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Finché Internet non sarà accessibile a tutti, non chiamiamola «aperta»

Articolo. Come naviga la rete chi ha difficoltà sensoriali, disturbi dell’apprendimento, disabilità psicofisiche? E siamo proprio sicuri che le possibilità che offre l’online siano illimitate per tutti? Una riflessione che si avvale del contributo di Diana Bernabei, frontend developer freelance, UI/UX designer e community manager che si occupa di accessibilità

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Una mattina, una ragazza cieca si sveglia e prende il suo smartphone per acquistare una borsa su un sito di e-commerce. Purtroppo, si trova davanti a un ostacolo insormontabile: la maggior parte dei siti non fornisce descrizioni alternative per le immagini dei prodotti, rendendo impossibile per lei capire cosa viene messo in vendita. In un’altra città, un appassionato di cucina sordo vorrebbe imparare nuove ricette attraverso dei video tutorial online. Ma il suo entusiasmo si spegne quando scopre che i video non hanno sottotitoli o trascrizioni, lasciandolo all’oscuro delle informazioni cruciali condivise nell’audio.

A centinaia di chilometri di distanza, un utente che ha difficoltà a usare mouse o tastiera rinuncia a candidarsi per un lavoro perché il modulo online richiede di navigare attraverso menu a tendina stretti e complicati. Un altro, che ha un disturbo dello spettro autistico, ha smesso di leggere il suo quotidiano online preferito, dopo un aggiornamento del sito che ha introdotto un design pieno di animazioni e cambiamenti rapidi. Queste modifiche hanno reso la navigazione confusa e stressante per lui, a causa del sovraccarico sensoriale.

Ho sempre immaginato internet come una rete di collegamenti e possibilità, un sistema che tutti definiscono «aperto», ma mi sono resa conto che in tutti questi anni ho utilizzato un approccio piuttosto egoistico. Qualche tempo fa, per lavoro, ho partecipato un evento incentrato sull’accessibilità dei siti web. All’ingresso ci è stata consegnata una benda nera, con l’indicazione di indossarla non appena lo speaker avesse iniziato il suo intervento. Con il buio negli occhi e senza riferimenti visivi, ho iniziato a sentire la voce metallica di uno screen reader che descriveva il contenuto di una pagina web. Tuttavia, man mano che procedeva, le informazioni divenivano sempre più disordinate e confuse, trasformandosi in un flusso caotico di parole. Questo caos sensoriale, aggravato dall’aumento progressivo della velocità di lettura, mi ha spinto a rimuovere la benda istintivamente per cercare di capire meglio la situazione. Stavo ascoltando uno screen reader che navigava attraverso un sito noto, ma mal strutturato per un utente non vedente.

Le giustificazioni per cui molte aziende trascurano l’accessibilità nei loro siti web sono sempre le stesse: i costi elevati, i tempi lunghi di sviluppo e un presunto impatto negativo sull’estetica del sito. Ho cercato di andare oltre queste giustificazioni e ho preso coscienza di una amara verità: finché l’accesso a Internet non sarà garantito a tutti, senza esclusioni, non potremo mai considerarlo un vero sistema aperto.

Alcune (fondamentali) statistiche

Partiamo dai costi elevati. Le persone con disabilità che navigano in rete non sono forse numericamente abbastanza da giustificare un investimento? La mia ovviamente è una domanda provocatoria. Perché, andando a documentarmi, ho compreso che l’accessibilità dei siti web emerge come una questione cruciale: tocca la vita di quasi una persona su sei a livello globale che vive con una forma di disabilità.

Le statistiche fornite dall’Organizzazione Mondiale della Sanità e da altri enti di ricerca evidenziano le difficoltà significative che le persone con disabilità incontrano nel navigare online. Con il 15% della popolazione mondiale che affronta quotidianamente queste barriere e un previsto aumento dovuto all’invecchiamento della popolazione, emerge chiaramente la necessità di un cambiamento.

La realtà attuale è estremamente critica: quasi il 98% delle homepage non è accessibile a chi ha disabilità, e quasi il 90% dei siti web non è compatibile con tecnologie assistive come lo screen reader (ovvero un software che legge ad alta voce il testo visualizzato sullo schermo e descrive altri elementi visivi, come pulsanti, menu, immagini). Questa mancanza di accessibilità non solo isola ulteriormente le persone con disabilità, ma rappresenta anche un’opportunità mancata per le aziende. Le persone con disabilità costituiscono un mercato da 500 miliardi di dollari all’anno. Inoltre, la scarsa accessibilità porta quasi due terzi delle persone con disabilità a rinunciare agli acquisti online, non per mancanza di interesse, ma per le difficoltà tecniche incontrate durante il processo di acquisto.

In questo contesto, diventa imperativo per i creatori di contenuti web adottare misure per migliorare l’accessibilità dei loro siti. Ne ho discusso con Diana Bernabei , frontend developer freelance, UI/UX designer e community manager che si occupa di accessibilità e che ho conosciuto proprio durante un evento di formazione: «Definisco l’accessibilità come la capacità di garantire a chiunque l’accesso al web, migliorando l’esperienza anche per coloro che non presentano disabilità evidenti. Con questa visione, mi impegno a sensibilizzare le aziende sull’importanza di rendere i loro siti web accessibili, affrontando sia la resistenza culturale che le normative vigenti».

