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Burnout e società connessa. Perché non siamo più liberi di ignorare le richieste?

Articolo. Sono sempre di più i lavoratori che lamentano un carico emotivo e relazionale eccessivo in relazione al proprio lavoro, legato soprattutto alla difficoltà di restare sempre connessi e di essere sempre cooperativi e disponibili a risolvere problemi in qualsiasi momento. Ma siamo sicuri che sia tutta colpa della disponibilità tecnologica e di Internet?

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Ogni giorno un utente si sveglia, prende il telefono, entra su Instagram e trova almeno una foto di un suo conoscente con la faccia sorridente e una didascalia che recita: «ama il tuo lavoro e non lavorerai mai un giorno». Si alza, si guarda allo specchio e pensa che è solo lunedì e che vorrebbe tornarsene a letto a dormire. Poi si veste, mangia qualcosa prima di uscire e riprende il telefono per controllare la corrispondenza. «Almeno così risparmio un po’ di tempo» si dice. La casella di posta segna cinque e-mail da leggere nella posta in arrivo: riunioni interne, richieste di revisione da parte dei clienti, nuovi progetti da iniziare.

Sei in macchina, ti stai dirigendo verso l’ufficio. Devi cominciare tra mezz’ora, se tutto va bene hai anche tempo di bere un caffè e di scambiare quattro chiacchiere coi colleghi. Pensi a tutto quello che ti aspetta, mentre ti accorgi che il cellulare ha cominciato a suonare. La giornata di lavoro non è ancora cominciata, ma è un cliente, aspetti un feedback da una settimana… che fai, non rispondi?

La cultura del lavoro “ad ogni costo”

«Burn out» è un termine di derivazione inglese che significa letteralmente «bruciato», «esaurito» o «scoppiato». Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), il burnout è una sindrome derivante da stress cronico associato al contesto lavorativo, che non riesce ad essere ben gestito.

Il burnout, o sindrome da esaurimento professionale, è un fenomeno sempre più comune nella società contemporanea, in particolare tra coloro che lavorano in ambito digitale e tecnologico. La pressione costante di essere sempre connessi, disponibili e produttivi sta avendo un impatto significativo sulla salute mentale e fisica dei lavoratori, portando a un aumento di stress, ansia, depressione e affaticamento. La società in cui viviamo assume sempre più i contorni di un agglomerato caotico e connesso che impone una cultura del lavoro sempre attivo, dove essere offline è spesso considerato un segno di pigrizia o inadeguatezza. In molte professioni, soprattutto in quelle legate alla tecnologia e alla comunicazione, l’accesso continuo alle email, ai social media e ad altre forme di comunicazione è diventato la norma, con la pressione costante di rispondere immediatamente ai messaggi e di essere sempre reperibili.

Questa cultura dell’essere sempre online, tuttavia, ha un prezzo elevato. I lavoratori che si sentono costretti a stare connessi 24 ore su 24, 7 giorni su 7, spesso si trovano a dover fare i conti con una diminuzione della qualità del sonno, un’incapacità di staccare veramente la spina, un aumento dello stress e della tensione e una sensazione di isolamento e alienazione. Questi sintomi possono manifestarsi in modo graduale, con il tempo, oppure in modo improvviso e intenso, a seguito di un evento stressante o di una serie di eventi che mettono a dura prova la capacità del lavoratore di gestire le pressioni del lavoro.

Le conseguenze di questa costante pressione a stare connessi investono anche l’ambito relazionale. L’ho sperimentato sulla mia pelle lavorando da più di un anno per una agenzia di marketing. Se una mia collega mi invita a bere un aperitivo dopo il lavoro e ci organizziamo via messaggio su come incontrarci e il giorno dopo mi scrive per una questione di lavoro, al di fuori del mio orario lavorativo, posso ascoltarlo il giorno dopo? E posso non sentirmi in colpa se le dico che forse per parlare delle questioni lavorative è meglio se mi manda una mail?

Ma è davvero possibile staccare la spina?

Ho cominciato a curare questa rubrica perché ero mossa dall’intento di raccontare a tutti le potenzialità del digitale e di questa società connessa, ma mi sono resa conto ben presto che le app di messaggistica e la disponibilità di accesso alla comunicazione istantanea e simultanea ci hanno di fatto proibito di ignorare gli altri o, ancora peggio, ci hanno privato del nostro sacrosanto diritto di farci i fatti nostri.

Qualche giorno fa ho scritto ad un amico che non sentivo da tempo e gli ho mandato una foto di un libro che stavo leggendo che mi aveva fatto pensare a lui, fin da quando ho visto la copertina. Dopo qualche battuta mi ha subito chiesto: «Ma hai tolto la possibilità di far vedere agli altri che sei online?». Non ricordo se gli ho fornito una spiegazione ma mi è rimasto impresso il fatto che poco dopo mi abbia ripetuto: «dai, rimetti l’online, mi sento spiato». Ma dal momento che stavo rispondendo in modo quasi istantaneo, di cosa aveva paura esattamente? Del fatto che continuassi a stare online nella piattaforma ignorando i suoi messaggi? E perché mi dovevo sentire obbligata a fornirgli spiegazioni?

