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Guide planetarie, nanomedici e filosofi della scienza: le nuove professioni del 2030

Intervista. Costruttore di parti del corpo, chirurghi per l’aumento della memoria, piloti spaziali, guardiani nei periodi di quarantena, responsabili per lo smaltimento dei dati personali. Sono alcuni dei fantasiosi “mestieri del futuro” che la società di lavoro temporaneo Generazione Vincente elencava in un articolo del suo blog già nel 2014. Ne abbiamo parlato con il professor Stefano Tomelleri dell’Università di Bergamo

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Più di sei anni dopo questo articolo, una ricerca condotta da Ernst and Young, Pearson Italia e ManpowerGroup conferma che i lavori del futuro saranno delle ibridazioni di competenze umanistiche e scientifiche, forse meno fantasiose, ma non così distanti da quel colorito elenco.

A raccontarlo con i dati è il rapporto intitolato “Il futuro delle competenze in Italia” frutto di una ricerca condotta con un algoritmo di machine learning, ovvero di apprendimento automatico tramite intelligenza artificiale. In cui è stato combinato il giudizio qualitativo espresso da esperti di molteplici settori del mercato del lavoro con i dati quantitativi tendenziali disponibili in open data. L’operazione ha messo in luce le complesse dipendenze tra le caratteristiche di una professione, declinate in termini di competenze, abilità e conoscenze richieste, e i trend occupazionali futuri.

I settori e le professioni in crescita

Per ciò che riguarda i settori professionali, il trend mostra una crescita, abbastanza scontata, nei servizi informatici e delle telecomunicazioni, ma anche l’aumento di richieste nel settore culturali e sportivo. Cresceranno anche i servizi dedicati alle persone e quelli di supporto alle imprese. Al contrario diminuirà l’occupazione nei servizi finanziari e assicurativi, nell’agricoltura, caccia e pesca e nell’industria della carta, cartotecnica e stampa.

La top ten delle professioni in crescita vede ai primi posti della ricerca analisti e progettisti di software e applicazioni web, ma anche sceneggiatori e consiglieri dell’orientamento. Vedremo annunci di tecnici esperti in applicazioni, analisti di sistema, ingegneri in telecomunicazioni, specialisti in cyber security e ingegneri elettrotecnici e dell’automazione industriale. Ma non solo. Le nuove figure professionali, che già ora iniziano ad essere richieste dal mercato, saranno sempre più espressione di una vita connessa. Alla rete, certo, ma pure nel rapporto uomo-macchina e nelle comunicazioni. Tuttavia non si lavorerà solo con i numeri. Accanto ai tecnici gestori di basi di dati ci saranno professori in discipline umanistiche. Gli elettrotecnici saranno richiesti tanto quanto i tecnici del reinserimento e dell’integrazione sociale, a dimostrazione di come la società sarà sempre più eterogenea e collegata.

Per capire meglio questa ricerca e i dati emersi abbiamo intervistato il professor Stefano Tomelleri che insegna sociologia generale all’Università degli Studi di Bergamo e che, in passato, si è interessato al tema del lavoro e dell’innovazione.

AS: Queste classifiche tendono a dare l’immagine di un futuro rivoluzionario, eppure già oggi esistono professioni che fino a vent’anni fa, quando le persone che le ricoprono stavano studiando, non esistevano. È un fenomeno che si ripete o c’è veramente qualcosa di nuovo?

ST: Ormai sono una ventina d’anni che stiamo vedendo una mutazione sociale delle professioni, caratterizzata da processi di ibridazione. Nei fatti molti lavori partono da professioni attuali che devono però arricchirsi di competenze diverse. La categoria dei medici permette di fare un esempio molto concreto: a loro, infatti, in futuro sarà sempre più richiesto di avere, oltre alle competenze specifiche, anche conoscenze in ambito economico e comunicativo. Più che chiederci dunque quali saranno le professioni del futuro dobbiamo capire quali processi di lungo periodo renderanno i confini di queste competenze sempre meno netti e definiti.

AS: Aumenteranno anche le collaborazioni fra professionisti.

ST: È un’altra tendenza da osservare quella del matching, ovvero della collaborazione fra professionisti. Aumentano sempre più i casi in cui, persone di ambiti differenti, si ritrovano a lavorare insieme su un medesimo progetto. Pensiamo solo a come si svolge la collaborazione interpersonale negli studi integrati o nel mondo del sociale. Per questo diventa molto importante, per il professionista, saper tradurre agli altri il suo linguaggio tecnico e il suo pensiero. È un passaggio fondamentale che prevede di avere una profonda conoscenza della propria specialità, ma anche una capacità di mediazione culturale con le altre professionalità.