Il bias cognitivo della bellezza

L’utente medio ha un pregiudizio rispetto ai siti. O meglio, chi progetta i siti – e ancor prima chi elabora le strategie di sviluppo dei siti per renderli, per così dire, appetibili – ha una frase in mente:effetto wow”. L’effetto wow è ciò che dobbiamo suscitare nei nostri clienti quando guardano i siti che realizziamo. Ma siamo proprio sicuri che questo è realmente ciò che gli utenti vogliono?

«Abbiamo sviluppato un bias sulla bellezza dei siti web – spiega Bernabei – per noi, un sito è considerato bello se è ricco di elementi visivi accattivanti. Questo è un aspetto su cui dobbiamo tutti rieducarci, riconoscendo che a volte ciò che è visivamente attraente risulta inaccessibile, e quindi è fondamentale muoversi nel design del sito con consapevolezza. Un sito non deve necessariamente avere elementi complessi o sovraccarichi per essere considerato accattivante. Seguendo le linee guida di accessibilità, è possibile creare esperienze utente gratificanti sia dal punto di vista estetico che inclusivo. Cerco di lavorare a stretto contatto con i designer per assicurare che i principi di accessibilità siano integrati fin dalle prime fasi del design, senza compromettere l’impatto visivo o l’identità del brand. Un approccio inclusivo non limita la creatività, ma la guida verso soluzioni innovative che migliorano l’esperienza per tutti gli utenti. Per esempio, un logo rosso acceso su sfondo bianco potrebbe non essere utilizzato su tutto il sito per motivi psicologici e di accessibilità, dato che il rosso su bianco non offre un contrasto sufficiente per essere facilmente percepibile da tutti. In questi casi, si può optare per una sfumatura più scura o per un altro colore che sia più fruibile».

Ma perché siamo così indietro e qual è la posizione delle istituzioni a riguardo? «Nonostante la Legge Stanca del 2004 che impone l’insegnamento dell’accessibilità nelle scuole superiori, durante i miei studi in informatica nessuno ha mai menzionato questo argomento. Ciò non per incompetenza dei docenti, ma perché l’argomento era semplicemente sconosciuto e lo Stato non ha fornito le linee guida per insegnarlo, nonostante la mia formazione si sia conclusa nel 2013, quando la legge era già attiva da tempo. Lo stesso discorso vale per l’università dove, nonostante i miei studi in ingegneria informatica, l’accessibilità non è mai stata considerata un tema rilevante. Questa lacuna si estende anche al di là dell’ambito accademico, toccando la formazione professionale offerta dai vari corsi».

L’importanza dell’accessibilità nei siti web è paragonabile, secondo Diana, all’inclusione di opzioni alimentari specifiche nei ristoranti: entrambe le pratiche mirano a far sentire accolti tutti gli utenti, indipendentemente dalle loro esigenze. «Quando ho iniziato a interessarmi seriamente all’accessibilità web, mi sono resa conto che uno degli errori più comuni tra gli sviluppatori è affidarsi ciecamente agli esempi disponibili online».

Diana spiega che molti esempi forniti a scopo didattico, pur essendo tecnicamente completi, possono essere eccessivi per le esigenze pratiche, portando gli sviluppatori a incorporare nel codice elementi superflui che non migliorano l’esperienza di navigazione con screen reader. Ciò ha contribuito a diffondere l’idea che per rendere un sito accessibile sia necessario compiere percorsi complessi, analogamente a quanto accade nell’architettura con le barriere fisiche. Proporre un sito parallelo “accessibile” è come segregare chi ha esigenze particolari, piuttosto che integrare l’accessibilità fin dall’inizio nel design e nello sviluppo. Questo approccio riflette una mancanza di empatia e comprensione delle reali esigenze delle persone con disabilità.

Un altro paradosso è che la Legge Stanca del 2004, che riprende le linee guida internazionali WAI del W3C per l’accessibilità web , impone che tutti i siti delle pubbliche amministrazioni e quelli di privati con un fatturato superiore ai 500 milioni negli ultimi tre anni, siano accessibili. Ma quante sono in Italia le realtà che rientrano in questa classificazione? Al 2023 circa il 43% dei siti istituzionali censiti sul catalogo IndicePA ha pubblicato la propria dichiarazione di accessibilità. C’è quindi ancora molto lavoro da fare.

L’accessibilità web deve diventare un imperativo etico che ci interpella sulla natura stessa di Internet e sul suo ruolo nella società contemporanea. La realizzazione di un Internet veramente aperto a tutti richiede un impegno collettivo, che coinvolga sviluppatori, designer, content creator e, più in generale, tutti gli utenti della rete. Le difficoltà delle persone con disabilità, spesso invisibili a chi naviga nel web senza ostacoli, sono il segno tangibile di una discrepanza tra il potenziale inclusivo di Internet e la sua attuale realizzazione. La sfida dell’accessibilità si estende a ogni utente della rete, poiché le circostanze personali possono cambiare in qualsiasi momento, rendendo ognuno di noi potenzialmente vulnerabile a questi ostacoli.

Promuovere l’accessibilità significa lavorare verso un futuro in cui nessuno sarà lasciato indietro, un futuro in cui, indipendentemente dalle circostanze, Internet rimarrà uno spazio aperto e accogliente per tutti. O forse in cui comincerà ad esserlo.

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