenghi. La scuola non faceva per me, ho iniziato questo lavoro finita la quinta elementare». L’attività della bottega verte principalmente sulle scarpe, che Egidio non ha mai fatto su misura, ma ha sempre riparato. Col tempo, subentrano valigie e valigette, borse, cinture, ombrelli. «Allora era l’epoca del cuoio, e un paio di calzature doveva durare anni. Vent’anni fa, invece, abbiamo assistito all’arrivo di una nuova tipologia di scarpa fabbricata con materiali sintetici. Una scarpa di pessima qualità, che non si presta più tanto alla riparazione».

Chiedo ad Egidio se, qualità del materiale a parte, il suo lavoro negli anni sia cambiato. Sorride. Non si è mai rifiutato di ridare nuova vita a un paio di calzature, «anche se sono proprio cadaveri di scarpe». Per ripararle, gli piace prendersi i suoi tempi. I tempi necessari a staccare la suola vecchia, a contattare il fornitore e a procurarsi ciò che serve. E poi a cucire le suole nuove, a incollarle, a dare il colore e lucidare la calzatura. Parte del lavoro avviene a mano, con l’aiuto di trincetti, forbici, cere. Parte, invece, ai macchinari. «Negli anni, ho aggiornato tutte le macchine del negozio, anche se non sono cambiate di molto. Magari fanno meno rumore, sono più piccole o assorbono meno polvere, ma le loro funzioni sono sempre quelle».

Mentre parla, Egidio spazzola un paio di calzature in pelle. Non si ferma mai. Sembra orgoglioso dei suoi settantacinque anni portati così bene, dato che ci tiene a dirmi che il fratello è in pensione ormai da undici anni, mentre lui non ci pensa nemmeno. «Non mi interessa. Il mio lavoro, quello di far camminare la gente bene, è la mia passione. Al massimo limito i miei orari, quando ho bisogno di fare l’orto, di piantare le patate o di stare con il mio nipotino». Scopro che gli orari del negozio cambiano continuamente. Ecco perché Egidio non li mette su Google. «I clienti hanno il mio numero di cellulare, basta quello. E poi la pubblicità su Internet non mi è mai servita. Sono convinto che la miglior pubblicità sia il passaparola del lavoro che fai».

Un quartiere che cambia

Vorrei fare al calzolaio tante domande. Ma in quel momento, dalla porta entra un certo signor Duilio, un uomo sulla settantina che tiene una valigetta sotto il braccio. «Guarda un po’ questa, ci sono affezionato, ma si sta scucendo…». La apre, mostra una cinghia di stoffa scura. «Useresti ancora la tracolla?», domanda il calzolaio in dialetto. «Sì, no… fai tu, che sei tu l’esperto».

Non riesco a trattenermi. Chi mi conosce sa che non tengo mai la bocca chiusa. «È un cliente storico?» chiedo al signor Duilio. Non l’avessi mai detto. «Eravamo alti così» – mano spalancata, braccio allungato il basso a misurare un’immaginaria statura – «giocavamo a biglie insieme». Scopro che Duilio abita ancora a Bergamo, mentre Egidio si è trasferito in provincia, in una casetta nel bosco a Pontida.

Cominciano i racconti, quelli sul quartiere. Oggi, chi cammina lungo via Quarenghi vi trova il ristorante indiano davanti a quello cinese, il salone da parrucchiere africano davanti al bazar asiatico. Sessant’anni fa, via Quarenghi non era certo la Brick Lane bergamasca . «Era un grande paese, dove ci si conosceva tutti. C’era il salumiere, il barbiere, il panificio, la farmacia. Poi sono arrivati i primi meridionali. E poi gli extracomunitari, con le loro culture, i loro negozi e le loro lingue che non capivamo».