AS: Dalla ricerca emerge che conoscenze umanistiche e scientifiche saranno richiesta in egual misura. Sarà abbattuta quindi la distinzione netta che le ha caratterizzate fino ad ora?

ST: La scuola ha già avviato delle esperienze che vanno in questa direzione, ma l’impianto generale prevede ancora la formazione di professioni separate e non ibridate. Pensiamo ancora una volta ai medici, nei loro piani di studio le scienze umanistiche scarseggiano, eppure ai nuovi dottori sarà richiesto sempre più di interfacciarsi con culture diverse e avere competenze socio-relazionali. Dovranno essere in grado di costruire un rapporto di fiducia con i propri pazienti e allo stesso tempo relazionarsi con l’economia della loro professione, riflettendo sull’opportunità di fare o meno interventi che hanno costi sociali elevati.

AS: Si parla tanto anche di competenze (skill) e delle ancor più famose soft skill. Nel frenetico tentativo di cercare queste competenze comportamentali in ogni nuovo assunto non si rischia di pretendere un’omologazione del carattere delle persone?

ST: Il dibattito sulle soft skill pone dei problemi e il primo fra questi è il rischio di allontanarsi troppo dalle competenze tecniche di una persona. L’aspetto caratteriale va sempre visto insieme alla competenza tecnica. È chiaro che in certe professioni, come quelle della cura, gli aspetti caratteriali sono molto importanti, ma si rischia di confondere le abilità relazionali con la visione integrata del professionista nel luogo di lavoro.

AS: Esistono anche esempi di geni dell’innovazione mondiale il cui carattere era tutt’altro che semplice per i colleghi di lavoro. Penso ai casi di Steve Jobs o Elon Musk…

ST: Di fronte a tali eccellenze dobbiamo chiederci se siamo in grado di sopportare le spigolature del loro carattere. In fondo, da un collega mi aspetto prima di tutto che sia preparato, poi mi auguro di potermici relazionare al meglio.

AS: Com’è ovvio in futuro l’automazione sarà sempre più presente. Nella previsione che le macchine svolgeranno buona parte delle mansioni si può parlare anche di dedicare meno tempo al lavoro e più ore alla cura dei propri pensieri e del proprio svago?

ST: Il rapporto fra tempo di lavoro e tempo di vita si lega profondamente alla storia delle professioni. Il libero professionista, per esempio, ha sempre avuto il controllo del proprio processo di lavoro, una relazione privilegiata col cliente e segue, in linea di massima, la propria vocazione. Per lui il tempo di lavoro e quello della passione coincidono e le ore dedicate alla professione non sono vissute come un’incombenza. Ma negli ultimi anni i professionisti stanno perdendo progressivamente autonomia e il controllo del processo di lavoro. Torno all’esempio dei medici: con l’aziendalizzazione delle strutture ospedaliere, sono arrivate figure manageriali a cui rendere conto delle proprie scelte e autonomie. Così i professionisti tendono ad assomigliare sempre più ai dipendenti, per i quali il problema del tempo libero è sempre stato fondamentale e forse oggi ai professionisti è chiesto di essere un po’ più dipendenti e viceversa. In ogni caso gli studi ci rivelano che se una persona non ha il tempo necessario per gustarsi la vita, perde in produttività.

AS: In tutto questo non abbiamo parlato dei capi. Anche loro cambieranno?

ST: Il tema della leadership è fondamentale. Alle nuove generazioni è chiesto di essere imprenditivi, produttivi e intraprendenti, perciò la leadership non è più una caratteristica esclusiva del capo, ma un’attitudine da coltivare. In Italia abbiamo avuto da sempre una cultura della leadership molto paternalista, connessa con il carisma e Bergamo è carica di esempi in tal senso; mentre la leadership è molto più variegata e ha stili diversi: esiste il leader coach, quello democratico, empatico. Non solo, in quarant’anni le organizzazioni sono cambiate, sono più complesse, il capo non lo incontri più in azienda perché viaggia o perché sta gestendo i suoi manager che sono parte di questa leadership. Rispetto al tema della guida, quindi, occorre non cadere nel rischio di trasformare l’imprenditività solo in una competenza tecnica, ricordando che il leader è una figura chiave proprio nella costruzione di quella cornice di senso e di motivazione che permette di generare passione e soddisfazione per la propria professione.

Pagina di Stefano Tomelleri sul sito dell’Università di Bergamo