Di una cosa sono certa: se la tecnologia è un mezzo, la capacità di stabilire confini dipende unicamente da noi. Nella società ipertecnologica di oggi, l’incessante richiesta di essere connessi e disponibili ha portato molti lavoratori al limite della propria capacità di gestire lo stress e le pressioni quotidiane.

Il fenomeno del burnout, sempre più comune tra coloro che lavorano in ambito digitale e tecnologico, solleva questioni etiche sul rapporto tra l’uomo e la tecnologia, sulla natura del lavoro e sulla possibilità di trovare significato e realizzazione personale nella vita professionale. La società iperconnessa di oggi spinge le persone a cercare la connessione costante attraverso i social media e le piattaforme digitali, ma questa connessione spesso non è reale o soddisfacente. Così finisce che invece di creare relazioni significative e durature, la tecnologia spinge le persone verso un’interazione superficiale e fugace, che può portare a una sensazione di solitudine e isolamento. È stato quando abbiamo scelto di asservirci a queste tecnologie che siamo diventati deterministi, nel senso che abbiamo attribuito allo sviluppo tecnologico le responsabilità della deriva sociale della nostra epoca, senza andare alla radice del problema.

Rispondiamo istantaneamente per avere più tempo libero eppure il tempo sembra non bastarci mai. Le incombenze sembrano sempre essere troppe e quando finalmente arriva il momento di abbassare il laptop, più che liberi ci sentiamo liberati. La verità è che gli impegni sembrano sovrapporsi ad una velocità disarmante che ci fa sentire in trappola e perennemente inadeguati. E il paradosso è che questa sensazione di fretta sembra aumentare e crescere in proporzione alla diffusione di tecnologie ideate per risparmiarne. La nostra quotidianità è bombardata da continui stimoli, a controllare lo smartphone e le mail per verificare cosa è cambiato durante la nostra brevissima assenza. Il punto è che questa fretta ci fa correre, correre, correre, ma basterebbe che ci fermassimo solo un attimo per capire che non sappiamo neppure dove stiamo andando.

Nell’opera «Essere e tempo», il filosofo tedesco Martin Heidegger descrive la relazione tra l’uomo e la tecnologia, sostenendo che quest’ultima finirà per dominare l’uomo. Secondo Heidegger, l’essenza della tecnologia è quella di “sfruttare” le risorse naturali per produrre beni e servizi che soddisfino i bisogni umani. Tuttavia, questa mentalità strumentale, secondo Heidegger, porta all’asservimento dell’uomo alla tecnologia e alla perdita della sua capacità di riflettere sulla propria esistenza e sul significato della vita. In altre parole, la tecnologia non è semplicemente uno strumento che usiamo per migliorare le nostre vite, ma è un modo di pensare e agire che ha profonde implicazioni sul nostro modo di vivere e di concepire il mondo.

In questo senso, il “destino della tecnologia” sottintende che la tecnologia ha una propria logica e finalità intrinseca, che va al di là del semplice utilizzo degli strumenti per soddisfare i bisogni umani. Ciò comporta il rischio che la tecnologia diventi sempre più autonoma e dominante nella nostra vita, al punto che possiamo diventare dipendenti o addirittura schiavi della tecnologia stessa. In sintesi, postulare l’esistenza di un “destino tecnologico” sottintende la capacità della tecnologia di dominare l’uomo, influenzando il modo in cui pensiamo, agiamo e concepiamo il mondo. E soprattutto compromettendo la nostra capacità di analizzare la stessa tecnologia in modo critico.

Chi ci salverà?

Ho scelto di parlare di burnout in questo articolo proprio in uno dei soliti tragitti che da casa mi porta a lavoro. Stavo scrollando il feed di Instagram e mi sono imbattuta in un post che raccontava che secondo una ricerca condotta in Italia, almeno l’80% dei lavoratori in Italia ha provato uno dei sintomi collegati al burnout: cinismo e distacco emotivo rispetto al proprio lavoro, sensazione di sfinimento. Non mi ha sorpreso vedere sotto a quel post le reazioni di tanti miei amici e coetanei che fanno il mio stesso lavoro e inseguono i miei stessi sogni.

Così, sono arrivata in ufficio e quando la mia giornata lavorativa è cominciata ho pensato che potevo fare di più che lamentarmi di questa fretta endemica che pervade la modernità, a partire da me. Quindi ho preso il mio smartphone, sono andata nelle impostazioni e ho disattivato la sincronizzazione delle mail.

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