Mi aspetto il solito discorso moralistico, quello de «ai miei tempi si stava meglio» che mi capita spesso di sentire, soprattutto nel piccolo paese da cui provengo. Invece, il racconto di Egidio mi sorprende. «Non ho mai avuto tante soddisfazioni come quelle che ho ora, che non servo più tre generazioni – la mamma, la figlia, la nipote – ma avventori che vanno e vengono, vedo una volta e non vedo più». Il confronto con culture diverse ha permesso al calzolaio di scontrarsi con una diversa percezione dell’oggetto «scarpa». Una percezione che aveva anche l’Italia, prima del boom economico, prima del consumismo. «Gli extracomunitari non buttano via nulla: anche se spendono 20 euro per un paio di scarpe, se c’è da spenderne 10 per ripararle lo fanno. Hanno la tendenza a riparare le scarpe, anche di poca qualità. I prezzi li fanno spesso loro, ma mi dicono “tu sei il numero uno”, “sei bravissimo”, e io sento che lo fanno con il cuore, lo fanno per davvero».

Egidio mi rivela come per molte persone di origine africana la bella calzatura di cuoio o in pelle sia un po’ uno status symbol. «Spesso, prima di partire per l’Africa, mi portano qua le scarpe. Le fanno riparare e lucidare. A loro interessa che la scarpa duri, e che sia bella lucida. Probabilmente, ci tengono a distinguersi dai loro conterranei, che camminano in ciabatte». Me lo immagino, Locatelli, a lucidare e lucidare ancora. Il cambiamento della via e dei suoi residenti non ha intaccato la passione per il lavoro che da sessantacinque anni lo fa «dormire proprio bene».

Alcuni dei suoi clienti di origine africana sarebbero disposti ad imparare da lui il mestiere, per poi proseguirne l’attività. Ad Egidio piacerebbe, ma non se la sente, ora come ora, di assumersi l’impegno. «Colpa mia, lo so. Ma formare una persona è dura. Bisogna regolarizzarla, trascorrere il tempo insieme. E quello che mi piace fare in negozio è gestire gli orari come voglio. A volte apro alle 10, a volte alle 10.30 e se devo prendermi mezza giornata me la prendo. Ho il mio orto da curare, le mie passeggiate in montagna, un nipotino. Tengo il piede in tante scarpe». Non si accorge di quanto sia indicata l’ultima espressione.

Il futuro del mestiere

Prima di salutarlo, domando ad Egidio se pensa che il mestiere del calzolaio sia destinato a scomparire. «Non credo. Non parlo della creazione di scarpe su misura, quello non l’ho mai fatto. Parlo di riparazione. Qualcuno c’è stato qua a Bergamo che ha iniziato il lavoro. Ho conosciuto anche gli studenti di una scuola dell’unione artigiani. Certo, il mestiere cambia. Oggi c’è chi fa borse, chi si cimenta con le scarpe personalizzate… ognuno prende l’indirizzo che vuole, ed è bello così».

Con il suo lavoro, Egidio Locatelli ha mantenuto una moglie e tre figli. Una moglie che lo vorrebbe a casa, a riposo, tre figli che non ne hanno seguito le orme. «Come potevano farlo? Il mio, come quello di molti artigiani, non è un lavoro a cui puoi dare tariffe orarie. E poi, la scarpa è un articolo povero: anche quando c’erano scarpe che costavano 30, 60, 80mila lire, non potevi farti pagare 50mila lire di riparazione… anche se eri stato ore a riparare! Si lavorava molto sulla quantità: sulla quantità, che andava sempre insieme alla qualità, tiravi fuori la tua paga».

Se dovesse dare un consiglio ai più giovani, Egidio Locatelli li inviterebbe al sacrificio. «Ho lavorato più volte su cose che ho dovuto rifare. Cose che non uscivano come le volevo io. Però, il sacrificio ti porta ad aumentare la tua professionalità: hai finito, hai capito, e lì ti fai le ossa. Realizzi te stesso quando fai qualcosa che poi le persone si mettono ai piedi».

Nel frattempo, la fiaba di Pinocchio è finita. Non era una musicassetta, ma un programma di Radio Maria, che il calzolaio ama ascoltare mentre lavora. Che sia molto religioso, lo ribadisce più volte. Ma mi confida anche che gli abitanti della sua via sono ancora più credenti di lui. «Quando chiedo a molti dei miei clienti africani “come va?”, loro rispondono sempre “bene, grazie a Dio!”. Non dicono mai “male!” e saranno anche loro in situazioni difficili. Credono che a tutto ci sia un senso, e secondo me è vero». Da via Quarenghi, Egidio Locatelli ha ancora molto da imparare.

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